Guardare Bettiol

C'è un tappeto giallo sulla Côte de la Croix Neuve a Mende. Un tappeto che, in questo sabato, coincide con i battiti che aumentano, con la posizione di chi sta guardando il televisore dal divano che cambia, il volume che si alza, quasi che la voce più alta possa cambiare qualcosa. Ci si siede, ci si mette in punta di divano, mentre le mani, che non riescono a stare ferme, continuano a intrecciarsi, a sudare. Si fa fatica anche a guardare, a volte il ciclismo è così ma a non vedere si sta proprio male. Saranno quei cinquanta e più giorni da quando un italiano non vince al Tour de France che fanno stare così, in una sensazione di sublime, a metà tra la meraviglia e un leggero dolore. Da poco è scattato Alberto Bettiol e su quella bicicletta ci sono tutti.
Su quelle gambe che hanno lavorato tutto il giorno, che hanno faticato tutto il giorno, c'è Bettiol che da dietro una curva vede Matthews, in fuga dalla fuga, che sembrava lontano e invece a lui è bastato uno scatto per tornare a vederlo. C'è quel tappeto giallo a Mende su cui Bettiol, spostandosi da destra a sinistra, riesce a riprendere la sua ruota. Bettiol va a destra e chi guarda stringe i pugni come nel gesto di afferrare qualcosa, Bettiol va a sinistra e la mano va sulla fronte a togliere il sudore. Denti stretti. Anche i piedi si muovono per terra: se si fosse lì si inseguirebbe Bettiol a bordo strada. Quei passi si fanno lo stesso.
Saranno cinque i metri che Bettiol rifila a Mathews nel tratto più duro della salita. Su quel divano ci si continua a muovere: non c'è più tempo per fare nulla se non ciò che si può fare guardando. Si beve in fretta, l'acqua calda, fuori dal frigorifero da inizio tappa. Fa nulla. Nessuno vuole vedere che quei metri diminuiscono, che Matthews sta rientrando. Nemmeno Bettiol, forse. La meraviglia si sta spezzando.
Matthews cambia ritmo, se ne va. Quei metri che prima si dilatavano per crederci, ora sono trenta, quaranta, cinquanta ma fa nulla. Si prova qualcosa anche quando Bettiol spunta in fondo al rettilineo d'arrivo mentre l'australiano già festeggia il suo capolavoro. Si prova qualcosa quando lo si intuisce sui pedali, lontano, troppo lontano. La schiena si poggia al divano dopo pochi minuti che sono sembrati troppi, infiniti. Primo Matthews, secondo Bettiol.
C'è Pogačar che attacca Vingegaard, c'è l'ennesimo testa a testa, ancora assieme. Uno spasso da ragazzi, da "ti faccio vedere cosa so fare" fra questi due. Sennò come spiegare un attacco ai centottanta dall'arrivo?
Sul tappeto giallo ora ci sono solo tifosi che vanno e tornano. Il televisore continua a parlare e qualcuno continua ad arrivare: Caleb Ewan, sofferente, dolorante, con l’unica voglia di ringraziare i compagni perché hanno finito con lui, si sono fidati del fatto che ce la facesse e ce l’ha fatta, dopo la caduta di ieri. Le mani smettono di intrecciarsi. Succede in un pomeriggio di luglio, mentre si vede il Tour de France, mentre si guarda Alberto Bettiol.


Il prezzo della libertà

Viene da pensare alla libertà, pochi metri dopo il traguardo di Megéve. Al fatto che, forse, l’ultima volta che ci abbiamo pensato così intensamente eravamo adolescenti. Non alla libertà in generale, ma alla libertà al modo di un ciclista che può sembrare quella di una casa al mare con le finestre aperte, di un pomeriggio al cinema e di una corsa a perdifiato verso l’orizzonte. Perché la libertà di un ciclista è così piena di coraggio che sembra non sentire il peso del suo prezzo.
Che in realtà la libertà non è solo un volo libero: può esserlo certo, ma dopo quanto tempo? E soprattutto per quanto tempo? La libertà ha un peso, un costo, un prezzo. La libertà di un ciclista è, ad esempio, quella di Bettiol di cui tutti abbiamo contato i metri ad ogni pedalata, immaginando un giro di pedali che potesse colmarne sempre più per avvicinarsi al traguardo. La libertà può anche essere girare attorno a una macchina, in uno spazio stretto, quando la corsa è bloccata, quando quella è l’unica possibilità per ripartire. La prendi a morsi con fame: anche se è poca cosa.
In fuga vanno in pochi, il resto è gruppo, il resto è plotone. Perché in fuga si è più liberi, lontani, con più spazio attorno e con una visuale sgombra davanti eppure la maggior parte dei corridori stanno in gruppo. Lì dove c’è un poco meno di tutto ciò che abbiamo detto, ma c’è altro. Non devi rischiare di dover mollare dopo aver attaccato tutto il giorno, come Bettiol, se resti in gruppo. Non devi rischiare di essere maglia gialla virtuale per tutto il giorno e perderla sul più bello come Leonard Kämna. Chi non sogna quella libertà, quella dei ciclisti, forse preferirebbe non sognarla nemmeno la maglia gialla piuttosto di essere deluso. Noi preferiamo essere delusi, forse, ma aver provato. Esserci stati.
Quella libertà che sembra non aver prezzo tanto ti attrae è quella di Magnus Cort Nielsen che oggi ha vinto, per poco, dopo così tanto. Bella la libertà di Cort? Certo, bella per quello che è stato capace di vederci dentro. Che se non la riempi con gli applausi del pubblico a fiumi sulle strade, con esultanze e un pizzico di follia anche quella libertà fa male, come il mal di gambe, come la solitudine.
Più di venti fuggitivi, quasi altrettante storie di cosa sia la libertà. Quella di Ganna che è una libertà di regole e tempi, di far meglio in quelle regole, in quelle posture rigide e in quei tempi. Quella di Velasco che è la libertà di chi va in fuga al primo Tour e forse somiglia più che mai a quella idealizzata da adolescenti. Quella senza limiti, senza storie, senza punti e solo virgole o forse neanche quelle. Flusso di coscienza e desideri.
La verità è che le finestre di una casa al mare si chiudono, dal cinema si torna e non ci sono corse infinite nei prati. La libertà ha un prezzo e solo quando accetti di pagarlo sei veramente libero. Un ciclista lo fa e se quando lo guardiamo stiamo così bene è proprio per questo.


Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol

Come brillano i muscoli di Bettiol quando sul traguardo leva le mani dal manubrio, sorride, li mostra, ci crede, occhi nascosti dagli occhiali che riflettono la luce del sole che abbaglia Stradella.

Ci crede, sì, ma fino a un certo punto. Ci ha creduto, pareva non arrivasse più questa vittoria, in una giornata dura, da fuga pazza, da finale a tutta, chiama all'appello il pubblico che risponde, e quel punto esclamativo davanti al suo nome scritto sugli appunti si cerchia di rosso.
Un gladiatore, Bettiol: gettato nell'arena mostra i pericoli delle sue zanne. Infligge ferite: chiedete a Cavagna. Ripreso sull'ultima salita esplode per tenergli la scia come se davanti alle sue ruote la forza di Bettiol emanasse vapore bollente.

Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol. Finalmente Bettiol, ci vien da dire. Vittoria cercata e arrivata, suggerita da ogni angolo del globo ciclistico. Dopo aver mostrato di andar forte ovunque a questo Giro, pure in salita, Hugh Carthy se lo è tenuto stretto. Bettiol vicino a lui, una guardia, una coperta in inverno, con tutto il freddo che hanno preso. Francobollato alla sua schiena, Carthy, come se dalla linfa di Bettiol prendesse forza. Come se i suoi muscoli bastassero per due.

E non poteva esistere, in un mondo fatto di ruote, grasso e catena, che uno così avesse vinto solo due corse in carriera. E non poteva esistere che in un gruppo di bei nomi come quelli oggi in fuga, uno come Bettiol non fosse tra i favoriti.

E non poteva scegliere tappa migliore. Infinita da non sembrare vero con i suoi 231 km al diciottesimo giorno di corsa. Da attaccanti, da lunghi rapporti in salita che lui spinge con la naturalezza di un animale nato per vincere oggi. Salite spacca gambe che ispirano il talento, discese più che pennellate affrontate in sicurezza. Uno scenario da cartolina da mandare a casa e scrivere: "Ciao mamma, oggi ha vinto Bettiol!" e di fianco una faccina sorridente, un cuore scarabocchiato, un altro punto esclamativo di fianco al suo nome.

Occhialini tricolori e casco rosa: apoteosi della partigianeria in salsa Giro. È uno strano animale da corsa Bettiol, a volte te lo aspetti e non arriva, oggi lo vedi lì, frizzante, ma quando parte Cavagna pensi di nuovo all'occasione sfumata.

Invece appare calcolato: animale razionale che usa finemente il cervello, sfrutta muscoli d'annata, e una pedalata, oseremmo dire, da giorni migliori. Da giorni forse mai visti. Quei giorni che un paio di anni fa gli permisero di staccare altri animali, quelli da pavé al Fiandre.
Quel giorno come oggi dove tutto fila liscio come l'asfalto dell'Oltrepò Pavese che si insinua seguendo curve e controcurve, dove la pianura cozza con la collina.

E così ha vinto Alberto Bettiol. Scattando a Cigognola, sgasando a Broni, sfogandosi a Canneto Pavese, traduzione maccheronica di quel Oude Kwaremont che lo ha reso grande.
Cavallo di razza, estroverso e simpatico, coinvolgente, con quell'accento toscano, lui che sogna la Strade Bianche, ma vince il Fiandre e una tappa al Giro. Speciale come ogni animale ciclistico e col merito di averci fatto urlare oggi: Alberto Bettiol!

Foto: Luigi Sestili