La storia di Julian Alaphilippe è una di quelle storie in cui tutti ci siamo immedesimati sin dal primo momento. E ci siamo immedesimati perché è storia sua ma, in realtà, è storia nostra. Accade con quelle vicende che racchiudono ciò che tutti viviamo o abbiamo vissuto. Magari non integralmente, magari solo per brevi tratti, magari di riflesso ma sappiamo bene cosa c’è lì dentro, sappiamo bene cosa si prova a stare in quei panni. Quando gioisce qualcuno con quella storia, in fondo, gioiamo tutti. Come se esorcizzassimo qualche groppo in gola, come se guardassimo a tutto quello che ci ha fatto del male e gli dicessimo in faccia: «Vedi? Ci rialziamo lo stesso». Certe storie ci fanno forti. Questo è il bello. Ed è per questo che, appena Alaphilippe ha alzato le braccia al cielo, domenica, siamo tornati indietro e, col pensiero, abbiamo rivisto tante cose. Per lui ma in realtà per noi.
Abbiamo ripensato ai giudizi. Sì perché a tutti è accaduto, almeno una volta ma in realtà molte di più, che un giudizio ci ributtasse là, in fondo al buco nero dove ci siamo sentiti invisibili ed inascoltati. Magari dopo che tanto avevamo fatto per uscirne. Dopo che tanto ci avevamo creduto. Quando eravamo così giovani e di credere avevamo tanto bisogno. E non c’è nulla di peggio soprattutto nell’età della crescita. Un preside me lo disse, qualche anno fa. «Tutte le parole hanno un peso ma le parole pronunciate nei confronti di persone di una certa età, giovani o adolescenti, pesano molto di più. Quelle parole possono rovinare una vita. Certi non ci pensano». Julian è passato da quelle parole: «Suo figlio non ha le capacità per frequentare un liceo. Non ha nemmeno il fisico per frequentare una scuola di ciclismo. Anzi sarebbe il caso che iniziasse a lavorare invece di perdere tempo con gli amici». Qualcosa di questo tipo, qualcosa di questa forza. Le critiche possono servire per crescere, i giudizi perentori no. Quelli distruggono senza dare una seconda opportunità. Senza nemmeno considerare che in errore potrebbe benissimo essere colui che quel giudizio lo ha emesso. Non conta nulla l’età, l’esperienza e tutto il resto. Sbagliano tutti, persino le eccellenze. Essere eccellenza, in realtà, dovrebbe essere un concetto a larga scala, fondato sulla meritocrazia delle capacità e delle competenze ma affiancato dalla sensibilità e dalla cura. Chi sfoggiando la propria capacità, vera e presunta, irrida o distrugga le speranze di altri dovrebbe sottoporsi a un serio esame di coscienza. Catherine, mamma di Julian, ha creduto a quei giudizi, e forse non poteva fare altrimenti date le circostanze. Papà no. Papà ha creduto in un futuro che pareva impossibile. Ha creduto che, forse, quell’irrequietudine del figlio fosse solo sinonimo di un qualcosa da cercare, da trovare. Che quelle biciclette, che tanto gli piacevano, potevano essere un mezzo per farsi strada tra tante cose.
Abbiamo pensato a tante altre cose ed in particolare alla mancanza. Tutti abbiamo qualcuno che ci manca. Perché non c’è più o perché c’è ma è altrove. A tutti mancano delle braccia per essere stretti e delle mani a carezzare il volto. Possiamo cercarle ovunque e non le troveremo più. Altri ci abbracceranno, altri ci accarezzeranno le gote ma non sarà la stessa cosa. Bisogna dirlo. Certe braccia e certe mani le perdi una volta e non ci sono più speranze di riafferrarle. Julian rivorrebbe quelle di papà. Dice che la sua mancanza gli ha tolto il fiato, gli ha tolto tutto. Dice che il mondiale è per lui e piange, guardando il cielo. Sappiamo come si sta. Sappiamo la paura che fa la parola “sempre” in queste circostanze. Fa talmente paura che ci si rifiuta di accostarla alla persona che “abbiamo perso per sempre”.
La storia di Julian è la storia di tutti noi perché sa di umanità. Perché racconta umanità e rifugge ogni stereotipo di forza, di perfezione, di eroe che non teme niente e nessuno. Gli uomini non sono così e nemmeno i ciclisti lo sono. Nemmeno se vincono il Tour de France o il Mondiale. Nemmeno se la narrazione sportiva così li dipinge. Forse si raccontano gli sportivi in un certo modo pensando di incuriosire la gente. Di mostrare quel lato “invincibile” che tutti vorremmo, specie quando la vita presenta il conto. Per questo ci sono i supereroi o i miti dell’infanzia. Ed è un bene. Degli uomini e delle donne, invece, ci interessa tutto il resto. Ci interessa la loro gioia, la loro sofferenza ed il loro essere ancora qui. Ci interessa il modo di tenerli stretti per farli restare qui, anche quando dubitano o hanno paura. Nonostante tutto. Come Julian.