Quello che hai e quello che puoi. Anche oggi, anche a Bellante, è stata tutta e sempre questione di quello che hai e quello che puoi. Non solo davanti, non solo per Tadej Pogačar che ha vinto, per ognuno, in ogni tratto di strada. Partendo dal fondo, dove la corsa sembra lontana, dove la calma può arrivare a tramutarsi in noia per chi aspetta: in realtà è dolore per chi può appena stare davanti al veicolo di fine gara, per chi si sente atteso, sente che anche l’appassionato che ha provato, per gioco, a seguire la vettura scopa andrebbe più forte di lui. La chiamavano scopa perché non lascia indietro nessuno. E l’abbiamo visto spesso: basta un cenno, un minimo segnale con la mano, il guidatore scende, apre la portiera e carica la bici. Quello che puoi e quello che hai: talvolta solo la possibilità di salire in macchina.

Talvolta solo la noia. Allora, chi è in fondo al gruppo, al seguito della corsa, si saluta, quando l’andatura rallenta picchia sul vetro della macchina più vicina, chiede come vada, fa una battuta. Un modo per andare avanti. Capita che qualcuno scenda dalla macchina e, nei tratti in cui scorge qualche borraccia, la raccolga. La butta in auto, non la guarda nemmeno perché non si può. Non c’è una sacca in cui metterla, non c’è nulla. Magari ce ne sono tre, quattro vicine, se ne raccoglie appena una e si va via. C’è una cadenza, un rito stabile: i frecciatori che tolgono le indicazioni stradali: un’auto dietro il fine corsa, che cancella i segni della gara. Lascia solo il ricordo, può solo quello.
Quello che puoi e quello che hai, intrecciati dalla partenza dove due atleti francesi si chiedono di Giovanni Visconti. Ci pensano e non sono gli unici. Quando un ciclista smette l’effetto è questo, perché non può più e fa strano a pensarlo. Sai che finirà, prima o poi, hai questo punto fermo ma quando succede fa strano, perché il mondo fuori da qui è diverso. È diverso ciò che hai, è diverso ciò che puoi. Non puoi tornare, ad esempio, e questo ti spiazza. In bicicletta, vada come vada, puoi tornare, puoi riprovare.

Ieri avevamo parlato dell’orgoglio di Evenepoel: potevamo solo immaginarlo, oggi l’abbiamo visto, oggi sappiamo di cosa è fatto. Dei cartelli dimenticati bordo strada: «Attacca adesso, Remco. Per favore». Puoi chiedere, hai solo quella possibilità, perché le gambe non sono tue. Puoi chiedere per favore, lo fai.
Poi c’è Pogačar che, in questi giorni, sembra potere e avere tutto. Tutto ciò che serve per riuscirci. Tutto ciò che serve perché sembri facile e le cose difficili sono belle proprio quando sembrano facili. Non è difficile per il percorso, non per la salita di Bellante, che anche ripetuta è digeribile. È difficile perché non sarebbe la tua tappa, non sarebbe la tua giornata, nemmeno il tuo percorso. Eppure ti arrangi con quello che hai. Che poi arrangiarsi non è il verbo giusto per quello che fa Pogačar. Il suo predicato è costruire, mettere assieme, unire il tempo. In secondi, in minuti. Guarda gli altri, li provoca, li stuzzica. Forse li illude anche, pensiamo a Victor Lafay che un colpo simile se lo era già inventato al Giro lo scorso anno, e poi decide quale carta buttare sul tavolo.

Qui aspettavano Alaphilippe, perché è lui e perché il Campione del Mondo che vince nella tua città fa sempre un certo effetto. Qui aspettavano Giulio Ciccone, perché siamo in “terra d’Abruzzi” e tutti lo chiamano per nome, che fa casa, che fa uomo, ragazzo di queste strade prima che ciclista. Qui hanno applaudito Quinn Simmons che ha attaccato tutto il giorno e, appena ripreso, si è messo a lavorare per i compagni. Quello che hai, quello che puoi, ma anche quello che non hai e non puoi più, quello che senti di dovere. In fondo quello che sei.
Un ciclista. Come Magnus Cort Nielsen che è arrivato con quasi ventidue minuti di ritardo, davanti a quella vettura che non abbandona nessuno, che segue e aspetta. L’unica cosa che si poteva fare oggi con Cort Nielsen, una delle poche che si possa fare con la sofferenza, col dolore. Gli hanno detto: “Dai che ce l’hai fatta”. Ce l’ha fatta davvero, con quello che ha e con quello che può. In testa, in coda, persino su un’ammiraglia dopo il ritiro, è sempre tutto lì.