Chi comunica, giornalista o meno, deve fare una scelta: raccontare ciò che la gente vuole sentire oppure raccontare ciò che sente e crede giusto, aldilà dei momentanei riscontri del pubblico. Chi fa la prima scelta arriva in anticipo, chi fa la seconda impiega più tempo e spesso non viene compreso. Il punto è: cosa ti interessa? Se ti interessano facili applausi e altrettanto facili riscontri non devi avere dubbi, scegli la strada del consenso ad ogni costo, dì quello che tutti vogliono sentire e ometti ciò che la gente teme o non capisce. Se invece, come auspicabile, prima del consenso e del riscontro delle persone che ti ascoltano o che ti leggono, poni un’idea del circostante, un tuo personale credo o semplicemente una certa onestà intellettuale, in questo caso la via giusta da prendere è la seconda. Quella che si preoccupa di trasmettere qualcosa di proprio e di vero, giusto o sbagliato si vedrà. Qualcosa che, almeno in quel momento, ritieni giusto comunicare perché ci credi, perché credi nella giustezza e nella forza di quel messaggio. Detto questo ognuno compie la scelta che ritiene giusta e se ne assume le responsabilità.
Già, perché ci sono grosse responsabilità. Sia quando dici qualcosa, sia quando lo ometti o vorresti farlo. Per esempio bisognerebbe riflettere quando si dice «non parliamo di psicologia perché alla gente fa paura», come accaduto ieri durante una trasmissione televisiva. Sarebbe grave anche non volerne parlare per un proprio gusto personale (perché bandire certi argomenti?) ma ancor più grave è rifiutarsi di parlarne per i gusti o le idee della gente. L’assunto non è errato. C’è della verità: purtroppo, ancora oggi, le persone hanno paura di parlare di psicologia o psichiatria. Sapete perché? Per quel vizio, deprecabile, di inscatolamento dei fatti e delle persone che purtroppo fatichiamo a perdere. Così le persone devono essere perfette, di successo, vincenti e, possibilmente, sempre felici. Gli uomini devono essere virili, forti, fisicati, senza dubbi o paure. Guai a piangere o ad ammettere qualunque debolezza. Le donne devono avere un fisico perfetto, misure da modelle, mai un capello fuori posto, devono sposarsi entro una certa età, possibilmente con uomo di un certo tipo, e avere figli. E via discorrendo in una lunga serie di assunti che nulla significano se non la chiusura mentale di colui che afferma. Assunti che sono alla base di grosse sofferenze psicologiche da parte di chi non vi si riconosce e spesso, per questo, viene scartato da un certo tipo di società come una caramella cattiva. Ecco, la psicologia prova a risolvere questo problema. Prova ad allungare una mano verso chi sta male “dentro”, come la chirurgia fa con il dolore fisico. Il problema è che, per questo incasellamento sociale, andare dallo psicologo significa essere deboli, avere problemi, non avere certezze, non essere realizzati, avere paturnie o fisse. Tutti termini assegnati come condanna a chi soffre. Tanto a giudicare siamo tutti bravi.
Noi vogliamo dirlo forte e chiaro: si parli di psicologia. Se ne parli sempre di più, in ambito sportivo e non. Se ne parli come si parlerebbe di qualunque altro argomento. Chi si rivolge a uno psicologo non è un debole, non è un fallito, non è una persona “problematica”. Chi si rivolge a uno psicologo sta soffrendo e ha tutto il diritto di farlo. Chi soffre e lo ammette ha coraggio, coraggio da vendere. Non bisogna avere paura delle proprie debolezze, sono queste a farci belli, a farci uomini e donne. Sono queste da coccolare e da ascoltare. Se chi comunica deve scegliere di omettere qualcosa, per tempo o volontà, scelga di omettere gli stereotipi, le frasi fatte, i modelli sbagliati e un certo modo di rivolgersi al mondo e agli altri, quello della faciloneria e della presunzione, che, per quanto possa riscuotere consensi e applausi, fa paura. Quello fa paura e deve far paura, non la psicologia. Punto e basta.
Foto: Bettini