“Dolce massacro, bici, dolce massacro. Perché ho cominciato ad andare in bici mascherato come un clown per le strade di Roma? Mandando giù lo smog fino alle cavità più nascoste degli alveoli, rischiando un’infinità di volte di finire sul lastricato, inghiottito da qualche paraurti.
Perché continuo a pedalare ancora per dieci chilometri dentro una giungla di lamiere, prima di uscirne fuori e finalmente respirare senza sentir dentro l’anidride carbonica che mi divora i polmoni?
Perché i chilometri, la fatica, gli scatti, i controscatti, le salite, le forature, le mani sporche di catena, i tubolari che non vogliono né uscire né entrare, gli automobilisti, i clacson?
Gli automobilisti che ti suonano in continuazione, che ti evitano per miracolo mandandoti al diavolo se pedali un centimetro più a sinistra della “loro” corsia. Perché?
Non saprei, ma ogni tanto, a cavallo di quella bici, mentre ti mantieni miracolosamente in equilibrio su quei due centimetri di gomma, sospeso in aria, senza rumore, spinto dalle tue sole forze, ti succede qualcosa di insolito e ti senti la vita addosso. E non capita spesso di sentirsi la vita addosso, sia pure per un attimo. A volte ne basta uno per capire che ce la possiamo fare, che ce la stiamo facendo; solo uno per sentirsi ancora in corsa, continuando a nuotare senza andare a fondo.
E non c’è nient’altro che ti vada di fare se non far girare le tue maledette gambe su quei pedali.
Mi rendo conto di quanto tutto questo possa essere crepuscolare per una gnocca grunge e il suo teddy boy tutto anfibi e mimetica: rimarrebbero un po’ perplessi, soprattutto sulla questione della vita addosso. E ogni tanto, lo ammetto, la penso come loro. Penso davvero che quel frenetico frullio sia veramente stucchevole, che non abbia niente a che fare con un terzo tempo di Jordan, una stop volley di Mac, una pirouette del Tartaro Volante…
Pure, quella solida presa sul manubrio che te la fa possedere – soprattutto quando lo impugno da sotto in posizione da volatona finale, da crono, alla Jacques Anquetil o alla Charly Gaul in salita, insomma nel bel mezzo della sua curvatura – quella posizione compatta sul telaio, quel mento spinto in avanti sopra il manubrio, quei muscoli tirati dai tendini sui pedali, danno un potere inesauribile in sella alla tua bicicletta.
Ecco perché vado in bici, e non rompetemi, pseudogiocatori di calcetto notturno, con la solita storia che non ci trovate niente d’interessante in una corsa ciclistica o in un’uscita fuori porta di sessanta chilometri…
La bici la ami se la cavalchi, finquando non riesci a domarla la odi e ti viene la nausea soltanto a guardarla.
Finquando non la domi, la bici è meglio che non la stuzzichi (detto degli ultimi sopravvissuti pedalatori delle città).”
Il brano si inserisce apparentemente senza un senso, all’interno di “Miguel y Marco – la fantastica corsa nella terra di Macondo”, libro del 1995 di Maurizio Ruggeri, edito da Limina. Un resoconto ironico, pungente e romanzato del Mondiale di Duitama, e dove un finale alternativo elimina – nel vero senso della parola – Olano, “compañero ribelle che sembra il suo gemello monozigote, il suo replicante che non ha voluto perdere di vista”, e lancia Indurain e Pantani verso il traguardo. Un libro geniale, che alterna rabbia verso il mondo del giornalismo e del doping, sprezzante ironia contro i mostri sacri dell’epoca – da Adorni a Bugno e De Zan. Tra agonismo e poesia proietta i protagonisti di quell’indimenticabile gara nell’olimpo del cinema di Bergman, delle imprese di Gimondi e dell’epica di Melville e di Omero.

Foto: olympodeportivo