Dopo 36 anni nel settore della Velocità, in pratica dalla partecipazione di Elisabetta Fanton a Seul 1988, e per la prima volta nella specialità del Keirin, presente nelle prove olimpiche dal 2012, l’Italia torna alle Olimpiadi. Il numero di telefono che digitiamo istintivamente è quello di Miriam Vece, ventisette anni, di Romanengo: sono state le sue prestazioni nel lungo percorso di qualificazione a permettere questo ritorno e questa prima volta. La certezza dopo la prova di Nations Cup di Milton, nel fine settimana del 20 e 21 aprile: «Devo ammettere che il sistema di punteggio per la qualifica non è più complesso come a Tokyo. In realtà, l’inizio di questo “viaggio” non è stato particolarmente brillante, penso all’Europeo e alle prove a Giacarta. Poi, qualcosa è cambiato, probabilmente al Cairo, in Egitto. Un quarto posto nella Velocità è come se mi avesse sbloccato. Se ci ripenso, da lì, su sei coppe, ho ottenuto cinque finali nel Keirin, allora, probabilmente, ho affrontato tutto in maniera più rilassata e le cose mi sono sembrate più naturali. Diciamo che il sentore della qualificazione era nell’aria da diverso tempo ormai, ma, sai, serve la certezza». Potrebbe sembrare scontato chiedere a Vece cosa provi, se sia felice, noi glielo chiediamo lo stesso e lei risponde stranamente riflessiva, tranquilla, gestendo perfettamente la felicità che pur si avverte: «Fino a Parigi sarà solo una lunga attesa. Per ora so solo che partiremo, arriveremo lì, gareggeremo, sarà la prima volta nel Keirin e chissà come andrà. C’è qualche intervista in più e una maggiore attenzione dell’opinione pubblica. Forse, al ritorno, farò una festa. Per ora so solo questo, forse, non appena arriverò capirò qualcosa in più. Sia dei Giochi Olimpici che di questa felicità».
Se ne parlava, sì, con Ivan Quaranta, responsabile tecnico del settore, e con lo staff della Nazionale. Se ne parlava anche quando non c’era quasi nulla e questo Vece lo sa benissimo. «Quando Quaranta ha iniziato il suo lavoro eravamo, in pratica, degli “scappati di casa”, gli Europei sono arrivati dopo e noi ci abbiamo sempre creduto. Anche se, per quanto mi riguarda, almeno all’inizio, ho quasi sempre respinto ogni consiglio di Ivan»: una risata interrompe il flusso delle parole, mentre i rumori dell’esterno attraversano il telefono. «Siamo cane e gatto. Lui mi proponeva qualcosa ed io sostenevo esattamente l’opposto: pareva una cosa fatta di proposito. Penso ai rapporti, ad esempio: ero sistematicamente contraria a quelli indicati da Quaranta, poi li adottavo e facevo bei tempi. Ma gli esempi sono davvero innumerevoli». A ben guardare, anche per la specialità è successo qualcosa di simile: Miriam Vece non pensava minimamente al Keirin, anzi, in un certo senso lo temeva da una caduta avvenuta quando era juniores. Per questo non l’aveva più rifatto e non voleva più rifarlo: «Non sai quante volte mi sono sentita dire: “Buttati, devi buttarti, senza pensare. Buttati”. Il difficile è proprio la mischia: biciclette che arrivano ovunque, contatti, millimetri di distanza che si annullano con un movimento e si rischia di finire a terra, di farsi parecchio male». Quel timore è passato, è lei stessa ad affermarlo con un certo orgoglio: «Ora chiudo gli occhi, un respiro e mi butto. Se mi toccano? Proseguo lo stesso, testarda».
Per qualche istante c’è la tentazione di sentirsi pioniere, di aver aperto o riaperto una strada, di essere la prima in qualcosa. «Sì, a livello personale è una soddisfazione importante essere i primi, ma se, poi, ti volti e dietro di te rischia di non esserci nulla? Può bastare essere la prima? Io credo di no. Negli ultimi tempi, per fortuna, si stanno avvicinando più ragazze a questa disciplina, sarà per la parte di storia che è già stata scritta, ma ancora non basta, soprattutto perché sono molto giovani e chissà se un domani proseguiranno. Potrebbe anche non esserci un seguito, dietro di noi, e mi spiacerebbe davvero. Ora ci sono le medaglie al Mondiale ed all’Europeo, ma quando eravamo giovanissime noi, io, Vittoria Guazzini ed Elisa Balsamo, ma in generale tutte le ragazze del quartetto o delle altre specialità, probabilmente sarebbe stato saggio anche da parte mia fare quel tipo di scelta, invece sono andata incontro al buio: non sapevo cosa ci sarebbe stato. Il mio periodo in Svizzera racconta anche questo». Proprio dalla Svizzera spiega di aver imparato tanto, tantissimo: a partire dalla lingua, «perché quando sono arrivata non sapevo proprio una parola di inglese, ora lo parlo molto bene e spesso anche quando parlo italiano mi viene in mente il corrispettivo inglese, oltre a tanti allenamenti e tante amicizie».
La sua famiglia e molti suoi amici hanno scoperto dai giornali la definitiva conquista del pass per i Giochi Olimpici dai giornali. Lei, ora, ripensandoci, non riesce a non pensare ai periodi più difficili passati: nel 2017, ad esempio, con la chiusura del velodromo di Montichiari, oppure nel 2020, nel periodo della pandemia ed in quello immediatamente successivo: «Se penso alle più giovani, ad un qualcosa che possa essere utile per loro, direi una cosa che si dice spesso, che è vera, ma, talvolta, a forza di ripeterla, sembra banale. Non lo è. I sacrifici tornano davvero indietro nella quotidianità, questa restituzione dell’impegno e dell’abnegazione esiste realmente. Sai quale credo sia il problema? Che non si sa quando avverrà quella restituzione, potrebbero servire anni e, nel frattempo, le persone si perdono perché non sanno cosa fare, se proseguire, se fermarsi, se davvero ci sarà una ricompensa. Il tempo che scorre impone di decidere e, se dai tanto e nulla torna, rischi di decidere di smettere di dare o di dare in un altro campo, in un altro modo. Questo aspetto c’è, non bisogna nasconderselo. Però fare sacrifici è necessario e, prima o poi, qualcosa ritorna. La mia partenza per Parigi, per i Giochi, lo testimonia».
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