È vero che una corsa di bicicletta, a questi livelli, non è come fare sciambola, direbbero a Milano. Divertirsi in modo sfrenato, fare baldoria. Nemmeno se sul podio in premio c’è un enorme boccale di birra. È intrinseco proprio nell’atto del pedalare dover fare fatica per vincere, o semplicemente per arrivare.
Certo, vedendo Mathieu van der Poel il più delle volte, potremmo essere smentiti, anche se oggi, dato pure il volto un po’ incupito all’arrivo e le sue parole – «Abbiamo rischiato ma ci è andata male» – ci sentiamo dalla parte della ragione nel sostenere questa tesi.

L’Amstel Gold Race, poi, è tutto fuorché un divertimento, almeno per chi la corre. Un continuo e snervante susseguirsi di strappi, curve, rilanci, cadute, frenate, corridori che si arrotano, incidenti, attacchi, crolli improvvisi. Insomma, tutto il campionario che una corsa al nord si porta appresso. Pietre o salitelle, côte o berg, poco cambia.
E quindi? Proprio perché il ciclismo ha in sé tutti gli aspetti del dramma, siamo costretti a vivere finali di questo genere? Non bastava così? Per un attimo ci rivolgiamo proprio a te, ciclismo, nella fattispecie a te, Amstel Gold Race: non ci tieni proprio alla salute dei corridori e al cuore degli spettatori? L’ultimo chilometro, anche oggi come già qualche giorno fa al Fiandre, è da vivere con i nervi a fior di pelle, per chi guarda da casa che non sa stare fermo, per chi è davanti e si gioca la vittoria, perché non sa mai qual è il momento migliore per partire, o la posizione migliore, perché se rallenti dietro ti prendono, però non vuoi nemmeno favorire il tuo avversario.

Oppure per chi da dietro insegue. Frena per risparmiare qualche prezioso grammo (si misurano in grammi?) di energia; sta al vento e chiede il cambio che non gli viene dato e poi parte qualcuno di lato e bisogna fare un altro sforzo per andargli dietro e così via.
Ciclismo sei crudele, Amstel Gold Race sei beffarda. Noi non vorremmo essere nei panni di Cosnefroy. Anche quest’anno, come l’anno scorso, hai deciso che il verdetto definitivo lo avrebbe scelto il fotofinish, ma c’è modo e modo, dai.

Allora ha ragione Thomas De Gendt quando sostiene che prima di assegnare una vittoria bisognerebbe aspettare il fotofinish, ma forse chi scrive la sceneggiatura di questa corsa ultimamente ha deciso di inserire pathos ulteriore a un sistema che già di suo ti manda in fibrillazione e in ansia come fosse un thriller svedese.
Noi non vorremmo avere la faccia di Cosnefroy. Dopo il traguardo la telecamera indugia su di lui come si fa col possibile vincitore. Arriva la comunicazione che dice “hai vinto”. Lui, giustamente, esulta. Sarebbe la vittoria più importante di una carriera che promette bene, ma che ancora non ha preso lo slancio.
Poi c’è l’attesa. Perché non si sa mai, perché appunto c’è lo sceneggiatore a cui piace infierire e c’è la corsa crudele. Le immagini smentiscono la prima chiamata e mostrano come, per qualche centimetro, è più avanti la ruota di Kwiatowski, volpe se ce n’è una, del ciclismo contemporaneo. Corridore, se ce n’è uno, forse per motore e testa, per pacatezza e abilità, che sembra tagliato apposta per i berg del Limburgo, per quelle stradine che sollecitano in maniera esagerata nervi e muscoli. Tanto da far sacrificare quel marcantonio di Turner, Sua Eleganza in Bicicletta van Baarle, o il talento sconfinato di Pidcock.

Così alla fine abbiamo capito il perché della birra. Non c’entra nulla con lo sponsor della corsa, serve a distendere i nervi. Kwiatkowski si fa la foto con la versione gigante del boccale e si scola una versione piccola. Mentre Cosnefroy dice: «Se piangessi dopo un podio, dovrei smettere di pedalare. Riesco sempre a mettere le cose in prospettiva, questa è la mia forza. Sul podio ero emozionato, altroché. Nemmeno van der Poel è salito sul podio. Sinceramente, non c’è niente per cui piangere». Le immagini lo inchiodano, il pensiero gli è venuto dopo essersi scolato pure lui una birra piccola.