Mentre Elisa Vottero pedalava verso la Cappadocia, anche suo padre era in bicicletta, in Sardegna, per fare il giro dell’isola. Ad un certo punto, un messaggio, poi un altro e, alla fine, una chiamata: «Mio papà era arrivato e stava piangendo. So cosa si prova, so cosa si sente quando, dopo tanto tempo, arrivi nel luogo che ti eri immaginato. Si può piangere, urlare, gridare, ridere di gusto. Bisogna farlo, ovunque, anche in mezzo a una piazza piena di gente. Credo sia sbagliato nascondere quello che si sta provando. Noi siamo fatti di questo». Così Elisa, ma tutti la chiamano “Sisa”, ha chiuso quella telefonata. «Ci sentiamo dopo» ha detto e, poco dopo, suo padre l’ha richiamata. «Buon viaggio, fai attenzione!». È felice Sisa perché lei e papà hanno provato la stessa cosa, seppur a distanza di molti chilometri. Come continuare a diventare padre e figlia, sempre più, attraverso la condivisione di un momento.
Elisa Vottero è partita da Trieste il 6 ottobre e arriverà in Cappadocia a fine mese. È partita da sola e ogni giorno ha tanta paura quanto coraggio, però in quella scelta, nell’essere in viaggio da soli, continua a credere, in ogni autunno in cui prende la bicicletta e va. «Forse ho bisogno di fare i conti con le mie mancanze, quelle che, prima o poi, viviamo tutti, di sentirmi viva, capace di farcela anche da sola. Forse è la voglia di fare qualcosa che sia solo mio, più o meno importante, ma costruito da me. Forse è quel sogno di poterlo raccontare un domani ai miei figli e di dire loro di andare, di viaggiare, di scoprire, anche quando la gente proverà a spaventarli, a dire che sono folli, che da soli non si può». Lei sarà lì in quei giorni e non dirà nulla, solo: «Posso venire con voi?» e, mentre partiranno, allontanandosi da casa, dirà anche lei quel “fate attenzione” di suo padre. Poi li guarderà andare e li penserà.
Ora è in Montenegro, ha visto i tramonti infuocati di una Croazia accesa accanto al mare, ha sentito malinconia in Bosnia, negli sguardi tristi e nel desiderio di andare, e ha scoperto che in Montenegro si parla italiano e, quando dici che sei di Torino, ti chiedono subito se sei tifoso della Juventus. Negli ostelli si è sentita ancora ragazzina e allo stesso tempo donna, per la voglia di condividere una stanza, per le parole che escono libere e tutte le cose che si fanno in adolescenza, ma anche la voglia di stare sola, a sera, di riguardare le foto, di ripensare e, poi, di scrivere qualche riga su un foglio per ricordare come ci si sente. «Non ci sarà nessuno a cui potrò chiedere: “Ti ricordi come eravamo felici quella sera?”. Per questo devo fare più attenzione, devo ricordare meglio e di più. Non posso perdere nulla». Tra l’latro, continua Sisa, fosse stata in compagnia non ci sarebbero state tante cose: quel momento di commozione, qualche minuto prima, mentre una ragazza suonava il violino, i sorrisi alle persone che incontra, giusto qualche parola, e, forse, nemmeno questa telefonata mentre fuori comincia a farsi buio.
In Croazia, diverse donne, diverse ragazze, le hanno detto che dovrebbe pensarci, forse tornare indietro, perché è un viaggio troppo lungo per essere soli. Lei ha risposto così: «Tu conosci bene questa terra, benissimo, non ho dubbi. Ma fuori da qui, quanto conosci? Quanto conosciamo fuori dalla nostra città? Forse giudichiamo molto perché conosciamo troppo poco e se conosci poco, poi, giudichi».
Il resto è una questione di energia, di energie. Qualcosa che arriva dalla terra, come dalle persone. Qualcosa difficile da raccordare con la mente. «Forse per proteggerti, ma la mente dice un sacco di bugie. Ti blocca, ti ferma. C’è un parte, invece, che è libera: io la chiamo energia ma si può chiamare in molti modi. Non dico di non ascoltare la mente o di sfidarla troppo, però, almeno concediamoci una possibilità. Se sentiamo di voler fare qualcosa, almeno la prima volta, diamo retta alle sensazioni. Io avevo paura a pedalare col buio e la mia testa mi diceva di non farlo. Ci ho provato e, quando sono arrivata, ero così contenta che avrei telefonato a tutti per raccontarlo».
Quando arriverà a Istanbul, la Cappadocia sarà ancora lontana, ma quella porta sulla Turchia la sorprenderà, come quel bosco autunnale all’ingresso, in Montenegro. Sarà il primo passo verso “l’avercela fatta”. L’anno scorso, Sisa era partita per il Marocco, un viaggio in bici, come quello di quest’anno, ma qualcosa non è andato per il verso giusto e, a metà strada, Elisa Vottero ha scelto di tornare indietro, di mollare, di rinunciare. Ci ha pensato? «Sì, ogni mattina, quando mi sveglio, quando programmo i traguardi della mia giornata. Penso che quella volta non ce l’ho fatta ed è difficile, anche se sono piccoli traguardi. Fin da bambina mi sono spesso sentita sbagliata e quando ti senti così il fallimento non puoi accettarlo. Tu devi riuscire, devi dimostrare per colmare quella sensazione. Ho capito che è sbagliato, che non bisogna vergognarsi di fallire, di fermarsi, anche di rinunciare perché nella vita può succedere e succede spesso anche per cose più importanti di un viaggio in bicicletta». Si è più leggeri con questa consapevolezza e in bicicletta serve.
«Tutti non ci si può stare su quella sella e quando devi andare lontano bisogna alleggerirsi. Lo facciamo con i bagagli, perché non dovremmo farlo con la nostra mente?». Un bicchiere d’acqua e si riprende a parlare: «Non so se ce la farò, non so se davvero arriverò in Cappadocia, in certi momenti ne sono quasi sicura, in altri mi sembra così lontana. Però posso svegliarmi ogni mattina con un traguardo, provare a raggiungerlo, sentirmi fiera di me, completa pur con ciò che manca e questo mi fa felice, mi commuove anche». La felicità che serve per un viaggio verso Oriente e per quei giorni d’autunno in Cappadocia, che Sisa Vottero aspetta di vivere. Saranno suoi, solo suoi. Costruiti, plasmati, levigati, messi in ordine: questo è l’importante, questa è la cosa da fare con i giorni a cui si tiene e che si aspettano da molto.