Consolazioni

La consolazione Filippo Fontana la trova in quella curva da stadio che ribattezzeremo, tanto per stare più comodi, "Curva Fontana", e che ne accompagna ogni suo passaggio con urla, trombe, sirene, motoseghe, generatori, e i vari "Vai Pippo!" che riempiono, insieme all'odore di freni e di miscela, l'ultimo pomeriggio di gare al campionato italiano di ciclocross.
È grigio il tetto sul microcosmo di Variano di Basiliano, sin dal mattino. Ed è grigio sul destino di quasi tutti i corridori. Fontana era in testa, o meglio, se la giocava quasi testa a testa con Dorigoni, davanti uno, davanti l'altro; poi la catena rotta, il cambio di bici, una foratura subito dopo, insomma un compendio di sf... ortune varie e l'avversario si faceva piccolo piccolo ai suoi occhi sullo sfondo, mentre andava a conquistare il tricolore della gara élite.

Non c'è consolazione di nessun genere, invece, per Carlotta Borello: in lotta con Gaia Realini per il titolo Under 23, anche lei, causa incidente meccanico, abbandonava i sogni della maglia verde-bianco-rossa affrontando gli ultimi due giri e mezzo tra le lacrime ma concludendo ugualmente la gara. Ha 20 anni compiuti un paio di giorni fa, Carlotta, e migliaia di altre chance davanti. Si consoli.

La consolazione, invece, Nicolas Samparisi la cerca chiamando sua mamma dopo il traguardo. Ha freddo, Nicolas, caviglie sottilissime da scalatore di altri tempi, fisico da fenicottero, «ho le mani gelate», sostiene a voce e con ampi gesti. Non trova pace subito dopo la gara, uscito a sinistra delle transenne appoggia la bicicletta sulla rete di una casa. Impreca, ha bisogno dei guanti e di indumenti di ricambio che sua mamma ha nello zaino. Anche per lui, nonostante il terzo posto finale tra gli élite, l'amaro in bocca per aver rotto la catena e per aver forato: che mestiere infame quello del ciclocrossista, a schivare sassi, ad assecondare cunette e a vedere crollare le speranze per una forza esterna che ci viene facile chiamarla sorte avversa.
Dorigoni consola il suo team manager Alessandro Guerciotti al telefono. È assente Guerciotti, probabilmente gli avrà detto che avrebbe voluto essere lì a vederlo in maglia tricolore, ma Dorigoni lo spiazza: «Mettila così: almeno dalla televisione hai visto la gara meglio di tutti».

Per Silvia Persico più che consolazione c'è la calma come segreto del successo nella prova élite femminile: «Ho fatto un paio di errori, poi mi sono detta che l'unico modo per non sbagliare era gestire tutto con tranquillità». Quella che oggi l'ha distinta da tutte le altre.
La frenesia invece colpisce Zoccarato, professionista su strada in maglia Bardiani che da un po' di settimane si misura nel ciclocross. In uno dei punti più tecnici del percorso, sbaglia una curva e se la prende con un albero che all'improvviso gli si figura davanti.

Toneatti, invece, ragazzo praticamente di casa e cresciuto a pane e ciclocross mangiato proprio nel parco del Castelliere, stacca nel finale Leone, scivolato, e vince la gara degli Under 23. Trova conforto, Toneatti, se ce ne fosse bisogno, prima ancora che nel tricolore da indossare sul palco, in un caldo abbraccio appena superato il traguardo.
È ormai sera a Variano, mentre scriviamo queste parole. Il campionato italiano è finito e operai a lavoro smontano il palco delle premiazioni e spostano le transenne. Come una beffa il cielo si è aperto, ma non serve a nulla: il sole non si è visto per tutto il giorno, il conforto lo abbiamo trovato in una splendida giornata piena di storie, fango e biciclette.

Foto: Chiara Redaschi


Fa' la cosa giusta

Mentre Arianna Bianchi tagliava il traguardo conquistando l'ultimo titolo italiano in palio oggi, quello della categoria allievi, pochi metri più avanti di lei una ragazza col numero 135 sul caschetto attraversava il segmento in asfalto con la bici sulle spalle.

In realtà era da diverso tempo che procedeva a passo d'uomo - l'avevamo già notata da lontano - ma voleva raggiungere ugualmente il tratto in erba, ormai per la verità ridotto, dal passaggio di centinaia di migliaia di biciclette, a una poltiglia di mota, mettere giù la bici e provare a farla ripartire. Niente da fare.

Appoggiava, sul terreno incerto, il mezzo appesantito dalla fanghiglia e dalla delusione, provava a pedalare, ma la catena opponeva resistenza come se una forza avversa spingesse al contrario. Mesta, rimetteva la bici in spalla, decidendo di procedere lentamente. «Fino a dove vuole arrivare?» - ci siamo chiesti, ma dopo due curve si fermava, usciva dal tracciato e trovava lì qualcuno, un'amica, forse la sorella o una compagna di squadra, e scoppiava a piangere, facendosi avvolgere in un abbraccio consolatorio. Non aspettava altro.
La giornata di oggi vedeva in gara ragazzi e ragazze, esordienti e allievi, ma lo spettacolo, oltre che dall'infida collina che si erge sopra il circuito di Variano di Basiliano, arrivava da dietro le fettuccine che delimitavano il percorso.

Un ragazzo, molto prima dell'inizio delle gare, si era portato su un tratto dove era possibile vedere passare la corsa più e più volte. Lì, la visuale era perfetta, seppure in ombra (e quindi al freddo), tra curve in contropendenza, una parabolica dall'importante contenuto spettacolare e dall'alto coefficiente di difficoltà, la scalinata da fare a piedi («mi raccomando: a piccoli passi - tac tac tac!» urlava un tecnico) che portava in cima a un monumento, e lui, sempre il ragazzino salito su di buon mattino, con sedia da campeggio, motosega, generatore a cui aveva attaccato il suo telefono facendo partire musica da discoteca e sirene («senti questa dei pompieri che bella!»), se la spassava, lanciando, ironicamente, consigli ai coetanei in bici su quale fosse la migliore traiettoria da prendere.

E poi i genitori e i tecnici, i quali, spesso, rivestono lo stesso ruolo. Abbiamo visto quelli che spingevano a suon di urla, chi si lasciava andare persino a qualche parolaccia, chi consolava il figlio con le ginocchia sbucciate, chi ne redarguiva un altro: «Non ti permettere mai più di fare un gestaccio a un tuo avversario».
Chi, in preda all'agonismo, urlava al walkie talkie: «Campioni d'Italia! Campioni d' Italia!». Chi, semplicemente, si prodigava in un abbraccio, chi saltava da una curva all'altra e scivolava a terra, il tutto per incitare le ragazze della sua squadra. Una mamma attraversava il percorso per andare a lavare la bici del figlio, un papà applaudiva la sua bimba, ultima, ma felice e sorridente quando sentiva urlare il suo nome, convinta, in modo legittimo, di fare la cosa giusta.

Foto: Chiara Redaschi


Giacomo Nizzolo, ovvero non spegnersi

Raccontano che Daniel Oss, essendo l’unico corridore della Bora Hansgrohe, in corsa oggi a Cittadella, e non potendo quindi avere un adeguato supporto dalla squadra, nei giorni scorsi abbia chiesto alla fidanzata di aiutarlo nei rifornimenti. Lo ha fatto portandola in cima a La Rosina e spiegandole come passare la borraccia. Potrebbe sembrare storia di tanti anni fa, di un’Italia rurale, di vecchi quartieri sparsi, invece no. Sopra La Rosina, del resto, tante storie si incrociano, alcune restano qui, altre vanno altrove ma mai del tutto. Qualcosa resta nel ristorante, qualcosa nella chiesa. Qualcosa anche negli intenti. Sì, perché La Rosina è uno di quei luoghi che devi volere.

Lo racconta Alessandro Ballan che partiva da Castelfranco Veneto e veniva qui per allenarsi. È una fisarmonica che si apre e si chiude. Anche la luce è particolare. Qualcosa di morbido, di dolce. Qualcosa che ricorda la luce tenera che filtra dalle finestre nel tardo pomeriggio d’autunno. Anche se oggi è ancora estate. Deve essere rimasto qualche rimasuglio di vecchie stagioni qui. Magari fra i prati de La Rosina. Magari negli occhi di chi guarda. Ma non è un problema, non oggi. Non c’è nostalgia, non c’è malinconia. Ci sono sprazzi di passato a cui appoggiarsi, come le tende con vivande e qualche bicchiere di vino rosso, ma muri di futuro da cui saltare. Come quelle piccole costruzioni fatte di sassi, così instabili che sembrerebbero crollare al solo respiro ed invece restano lì.

Samuele Battistella salta proprio da uno di questi muri appena vede uno striscione legato lì. Gli hanno scritto che è tutto impossibile finché non viene fatto, lui nel dubbio prova a fare. Battistella sa che il problema non sono le porte aperte o chiuse. Ci sono porte spalancate che non varchi mai perché qualcuno ti sussurra che forse non ci passi, altri che “dopo fa male”, talvolta semplicemente perché da una porta simile, che sembrava aperta, hai preso un brutto colpo e ora temi anche il vuoto. Quello che Damiano Caruso augura ai giovani. Di non avere paura, di non averne troppa, di essere felici. Perché altrimenti ci si spegne e quando si è troppo spenti si teme la luce. Di più si inizia a detestarla. Non è più luce, è fuoco. Ed il fuoco attacca sul secco. Forse è per questo che Davide Rebellin, quarantanove anni suonati, è ancora qui. Fosse altrove, avrebbe paura di spegnersi.

Così quel ragazzino, che sulle spalle del padre, tiene un cartello. “Viva la Rai”, c’è scritto. Sembra un vecchio ritornello. Per lui spegnersi è non poter guardare. Oggi c’è papà che lo tiene in alto. Senza di lui, dalle transenne, non riuscirebbe a vedere. Fausto Masnada è un esempio concreto. I suoi primi giorni in Deceuninck-Quick Step li usa per andare davanti, per andare all’attacco. In CCC ha temuto. Ora è in un porto nuovo, tutti sanno quanto vale, lui sa qualcosa in più. Per quanto puoi valere se non rilanci, se non continui a sentirti, almeno un poco, incompleto, sei destinato a diventare cosa fredda e spenta. Tutti sanno quanto valgono le enciclopedie, ma, nelle sere che si spengono, cercano libri di storie, di avventure. Restare libri di racconti e non vecchie enciclopedie impolverate (e piene di vanto) potrebbe essere il suo insegnamento.

Giacomo Nizzolo, invece, può spiegare a tutti noi un’altra cosa. Il momento in cui gli uomini si spengono è influenzato dalla società e dalle circostanze ma è deciso solo da loro. Avesse tentennato un attimo in più, avesse avuto un dubbio in più, avesse ripensato a tutte le volte in cui una volata del genere può andare male, non sarebbe dove è ora. Si è concentrato solo sul proprio essere, non su Colbrelli, non su Ballerini. Solo da lui poteva venire una risposta. Da loro, dagli altri, sarebbe venuta una scusa, sin troppo semplice. Ha faticato per due anni, Giacomo, per quel maledetto ginocchio. Ha avuto paura, sicuramente. Forse la ha anche ora, un poco. Sì, perché ora è campione italiano. Lì, sul podio. In quella luce che c’è solo qui. Qui dove non ci si può spegnere.

Foto: Claudio Bergamaschi