La prima reazione al ritiro a fine stagione di Tom Dumoulin, per i suoi tifosi, assomiglia probabilmente a quella di quel ragazzo alle Scale di Primolano, in quel caso parlando del ritiro al Giro d’Italia qualche giorno prima. Un “no” prolungato, perché il ritiro toglie, sottrae, è una mancanza. Delle vittorie o semplicemente della presenza di un ciclista: anche in difficoltà, anche in coda al gruppo. È la mancanza di un modo di fare, di correre, talvolta di un’attesa. È, invece, la presenza più forte di un ricordo che torna, cercando il paragone con chiunque, perché l’istinto, quasi sentendosi impoveriti, è il confronto per cercare qualcuno di simile, qualcuno in cui riconoscersi: allora chi farà qualcosa di simile a Dumoulin nel 2017 ad Oropa?
Nel caso di Dumoulin, qualcuno ci ha spiegato che riconoscersi in lui è stato anche riconoscersi in un momento di difficoltà, nella semplicità del tornare a bordo strada a vedere una gara, a vedere il ciclismo, prima di tornare in sella e dopo quella pesantezza tornare a sentirsi leggero come deve essere un ciclista, perché una bicicletta che va parla di leggerezza, sempre, in salita ancor di più. Riconoscersi in Dumoulin è stato ed è quindi riconoscersi in un ritorno o almeno nella possibilità di tornare, di fermarsi e ricominciare.
Così capiamo bene chi quello stato di frustrazione del ragazzo delle Scale di Primolano lo ha vissuto in maniera ancor più forte per l’annuncio del ritiro a fine stagione. Perché questa volta Dumoulin ha fatto capire chiaramente che un ritorno, almeno come ciclista, non ci sarà. “Magari ci ripensa” ci hanno detto. Qualcuno ha anche aggiunto: “Speriamo che ci ripensi”. Ed è importante perché quel verbo restituisce il valore di un singolo in un gruppo di ciclisti che potrebbe essere visto come “il gruppo” in maniera generale, con quell’articolo determinativo che lo connota, ed invece in quel gruppo ciascuno cerca qualcuno. Come quando il gruppo passa su una strada e si guarda l’insieme ma si cerca il dettaglio.
È importante come è importante sottolineare le altre parole, quelle di chi, nei ritiri, sottolinea il bisogno, la necessità di ritirarsi talvolta. I tifosi lo fanno, magari non subito, in preda al dispiacere, ma lo fanno. Anche quel ragazzo a Primolano lo ha fatto, quando ha detto: “Non poteva fare altrimenti, altrimenti avrebbe continuato”. Non da poco, perché è come dire: “avrei voluto tifarlo in corsa, ma se per lui è meglio così…”. C’è di più: talvolta il ritiro può non essere l’unica possibilità, solo una delle tante, ma quella scelta, quella che fa star meglio in quel momento. L’uomo o il ciclista.
Anche se non fosse l’unica è giusto accettarla, condividerla. Dumoulin ha detto che la strada lenta del recupero, già scelta altre volte, non è quella che si sente di scegliere questa volta. Che la stanchezza, che pur fa parte del mestiere del ciclista, come la fatica del resto, questa volta è troppa ed è giusto dire basta. Giusto per se stesso, prima di tutto.
In quel gruppo, quindi, anche chi lo aspetta si dovrà abituare alla sua assenza. Un’abitudine che potrà essere leggera come quella bicicletta nei giorni migliori, se si farà proprio il motivo della scelta. E chi aspetta tanto per vedere passare un uomo in bicicletta è capace di farlo molto bene. Perché chi aspetta accetta il rischio di un’attesa più lunga, dell’afa, della pioggia o anche di un ritiro che comunicato via radio ti avvisa che quel ciclista, oggi, non passerà.
C’è un forte valore nel tornare, un esempio per tanti, che hanno bisogno di fermarsi e di sapere che ripartire è possibile. Ma c’è un valore altrettanto forte nel fermarsi e nel non fare ritorno, non in quella veste almeno. Il valore di chi ha scelto di salvaguardare se stesso, perché anche saper cambiare fa la differenza. Tanti tifosi potranno riconoscersi, e si sono riconosciuti, anche in questo: cambiare, quando la stanchezza o la sofferenza sono troppe, e continuare.