Words: Alessandro Autieri
Voice: Luca Mich e Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda
Sono le 16.55 del 10 aprile 2016 quando i corridori in testa alla gara entrano nel velodromo di Roubaix. Il cemento dell’ovale rimbomba come un frastuono, il cuore degli spettatori, quello dei corridori, dei direttori sportivi, batte ritmato fino in gola, gli attimi diventano eterni, come il silenzio improvviso del pubblico che si rende protagonista di un involontario gioco coreografico.
Prima di quel momento ci sono le urla, quasi tribali, in attesa di questi eroi moderni fatti di pelle e bici che stanno per entrare da un momento all’altro; c’è un fitto viavai di giornalisti tra la sala stampa e il prato al centro del vecchio impianto sportivo che ospita l’arrivo della corsa. Sgomitano per accaparrarsi un posto in prima fila, per scattare la foto migliore o strappare interviste a caldo; c’è il farfugliare dei tecnici trepidanti per quello che sta per avvenire. Bandiere di ogni nazione che sventolano sugli spalti, striscioni dei fans club. Si prepara il podio e il trofeo da dare al vincitore: un’enorme pietra. Un sasso vero, estratto da uno dei tratti attraversati dalla corsa, un blocco di pavè lavorato dalla Marbrerie Slosse di Orchies. Poi cala il silenzio come una ghigliottina; una quiete quasi religiosa, un momento di catarsi, nell’attesa di capire chi entrerà per primo e chi la spunterà infine sulla linea del traguardo.
Un silenzio che d’improvviso si alterna a grida cadenzate, al sibilo delle ruote, a quei pensieri che si fanno quasi tangibili: arrivano i corridori! Tom Boonen sta per vincere la sua quinta Parigi-Roubaix; non potrebbe andare diversamente: chi può batterlo? Sta per entrare nella storia, nel giorno dell’ultima vittoria qui per mano del suo più grande rivale, Fabian Cancellara. Boonen si appresta a superare Roger de Vleminck, diventando il nuovo “Monsieur Roubaix”. Boonen e Roger, capaci entrambi di vincere quattro volte questa corsa, amata da una parte del gruppo, odiata da altri, assurta infine a vero e proprio mito: si dice che questa gara sia capace di cambiarti. All’interno del velodromo, per disputare le ultime centinaia di metri assieme, le vittime designate: Mathew Hayman, Sep Vanmarcke, Edvald Boasson Hagen e Ian Stannard, che lo seguono in questo ordine. Sono paggi, opliti o piccoli aiutanti: dategli voi una definizione. Sono il contorno accanto al piatto principale, attorno a Tom Boonen, così veloce allo sprint, che la gara appare come una mera formalità. Deve fare solo quello che gli è sempre riuscito benissimo in bicicletta. Vincere.
Compiègne. 10.10 del mattino. Nella piccola cittadina a settanta chilometri da Parigi si annusa l’aria dei giorni indimenticabili. È domenica, è giorno di festa, è la partenza della Roubaix, la chiamano tutti così, ancora più che Parigi-Roubaix; in confidenza come un’amica, una sorella, un ospite fisso, un cerchio rosso sul calendario. D’altronde dal 1977 si parte da qui e chiamarla Compiègne-Roubaix stonerebbe. Qui a Compiègne la regina delle classiche è più importante di ogni altra cosa. Cosa, non corsa. È più importante del Natale, del santo patrono, di un battesimo o di un matrimonio, di un incontro pubblico tra presidenti, di Napoleone, del Tour, del rugby e del golf, persino del castello, che fu residenza reale di Luigi XV e ora è simbolo della cittadina francese. È domenica. C’è la Roubaix, ma le fabbriche vanno avanti. Nicolàs aveva chiesto la giornata libera, ma al lavoro è l’ultimo arrivato, il più giovane, e gli anziani si sono fatti cambiare di turno. Voleva seguire almeno la partenza, portare suo figlio piccolo a vedere i corridori, sventolare una bandiera e fare un paio di foto, racimolare qualche ricordo, un cappellino, un autografo, ma non gli è possibile, sarà per un’altra volta. Jacques, folte sopracciglia grigie, sguardo inossidabile, giaccone bombato nero, va alla partenza, invece, ma registra ugualmente la gara, anzi se la fa registrare da suo nipote, non è molto ferrato con la tecnologia; non ama nemmeno troppo i corridori di oggi, ma non potrebbe perdersi per nessun motivo al mondo la Roubaix.
«De Vlaeminck, Merckx, Moser, quelli sì che erano corridori. Queste sono fighette, di buoni ce ne sono giusto un paio» brontola, e anche se non cita i loro nomi, avrà pensato a Boonen, Sagan o Cancellara tra i corridori da salvare.
E la partenza è gremita di gente. Fa un discreto freschetto, di quello che penetra nelle ossa e ferisce le mani. Ma c’è un sole che splende – mentre il giorno prima pioveva e all’alba di quest’oggi una fitta nebbia aveva offerto un tetro buongiorno a tutti i protagonisti. Sole; come ormai accade ogni anno alla Roubaix: una sorta di maledizione al contrario. Non sono solo i tifosi, sadici, a volere una corsa bagnata, ma anche i corridori, masochisti, perché sanno che con le pietre bagnate aumenta il rischio, sale l’incertezza, ma chi va davvero forte sul pavè può fare ancora di più la differenza. E poi quei corridori spesso criticati per il loro essere a volte così pavidi qui si sentono tutti degli eroi. E cosa c’è di più eroico della sopravvivenza a una Roubaix bagnata tra pietre scivolose e fango.
L’ultima Roubaix bagnata è leggenda ormai, fa parte della letteratura di questo sport; era il 2002 e vinse Johan Museeuw per la terza e ultima volta in carriera, a pochi anni da quella infezione rimediata nella Foresta di Arenberg dopo una caduta che quasi gli costava l’amputazione di una gamba. Al terzo posto arrivò Boonen, che correva per la prima volta su quelle strade come professionista.
Boonen, che più tardi sarà conosciuto come Tornado Tom, doveva essere un punto d’appoggio del suo esperto compagno di squadra Hincapie, ma l’americano finì in un fosso: scene tipiche da Parigi-Roubaix. Lui invece si abbatté sulla corsa, così giovane e spavaldo, come solo a quell’età può succedere; belga in una squadra americana, con una personalità indemoniata, incendiaria, con la confidenza di colui che vuole dominare le pietre. In Belgio lo amano già e iniziano a sfregarsi le mani su quel talento incredibile. Immaginatevelo: alto, belloccio, elegante, veloce; è nato a Mol, nelle Fiandre, nemmeno troppo lontano da Compiègne. Alla fine di quella Roubaix le facce dei corridori saranno maschere di fango, alcune inespressive, altre addolorate, sculture scolpite nella creta; saranno facce bagnate fradice; consuetudine fino ad allora, come non lo sarà mai più in tutte le successive edizioni. Finita la gara si va dritti sotto la doccia; già, quel posto diventato mitico, che riempie di leggenda quello che già è intriso di mito. Le docce del velodromo: un posto freddo, austero, «ma è un bel modo per finire una gara dannata. Perché dovresti avere un bel posto, comodo, in un box per fare una doccia dopo duecentosessanta chilometri di inferno?».
È un vecchio edificio con l’intonaco scrostato, le postazioni doccia sono adiacenti l’una all’altra e per ognuna una targhetta ricorda il nome di un vincitore di questa gara chiamata “l’Inferno del Nord”. Dove c’è il nome di De Vlaeminck ci sono segnate quattro date come le sue quattro vittorie, mentre nel 2002 il nome di Boonen ancora non c’è, ma ci sarà presto, eccome se ci sarà. In quel posto si va per levarsi di dosso il dolore, le pene, ma anche per far parte di una tradizione, come un segugio che rievoca istinti primordiali e che ulula alla luna come prima di lui i suoi antenati. Ci si potrebbe tranquillamente togliere lo schifo da dosso lavandosi nelle comode docce a disposizione nei bus delle squadre, ma via! Che Roubaix sarebbe senza una doccia post-inferno? E poi le immagini dei corridori immortalati in quel posto fanno parte di archivi da consultare per riscoprire la memoria, anche recente, di questo sport crudele. Come quella che raffigura George Hincapie, una celebre foto risalente proprio a quel 2002, seduto, ancora vestito, su un predellino di legno e metallo. Le sue gambe sono completamente incrostate, ricoperte di fango indurito. Si tocca il naso con il palmo di una mano, strizza gli occhi un po’ per la fatica, un po’ per la delusione. Parcheggiata di fianco a lui la sua bicicletta, della quale si riconosce solo il numero di partenza attaccato sotto il tubo orizzontale: numero 101; per il resto anche il suo attrezzo è irriconoscibile come se avesse attorno un sarcofago di melma. Tutto questo attende i corridori dopo cinque, sei, sette ore di corsa.
Ma torniamo a quella mattina del 10 aprile 2016 a Compiègne, nord-est della Francia. Sono passati pochi minuti dal raduno attorno alle transenne che delimitano la piazza centrale della cittadina francese. Il cielo ora si copre di nuvole. I commissari di gara controllano che le bici siano regolari, che non ci siano elementi strani, motorini nascosti: circolano queste voci in gruppo da un po’ di anni. Quando Cancellara nel 2010 vinse nel giro di una settimana, Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix si sollevò un polverone che in confronto la sua azione, a cinquanta chilometri dall’arrivo nel velodromo Jean Stablinski, sembrò una semplice sgasata. Il suo dominio per qualcuno era un bluff. La RAI montò un caso con Davide Cassani e Alessandro Fabbretti che realizzarono un servizio spiegando la generica possibilità di montare un motorino su una bici da corsa e che fece il giro del mondo ciclistico; su YouTube altri provarono invece a ricostruire i fatti attorno ai due successi dello svizzero. Si arrivò ad esaminare i fotogrammi che, secondo gli autori dei filmati, avrebbero inchiodato Cancellara, reo di aver azionato il motore sul muro di Grammont al Fiandre e poi alla Roubaix: “guardatelo mentre schiaccia il bottone e la sua bici accelera misteriosamente”. I complottisti delle due ruote influenzeranno anche i suoi rivali, soprattutto il suo rivale di sempre, quello con cui se le dava di santa ragione in bicicletta sin dalla più tenera età, quando i due avevano uno sedici, e l’altro diciassette anni. «Se penso che sul successo di Cancellara al Giro delle Fiandre 2010 ci siano dei dubbi? Sì, ma è inutile dire altro. Io arrivai secondo e lui fu il più forte. Ormai è tardi, per tutto» disse un giorno Tom Boonen.
Tuttavia, eccoli i corridori che si allineano alla partenza. C’è proprio Cancellara, uno dei favoriti; ha annunciato che a fine stagione abbandonerà il ciclismo. Curvo sulla sua bicicletta, avvolto nella maglia bianca della Trek Segafredo, è concentrato, quasi fino alle lacrime. Tremendamente umano, anche se non si direbbe a scorrere il suo palmarès. È nato in Svizzera, ma è di chiare origini italiane. Suo padre, Donato, arriva da San Fele, provincia di Potenza, un nome di città che ben si addice a definire il suo motore. Potente in pianura, così efficace sul pavè che quando attacca sembra trasformarlo in asfalto. Stantuffo cadenzato come il pistone di un enorme motore (nessuna allusione), a volte inscalfibile come un aggeggio fondamentale nella prima rivoluzione industriale, oggi non fa nulla per nascondere le sue emozioni. Indossa un paio di guanti neri, pesanti, che probabilmente si sfilerà dopo il via: ogni precauzione è dovuta per via del freddo che colpisce. Allineato alla partenza, in maglia iridata c’è Peter Sagan: strano destino il suo. Guascone, lo definiscono, forte e talentuoso all’inverosimile, più genio che irregolare, in carriera ha già vinto tanto quanto pochi altri, per molti è un tipo irriverente, ma in realtà è un personaggio che fa bene al ciclismo. E che quando non ci sarà ne avremo tutti tremendamente bisogno. Non si prende mai troppo sul serio, a differenza nostra, e dà spettacolo in corsa e fuori. Sagan, sette giorni prima di questa Roubaix, conquista la sua prima Monumento e lo fa da campione del mondo in carica, vince il suo primo e unico Giro delle Fiandre: batte Cancellara, annichilisce ogni avversario. Eppure divide, non solo i tifosi, ma anche i tecnici: per un paio di stagioni la squadra non gli fa disputare la corsa, eppure lui, che arriva dalla mountain bike, sul pavè sa stare benissimo, guida la bici come pochi e oggi, su queste strade, insegue una clamorosa accoppiata in maglia arcobaleno sfuggita persino a Eddy Merckx.
Sono i due favoriti Sagan e Cancellara; i successi dello svizzero e la straripante personalità dello slovacco, a tratti sembrerebbero non portare nessun rispetto nei confronti del terzo favorito: quel ragazzo sorridente in maglia blu scura marchiata Etixx-Quick Step, che si aggira tra le vetture delle squadre rilasciando serene dichiarazioni ai microfoni. È Tom Boonen quel ragazzo, anche se ormai non è più un ragazzo. Ha dovuto pagare lo scotto alle debolezze e al successo che possono travolgerti e rivoltarti come un calzino. Ha ceduto al maledetto fascino della cocaina ed è stato pizzicato positivo per ben due volte nel 2008 e nel 2009, la seconda a pochi giorni dalla conquista della terza Roubaix. Probabilmente, dirà poi, dopo aver festeggiato troppo al pub. Mazzate che lo hanno fatto crescere, lo hanno reso uomo, parole sue. «Non credo di avere un problema di dipendenza dalla cocaina, ho problemi quando bevo troppo» raccontava tempo fa. «Trecentosessantaquattro giorni all’anno sto bene, ma se bevo troppo qualcosa cambia nella mia testa. Ho bisogno di aiuto e qualcuno dovrebbe aiutarmi a capire cosa succede quando bevo troppo. Se continuerò a essere un ciclista? Non è un problema che al momento mi tocca, mentre la cocaina è un problema che riguarda tanti. È ovunque, davvero ovunque. Non ha a che fare con i soldi, la celebrità o il ciclismo, ma è un problema di tutti, un problema della vita di tutti i giorni, tra i giovani, ma non solo».
Al via sorride Tom Boonen, scambia chiacchiere con colleghi e giornalisti, ha il volto tranquillo e soddisfatto. Ha vinto la Roubaix nel 2005, nel 2008, nel 2009 e nel 2012 – «Quel giorno volavo, potevo fare qualsiasi cosa», ma per lui essere alla partenza oggi assume i contorni del miracolo. Pochi mesi prima, siamo a ottobre, seconda tappa dell’Abu Dhabi Tour, Tommeke – è il suo vezzeggiativo – cade rovinosamente a terra. Batte il capo, ne uscirà malissimo. Sviene, il sangue sgorga dall’orecchio e macchia la maglia verde della classifica a punti che indossa quel giorno. Tredici centimetri di frattura cranica, danni permanenti all’udito, il monito dei dottori: «Per almeno sei mesi non potrai gareggiare». Dopo due mesi sale ugualmente in sella alla sua bici e dichiara che a fine carriera si dedicherà ai motorsport: «Il sogno sarebbe la 24 ore di Zolder» racconta «È vicino casa, farei divertire famiglia e amici». La mattina della Roubaix gli arriva un messaggio sul telefono: è il medico che lo ha curato subito dopo l’incidente: “Oggi sarebbe stato il primo giorno nel quale saresti potuto salire sulla tua bici” c’è scritto. «Sono in anticipo con i programmi, no?» rivela, schietto.
Sono circa le undici del mattino ora a Compiègne e sono centonovantasei i corridori al via: moltitudine di colori, bici e nazionalità. Indossano quasi tutti guanti termici e manicotti che via via verranno riportati in ammiraglia. Grida ovunque. Quelle del pubblico, eccitato. Quelle dei freni, sovraesposti, che sibilano: sembra il miagolio di centinaia di gatti. Applausi scroscianti, incitamenti. Tra i centonovantasei ci sono praticamente tutti quelli che ti aspetti, manca Van Avermaet che pochi giorni prima al Giro delle Fiandre si è schiantato e ne è uscito tutto rotto e manca pure il campione uscente John Degenkolb. A gennaio, mentre si stava allenando con altri compagni di squadra ad Alicante, è stato investito dall’auto guidata contromano da un’anziana signora inglese, che era convinta di essere nella corsia giusta – guidava come fosse in Gran Bretagna. Diverse fratture, cicatrici, un dito penzolante, poi riattaccato: John Degenkolb è un ciclista come tanti altri, ovvero un sopravvissuto. E così che la conta dei favoriti si allarga leggermente rispetto a Boonen, Cancellara e Sagan in rigoroso ordine alfabetico. Quei nomi da tenere d’occhio sono Terpstra, Stybar, Vanmarcke e Kristoff. Attenzione però: se c’è una corsa che può premiare un outsider questa è la Parigi-Roubaix, pardon, semplicemente la Roubaix. Dura, tormentata, ma così ricca di pericoli improvvisi e inaspettati che non sai mai chi potrebbe spuntarla, non sai mai come potresti arrivare all’ultima curva. Pur prendendoti cura delle tue gambe rischi di rimanere all’improvviso svuotato di ogni energia. Certo è che tra i favoriti, ma neppure tra gli outsider, ti sogneresti mai di inserire Mathew, detto Matt, Hayman.
Si parte con una decina di minuti di ritardo rispetto alla tabella di marcia: il vento a favore rischia di far andare i corridori troppo forte e di far saltare i piani all’organizzazione. Quali piani vi starete chiedendo? Alla Roubaix c’è sempre il rischio di trovare le sbarre del passaggio a livello abbassate, come in una giornata di lavoro qualunque: per questo si cerca di calcolare tutto al millesimo. È bagarre sin da subito, sfuriate su sfuriate che sembrano non voler attendere nemmeno i ventisette settori in pavè di cui è disseminata la corsa; i tratti più attesi sono lontani dalla partenza e puntano come una luce infernale verso l’arrivo: sono differenziati tra di loro da un numero progressivo di stelline di difficoltà: una stella significa che è un tratto semplice, cinque significa che se ne hai, fai la differenza, altrimenti maledici il momento in cui hai scelto di fare il corridore. Il settore più atteso, più duro, più simbolico è la foresta di Arenberg: cinque stelline, manco a dirlo. Tutto dritto, in leggera discesa, definito anche Tranchée d’Arenberg, perché la sua cupezza ricordava i condotti tagliati dalle trincee durante la Prima Guerra Mondiale. È un posto lugubre che solo in uno sport tremendo come il ciclismo poteva assurgere a simbolo, solo all’interno di una corsa infernale poteva diventare decisivo. Duemilaquattrocento metri di strada in mezzo a un bosco, col pavè viscido: quando esci da lì rischi di essere un’altra persona. Mancano poco meno di un centinaio di chilometri al traguardo quando viene affrontato, la corsa, però, è già cambiata, già esplosa. Avevano attaccato, sin da subito, venticinque temerari, poi ridotti a sedici, infine ancora di meno: la Roubaix è una corsa da bastone e denti aguzzi e solo i più forti, solo i più rudi, ce la fanno.
Cadute a ogni settore in pavè, forature; si fa la conta di chi c’è e chi non c’è, ma si capisce poco o nulla. Moto e auto tirano su polvere, ai bordi della strada c’è ancora fango che si mescola alla gente, che riempie le strade come la curva di uno stadio sudamericano. Bandiere fiamminghe, francesi, svizzere, italiane, persino dell’Ucraina a onorare Yaroslav Popovich che ha scelto proprio la Roubaix per lasciare il ciclismo dopo quindici anni, ed è persino in fuga. Popovych passò professionista con la nomea del nuovo Cannibale, del nuovo Eddy Merckx, si accontentò di uno stipendio importante e di diventare un buon gregario. Nel gruppo davanti qualcuno che può far paura c’è: il francese Chavanel su tutti. Definito da Lefevere “il più fiammingo dei francesi”, in Belgio lo chiamano “La Machine” e in Francia prima di chiamarlo semplicemente ChaCha, lo definiscono barodeur ovvero attaccante, fuggitivo. In mezzo agli Chavanel e ai Popovych, anche un italiano, Puccio, uno spagnolo, Erviti, e c’è pure Hayman e no, nemmeno stavolta lo vedi favorito.
Mathew Hayman arriva dall’Australia, ha trentotto anni e in carriera ha vinto solo tre corse: una in Germania nel 2005, i Giochi del Commonwealth l’anno dopo e nel 2011 una piccola corsa in linea francese: la Paris-Bourges. È uno che nel ciclismo si è sempre sbattuto per gli altri, gregario si definirebbe. È un uomo-squadra, appariscente più per la sua statura, che per i suoi risultati. Grande, possente, è un collante all’interno del suo team, l’Orica GreenEdge. Ha aiutato velocisti, uomini da classiche e scalatori. Quella che sta disputando è la sua quindicesima Roubaix che per lui è la corsa dei sogni; è stato ottavo nel 2012, decimo l’anno prima, ma è anche finito fuori tempo massimo una volta: era il 2002, l’ultima Roubaix bagnata, ricordate? Qualche settimana fa, durante la prima gara stagionale sul pavè in Belgio, Hayman cade e si frattura il braccio destro. Lo portano via in ambulanza e deve dire addio alla sua Campagna del Nord. Gli suggeriscono di prepararsi per il Giro d’Italia, di togliersi dalla testa l’idea di correre la Roubaix, esce persino un comunicato ufficiale della sua squadra che annuncia la sua assenza dalle pietre del nord. Con il tipo di incidente che ha avuto rischierebbe di cadere e di peggiorare la sua situazione fisica e di essere persino un pericolo per gli altri. Non ci sta, Mathew, si butta sui rulli allenandosi come un matto per mantenere la condizione; si costruisce una postazione fai-da-te in casa con una scala dove poter poggiare il braccio ingessato, restando in posizione aerodinamica. Una volta tolto il gesso si testa in Spagna in un paio di corse, poi fa una ricognizione sul lastricato della Roubaix, non sente dolore nemmeno con le vibrazioni trasmesse dalle pietre al braccio, e così decide di prendere il via alla corsa.
E con questo preambolo: come fa a far paura Hayman lì davanti? La squadra di Boonen fa corsa dura per ripiombare sulla fuga. Tony Martin distrugge il gruppo come se fra le mani avesse un’ascia e non una bicicletta. È una corsa folle. Fratture in gruppo, a inizio gara persino ventagli come fosse una tappa del Tour. Una caduta frena Cancellara, quando siamo ancora lontani dall’arrivo. Resta intruppato anche Sagan. La loro corsa è praticamente finita.
15.26: mancano circa sessantatré chilometri all’arrivo. Eccola la fuga da lontano che perde pezzi e si rimescola con il gruppo dei migliori tirato sempre da Tony Martin; negli anni Martin si è fatto il nome di Panzerwagen talmente forte va in pianura. Dentro ci sono Boonen, Rowe, Stannard, Boasson Hagen, Vanmarcke, Haussler, Moscon e altri. Allunga Stannard, lo segue Vanmarcke e mentre da dietro sembra ormai a compimento il miracoloso inseguimento di Cancellara e Sagan, lo svizzero scivola a terra, Sagan, funambolico creatore di illusioni, lo salta con tutta la bicicletta, ma non serve a nulla, ormai è tagliato fuori. È un via vai continuo lì davanti mentre la coda si sgretola; altre cadute, curve impolverate che si alternano a pozzanghere da evitare. Il pubblico è una scenografia tutta da vedere: c’è una banda davanti a un piccolo edificio con i mattoni rossi e una scritta che sa di antico, la banda intona “When the saint go marching in” al passaggio dei corridori. Vengono incitati tutti: i primi lo vediamo grazie al favore delle telecamere, gli ultimi, persino quelli davanti al carro scopa, ce lo possiamo immaginare. A casa sul divano c’è da stringere i pugni fino a romperseli per la tensione.
16.29 è ormai passata un’ora. Un’ora in cui poteva succedere di tutto ed in effetti succede di tutto. Diranno: “È stata la corsa di un giorno più spettacolare degli ultimi vent’anni”. Restano in cinque a venti chilometri dall’arrivo: Stannard, Hayman, Boasson Hagen, Vanmarcke e Boonen. Pensate: nemmeno ora Hayman lo potremmo immaginare come favorito. Ci si marca, si fa l’elastico, ci si prova, ci si arrende, si arranca, ci si accuccia, si bluffa, c’è un attacco dietro l’altro, ci si guarda e si rallenta per far chiudere al tuo avversario il buco propiziato da un allungo, si teme ogni centimetro di strada, ed è così che scivolano via anche gli ultimi ventimila metri di corsa. Tra un potente allungo di Stannard, un guizzo dietro l’altro di Vanmarcke, mentre Boonen controlla e Boasson Hagen anfana come un vecchietto costretto a salire al quinto piano con la spesa, Hayman sornione centellina ogni energia, si alimenta bene, scruta gli avversari, sa che questa è un’occasione incredibile e irripetibile.
Superato il quart’ultimo settore, Le Carrefour de l’Arbre, spesso così decisivo, Vanmarcke sembra sfoderare il colpo risolutivo. Non è così; non lo è nemmeno qualche minuto dopo quello di Boonen, né di nuovo quello di Vanmarcke, né quello di Boasson Hagen. Ci prova persino Hayman a 4,4 chilometri dall’arrivo su un tratto di strada impolverato e che tira leggermente all’insù. A 2,2 dall’arrivo Boonen si gioca la carta della disperazione: ma come? È il più veloce, perché lo fa? Forse non si sente troppo bene e attacca con l’azione degna di un finisseur. Hayman chiude su di lui, si danno un paio di cambi, Stannard dietro non ce la fa più. Sono le 16.55 e si entra nel velodromo.
C’è silenzio. C’è una curva che potremmo definire: Curva Cancellara. Un enorme striscione in tributo allo svizzero con scritto GO CANCELLARA GO. Il fiato è sospeso come ogni giudizio su quello che sta per accadere. Entra per primo Boonen, alla sua ruota, concentrato, Hayman, poi Vanmarcke in terza ruota ha i denti stretti, è affaticato, ha fatto uno sforzo enorme per dribblare Stannard e chiudere sui due davanti. Percorrono un giro all’interno dell’ovale, suona la campana che indica l’ultima tornata, inizia un grido di guerra cadenzato dagli spalti mentre i tre davanti si allargano, rallentano, arrivano a tanto così dalla balaustra che li divide dal pubblico. Boasson Hagen in maglia di campione di Norvegia riporta sotto Stannard.
16.56: Boonen è ancora davanti, stringe alla corda, si guarda indietro e davanti, tutti pensano: ormai è fatta! Eccolo sta per vincere la quinta Roubaix, nonostante le gambe intorpidite, e ci vorranno forse altri venti o trent’anni prima che qualcun altro possa eguagliarlo. Tutti si sbagliano. Hayman, sornione come un enorme gatto, supera a destra Boonen; il belga guarda dietro come a voler prendere la scia dell’australiano; Vanmarcke non chiude, da dietro arriva Stannard a tutta velocità, i due provano ad affiancare Boonen, ma l’interesse è tutto qualche metro più avanti, a quei due. Al campione belga e al carneade australiano. Hayman guida, chiude leggermente la corda, ai 100 metri è davanti di una bicicletta, Boonen non riesce a passare e sul breve rettilineo del velodromo cerca spazio sulla destra allargandosi. Non solo manca lo spazio e il tempo, non ci sono gambe per passare. Hayman vince. Prima allarga le braccia come un enorme Cristo, poi si mette una mano sulla testa, quasi non riesce a sorridere, incredulo. Boonen china il capo: sconfitto. Sagan sarà 11° a 2’20”, Cancellara 40° con un ritardo di 7’35”. Per lui il danno e la beffa, cercando conforto dai suoi tifosi cadrà di nuovo a terra.
Hayman non ci crede, così poco avvezzo alla vittoria, figurarsi ad una Roubaix. Tutti volevano fosse Boonen a vincere, in parte persino lui. «Una parte di me si è sentita male per aver vinto» dirà. Il pubblico non capisce, come non capisce Hayman che scuote la testa per la seconda volta in pochi minuti. La prima a un chilometro dal traguardo quando Boonen gli chiede un cambio.
«Gli ho fatto no con la testa: ho preservato le energie per la volata».
A fine corsa l’unico belga in tutto il mondo contento per la vittoria di Matt sarà proprio Boonen.
«È venuto da me subito dopo la corsa, abbracciandomi e complimentandosi. Amico mio – mi ha detto – te lo meriti».
Hayman correrà altre due volte la Roubaix arrivando a diciassette partecipazioni: recordman assoluto insieme a Frédéric Guesdon. Il suo nome resterà per sempre legato a questa corsa. Come lo resterà quello di Tom Boonen, che l’anno dopo correrà su queste strade per l’ultima volta in carriera, finendo tredicesimo.