Mathieu van der Poel ha compiuto 29 anni a gennaio e da pochi giorni ha conquistato il suo terzo Giro delle Fiandre in sei partecipazioni, ottenendo come peggior risultato il quarto posto nel 2019 e salendo sul podio per cinque edizioni consecutive dal 2020 al 2024. L’olandese, nel 2019, era ufficialmente un neo professionista e quindi all’esordio nella “sua” corsa, quella che più di ogni altra sembra fatta apposta per esaltare le sue doti da equilibrista, l’esplosività, la resistenza, la velocità, oppure una delle cose che sin da quando era ragazzino amava più di tutte: correre faccia al vento. Era all’esordio e nonostante ciò era considerato uno dei grandi favoriti per la vittoria, per Tom Boonen, per Patrick Lefevere e per Roger De Vlaeminck, tanto per citare qualche nome che si espresse alla vigilia. Per il suo compagno di squadra, all’epoca, Stijn Devolder, che, oltre ad aver vinto un paio di Fiandre, aveva corso sia con Cancellara che con Boonen, era il più grande talento mai visto con i propri occhi.
Van der Poel quella volta, però, tenne fede, più che ai pronostici, a quel suo modo un po’ naïf di interpretare le corse e che fino a un po’ di tempo fa pareva marchio di fabbrica: si dilettò nel provare ad auto sabotarsi rischiando l’osso del collo per saltare un marciapiede con la bici, finendo per rompere una ruota, cadere e inseguire il gruppo in un momento caldo della gara e restando appannato sull’attacco vincente di Alberto Bettiol.
Quanto è cambiato da quella volta? In realtà nemmeno molto, mi spiego, il suo è semplicemente un processo evolutivo naturale per un corridore considerato a tutti gli effetti, già quando muoveva i primi passi tra gli allievi, uno dei futuri dominatori del ciclismo di ogni tipo, almeno quello praticato da lui: ad esempio, parlando di ciclocross, emblematica la stagione 2010/11 quando si laureò campione nazionale allievi. Quel successo fu il ventiduesimo su ventidue gare disputate. Lasciare le briciole agli altri, fare filotti inimmaginabili diventerà un altro dei suoi modi di imporsi all’attenzione di tifosi, media e avversari. Sia tra gli junior che tra gli élite manterrà un ruolino di marcia impensabile e difficilmente battibile fino a quando, in futuro, non uscirà fuori un altro fuoriclasse di queste dimensioni.
Mathieu van der Poel, da quando ha iniziato a pedalare seriamente, quindi non valgono i racconti fatti su di lui da nonno Poulidor che ne preconizzava un futuro da campione o di papà Adri che se lo portava dietro alle gare di ciclocross quando a malapena Mathieu camminava, ha subito mostrato di avere qualcosa in più. Già quattordici, quindici anni fa in Belgio e in Olanda si parlava di lui come di quel campione che è poi diventato: aveva le stimmate, si diceva, la testa sulle spalle (“è un ragazzo che ama la bici, ma non si finisce negli allenamenti perché prima vuole finire gli studi”): è vero, spesso sono epiteti che si sprecano un po’ a caso, ma chi ha seguito l’evoluzione del suo percorso o anche chi, semplicemente, in questi mesi si fosse approcciato alla materia, troverebbe in giro tracce eloquenti lasciate dal giovane van der Poel. Tracce che avrebbero fatto presagire il suo futuro, che è ora suo il presente.
C’ha messo poco a farsi capire: vincente in tutte le categorie sia su strada che nel cross, amore che non ha mai abbandonato -ha vinto 8 titoli iridati sommando tutte le categorie-, da quando è passato professionista ogni gara con lui presente è un’attesa. Negli ultimi dieci o quindici, forse anche vent’anni pochi corridori sono stati preceduti da simile fama e aspettative. Pochi, forse solo uno: Remco Evenepoel.
Ha limato i suoi difetti – gli attacchi scriteriati – ora quando attacca è perché si sente, lo è, il più forte. Quando vinse l’Amstel Gold Race, nel 2019, aveva da poco conquistato pure la Dwars door Vlaanderen: in quelle settimane capimmo come, dopo averlo atteso, fosse sbocciato. Era evidente come quella vittoria in Olanda sarebbe stata solo la prima di una lunga serie e che anzi, da lì in poi avrebbe provato a correre meno rischi nel conquistare i suoi successi più importanti. L’Amstel di quell’anno, tanto assurda quanto spettacolare nel suo epilogo, gli fu consegnata da un suicidio tattico dei fuggitivi, quella volata finale è spesso rimasta nell’immaginario dei tifosi come uno dei numeri più vanderpoeliani di sempre, ma in realtà ogni sua vittoria diventerà vanderpoeliana: spettacolare, veloce, fatta di fondo e di forza, di esplosività e numeri record di ogni genere: dalle punte di watt alla resistenza in avanscoperta. Come ha vinto Strade Bianche o Milano Sanremo: facendo esplodere gli avversari nel finale; come ha vinto il mondiale di Glasgow o l’ultimo Fiandre: resistendo ai tentativi di cottura a fuoco lento dei suoi avversari e poi annichilendoli, lasciandoli sul posto, rimanendo solo al vento per un tempo abbondante.
Quando vinse l’Amstel si capì benissimo cosa sarebbe diventato: un autentico bastonatore di avversari. Di lì in poi ci sono stati momenti che ne hanno costruito il bagaglio tecnico e che lo hanno aiutato a capire dove avrebbe dovuto migliorare. Ci sono state le crisi – fame e freddo al Mondiale ad Harrogate – gli attacchi folli che ci hanno fatto innamorare di lui – Castelletto alla Tirreno – attacco vincente ma che gli costò in termini di energie la Sanremo successiva; c’è la sua unica partecipazione al Giro che ancora la ricordiamo: accendevi la tv e te lo trovavi già in fuga dal mattino. Ci sono stati episodi spiacevoli come quelli alla vigilia del mondiale australiano, arrestato e poi rilasciato dopo alcuni problemi con dei vicini rumorosi.
Anche in conseguenza di alcuni problemi fisici che ne hanno rischiato di compromettere la carriera, negli ultimi due anni è maturato, tatticamente, mentalmente, appare più riflessivo e deciso, sa quello che vuole. Freddy Ovett, star di Zwift, amico e compagno di allenamento di van der Poel dice di vederlo, in questo periodo, sereno, allegro, felice: questo gli permette di arrivare a ogni corsa consapevole di essere superiore alla concorrenza, coscienza che stimola poi una realtà effettiva che aumenta quando mancano Pogačar e van Aert, o con un Pedersen non al meglio (tutti e tre hanno saputo batterlo in corse importanti, anche di recente), di sapere sempre quale sia il momento giusto per affondare il colpo. La squadra, aspetto importante, è cresciuta ed è costruita a sua immagine e somiglianza; fondo ed esplosività non gli sono mai mancati: da quando ha iniziato a vincere tutto sembra non volersi fermare più.
Van der Poel è, attualmente, il corridore più fiammingo che ci sia, con buona pace di quelle brutte persone che gli lanciavano birra mescolata a buu di sdegno, lungo il passaggio sull’Oude Kwaremont e il Paterberg o di chi ancora getta ombre o di chi si chiede come sia possibile dominare in questa maniera un certo tipo di gare: van der Poel è una spanna superiore a tutti. Semplicemente.
Domenica, alla Roubaix, vorrebbe essere il primo corridore non belga di passaporto – lui è nato in Belgio, ma è olandese – né svizzero, a vincere nello stesso anno le due più importanti corse del calendario – insieme a Tour e Mondiale – ovvero Fiandre e Roubaix, una doppietta riuscita a pochi e nemmeno a tutti i più grandi. Suiter, svizzero, nel 1923, fu il primo, Cancellara, svizzero, l’ultimo, due volte: 2010 e 2013. In mezzo solo belgi: Gijssels nel 1932, Rebry nel 1934, Impanis 1954, De Bruyne 1957, Van Looy 1962, De Vlaeminck 1977, van Petegem 2003, Boonen 2005 e 2012. Non sarà facile, guarderà anche in casa per trovare l’avversario più temibile, ma sulla carta è lui il più veloce di tutti.
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