«Agli atleti dico sempre che devono prendersi il permesso di levare la maschera che la loro quotidianità impone. Deve esserci almeno una persona in squadra con cui, anche solo per un’ora al giorno, essere se stessi e a cui dire ciò che provano, ciò che non va. Perché no, nemmeno i ciclisti sono superuomini con una vita perfetta e sempre al massimo. Talvolta, però, sembra lo si pretenda». Sarà questa una delle prime cose che Elisabetta Borgia dirà agli atleti di Trek-Segafredo, squadra che affiancherà dal prossimo anno.
«Scegliamo noi cosa raccontare agli altri. Dopo un allenamento estenuante in pista puoi mostrare sui social la realtà della tua fatica oppure puoi fingere che non sia successo nulla. Forse dovremmo iniziare a mostrare maggiormente quella fatica e anche qualche debolezza se vogliamo raccontare la verità. Altrimenti continueremo a diffondere l’immagine fittizia tipica dei social che vogliono tutte le persone senza problemi e spensierate. Questo fa male a tutti». Elisabetta Borgia pensa al ciclismo femminile e a quanto un racconto di questo tipo potrebbe permettere alla gente di conoscere e apprezzare sempre più l’impegno delle atlete.
Borgia spiega da anni queste cose, i primi corsi in Federazione li ha tenuti nel 2013 e in quei giorni si è resa conto di una spiacevole realtà. «Molti direttori sportivi venivano a questi corsi e non ascoltavano quasi nulla, facevano altro. Erano figli dei loro tempi, tempi in cui chi aveva bisogno di un supporto psicologico era un debole o un folle. Tempi in cui non si diceva di andare dallo psicologo per timore del giudizio, forse ce ne si vergognava anche. Dovevi trovare persone sensibili al tema per essere ascoltata». Se oggi la realtà è diversa, è anche perché nel tempo la pressione ha continuato a crescere, a dismisura. L’atleta è iperstimolato. Quando si parla di performance in realtà si parla di diversi fattori da tenere sotto controllo: l’allenamento, i battiti, la posizione, l’alimentazione e così via. «Se non riesci a dare una priorità e a gestire ogni aspetto, diventa impossibile. Molti ragazzi non sanno staccare, non sanno recuperare, non programmano nemmeno il recupero. Oppure, se lo fanno, si sentono in colpa perché, magari, alla sera del giorno di stacco vanno su Strava e vedono che il loro rivale ha fatto sei ore di allenamento». Il timore risiede nel giudizio e anche questo è amplificato: dai media, ai social, ai tifosi e alle persone che si incontrano per strada. Elisabetta Borgia è stata ciclista e ha smesso proprio perché, ad un certo punto, si è resa conto che non sarebbe potuta arrivare dove voleva. Una consapevolezza difficile da raggiungere, ma essenziale. «Attraverso la specializzazione estrema si portano i giovani a credere che sia necessario essere sempre i numeri uno in ciò che si fa. Ai giovani, invece, bisognerebbe anzitutto dire che ci sono delle cose che non si possono cambiare e vanno accettate per quello che sono: alcuni nostri limiti ad esempio. Un conto è voler vincere, altro conto è capire che ci sono aspetti su cui devi lavorare per migliorare, per crescere. È possibile lavorare solo su se stessi per cui, quando abbiamo raggiunto il meglio di ciò che siamo capaci di fare, abbiamo già vinto. Ognuno fa il proprio lavoro: la squadra chiede vittorie, com’è giusto che sia, io come psicologa dello sport spiego questo. Sono due aspetti che devono andare di pari passo ed integrarsi».
In realtà, la sua è una figura abbastanza nuova nello sport e nel ciclismo. In Italia, poi, su questo tema si fa molta confusione. «Manca una regolamentazione specifica. Per fare questo lavoro serve una laurea triennale specialistica e una specializzazione in psicologia dello sport. Chissà perché, però, continuiamo a confondere psicologo e mental coach. Il rischio è elevato. Si può essere mental coach anche attraverso corsi di qualche giornata, ma di certo non si ha la preparazione per trattare certi aspetti. L’effetto placebo esiste e può fare in modo che momentaneamente l’atleta rimuova il malessere: il punto è che se non viene trattato adeguatamente tornerà fuori, perché non si è agito sulla causa. Apro una parentesi: lavoro anche in una comunità di recupero per tossicodipendenti, affrontiamo problemi importanti e ne siamo coscienti. Perché dobbiamo pensare che nello sport, invece, sia tutto all’acqua di rose?». Borgia cita dati: il CIO ha un’equipe che si occupa di seguire la parte mentale dello sportivo, la ricerca dice che atleti ad alto livello hanno una maggiore percentuale di problematiche di questo tipo, non si può far finta di non sentire. «Prendiamo i disturbi alimentari in donne nella fascia 14-17 anni: le sportive ne soffrono in tassi più alti. Per una donna è più facile perdere mezzo chilo di peso che aumentare in watt e a forza di lodare la magrezza come soluzione ad ogni problematica si è giunti a questo punto. Ho parlato recentemente con Paolo Sangalli, il nuovo D.S. della nazionale femminile su strada e mi ha confermato l’intenzione di fare dei corsi in tal proposito per le ragazze junior».
L’integrazione in squadra sarà lenta e avverrà, in primis, attraverso la partecipazione ai ritiri, ma Borgia precisa: «Nessuno sarà obbligato a parlare con me. Alcuni ragazzi potrebbero non volersi aprire ed è giusto così. È un meccanismo di difesa naturale perché la figura dello psicologo può risultare scomoda. Farò dei colloqui conoscitivi, ma soprattutto starò con la squadra. Il primo passo per essere accettati è la presenza, se vedono che sei lì sanno che comprendi i sacrifici e la fatica che questa vita comporta. Il mio passato da ciclista mi aiuta ad essere credibile in ciò che suggerisco, per esempio quando parlo di giudizio». Borgia sottolinea che gli aspetti da considerare sono tre: concentrazione, recupero e bolla di fiducia. «La concentrazione si allena: dai tutto in quel momento avendo la testa solo lì, poi stacchi, non ci pensi più e nella tua realtà ti circondi di una bolla di persone di cui ti fidi con cui non devi fingere». Anche perché la pressione si insinua in meccanismi impensabili: alcuni atleti vivono con pressione anche le foto o le storie da postare per gli sponsor e bisogna saperlo.
«Comunicare vuol dire sapere chi ti trovi di fronte e come puoi parlargli. Al termine di una gara andata male ci saranno ragazzi o ragazze con cui lo sprone verrà da un rimprovero e altri con cui il rimprovero non servirà a nulla e li porterà solo ad avere più dubbi e a chiudersi in se stessi. Se vedrò situazioni di questo tipo ne parlerò con i direttori sportivi. A volte basta una caduta e il corridore entra in una fase negativa». In molti casi, il ruolo di Elisabetta Borgia sarà di mediazione. «Può capitare che un componente dello staff, un meccanico ad esempio, a fine stagione sia nervoso per via della stanchezza e del tempo lontano da casa. Alcuni atleti non ne risentono, altri captano questo nervosismo e tutto si ripercuote sull’ambiente di squadra». Nel caso di un altro tipo di comunicazione, quella mediatica, Borgia non se la sente di dire nulla ai media, perché fanno il proprio lavoro, quello che può chiedere è maggiore attenzione per l’aspetto personale.
In tutto questo, Borgia evidenzia l’importanza del lavoro con i giovani per tutelare la tridimensionalità della loro vita, qualcosa che si va a perdere quando si trattano ragazzi di quindici anni come professionisti affermati. «Si saltano troppi step, dandoli per scontati, salvo poi parlare di carriere brevi o di calo dei risultati. Il ciclismo è identità e se a quell’età non hai alle spalle una famiglia ragionevole, la prima cosa a mancare è l’istruzione, la scuola. Il rischio è di arrivare a trent’anni senza conoscere, senza conoscersi. A quel punto si può far poco perché le persone faticano a cambiare abitudini consolidate. Bisogna lavorare prima, mentre tutto è in costruzione, in formazione».
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