Il bello e l'attimo
È vero, oggi qualcuno con gli occhi da tifoso potrebbe parlare di delusione, potrebbe dire "che peccato!" - sì "che peccato" lo potremmo dire anche noi - ma oggi celebriamo il bello. È vero, tre secondi sono niente, fanno male, più a loro che a noi, ma oggi è sceso in strada anche il bello.
Guazzini, Cecchini, Longo Borghini che non sono solo armonia e musicalità in quei loro cognomi in rima e ritmo, ma il bello è la cadenza che mettono in strada, nella cronometro a squadre mista.
La tattica studiata nei dettagli, la potenza: a tutta nella parte finale, veloce, tecnica. Peccato, sì per quei tre secondi, ma va così, nonostante una prova che li ha portati a guadagnare diversi secondi alla Svizzera, ma non quanto bastava per vincere l'oro, tanto quanto bastava per vincere un argento: un argento che è bello lo stesso.
E va così, anche perché cambiamo punto di vista e pensiamo a Stefan Küng: quanto bello è stato finalmente vedere mentre si scrolla di dosso per una volta quei pochi secondi di ritardo che finalmente diventano di vantaggio? Tre secondi che sono un attimo e lui contro quegli attimi ci ha sbattuto per una carriera intera. È vero c'è qualcuno che sostiene come questa gara valga poco o non sia interessante (noi siamo dello schieramento opposto: a noi la cronometro a squadre mista piace un sacco! ), ma nei panni di Küng godiamo per quell'attimo - e chissà che gli serva anche per spostare un po' di quella magia e farne qualcosa di ancora più grande domenica.
Un attimo, come direbbe il Groucho inventato da Tiziano Sclavi: "Un attimo è il tempo che intercorre tra lo scattare del semaforo verde e l'idiota dietro che suona il clacson". Sì, un attimo è davvero poco, anche nel ciclismo.
Il bello oggi a Wollongong non era certo il tempo, ma lo erano le curve prese a tutta che ogni volta ti lasciavano il respiro in gola. Per un attimo, prima di vedere i corridori lanciarsi come degli elastici.
E oggi lo celebriamo il bello, il bello contro l'attimo, come quello che passa tra la partenza della frazione maschile olandese e la catena che si incastra e costringe Mollema a fermarsi; il bello contro l'attimo come quello che passa invece tra la partenza della frazione olandese femminile e la caduta di Annemiek van Vleuten che ne compromette definitivamente la gara. E non c'è stato bello nel non poter vedere gli olandesi giocarsi le proprie carte. Ma va così.
Il bello è quello di Bissegger - anche se il casco è così brutto - Schmid, Küng che danno, al tempo delle ragazze, Reusser, Koller e Chabbey, quel poco che bastava per vincere e loro resistono per quei tre secondi, per quell'attimo.
Il bello è vedere come il movimento femminile italiano crea talento, perché Guazzini, anche oggi con un passo da prima della classe, è talento, e anche lei ci farà divertire, rendendo bello ciò che a noi piace del ciclismo. Non solo per un attimo.
Le bici da crono appartengono al ciclismo?
Su una bici da crono, Chris Froome ha consolidato gran parte dei suoi successi al Tour, ma non solo: ha conquistato tre medaglie di bronzo, due ai Giochi Olimpici e una al Mondiale.
Su una bici da crono Chris Froome, probabilmente, salvo smentite in questo 2022, ha messo fine a una carriera ad altissimi livelli, forse anche a medio-alti.
Chi se lo dimentica: era il 12 giugno del 2019 e Froome era in ricognizione della tappa a cronometro al Critérium du Dauphiné, che si sarebbe disputata nel pomeriggio. «Mi stavo soffiando il naso - raccontò qualche tempo dopo - quando all’improvviso una folata di vento ha travolto in pieno la ruota anteriore, mi ha fatto sbandare e sono finito contro un muretto». Storia nota il seguito, i brandelli in cui si era ridotto, il bollettino medico.
Di bici da crono e dell'uso che se ne fa, parla Froome nel suo canale YouTube dove ogni tanto fa capolino raccontando senza troppi peli sulla lingua alcune dinamiche legate al suo mestiere - seguitelo (https://www.youtube.com/channel/UC-Kpp0NLi-Y3d7rKWscjZ3A) perché ha sempre cose interessanti da raccontare, mostrandosi mai banale e perfettamente in linea con il personaggio che è.
Le bici da crono appartengono davvero al ciclismo su strada, si chiede Froome? «Non fraintendetemi: amo le crono - racconta nel video, dopo aver mostrato cosa gli piace fare per rilassarsi nel tempo libero.
In garage, in mezzo a, indovinate un po'? Un sacco di bici. Appese al muro la collezione di quelle a cui è più legato, le Pinarello con le quali ha vinto i Grandi Giri (e difatti se ne vedono con livrea rosa, gialla e rossa); in garage mentre fa un po' di manutenzione dopo un allenamento: «Quando ero ragazzo lavoravo in un negozio di biciclette e questo è quello che mi piace fare, questo è il mio piccolo spazio» racconta fiero. Così come si dice interessato all'evoluzione tecnica delle bici.
È appena rientrato da un giro, Froome, un allenamento su bici da crono. «Stavo riflettendo, stamattina, proprio sulle bici da crono. Premessa: amo le prove contro il tempo, sono arte, abilità, sono qualcosa che devi conoscere bene per essere un ciclista professionista. Una delle cose magiche dei Grandi Giri è proprio l'equilibrio tra scalatori e corridori che vanno forte a cronometro. Questo è uno degli elementi più interessanti delle corse a tappe. Solo che le bici da cronometro non sono pensate per essere utilizzate su strada. Se nel Tour è inclusa una cronometro, spesso si tratta di uno sforzo di un'ora. Sta diventando sempre meno comune, è vero, ma per essere pronto per un esercizio così, dovrai uscire con la tua bici da cronometro per simularla. Su quante strade è possibile guidare per un'ora senza traffico, segnali di stop, semafori, persone che ti attraversano la strada? Nel mondo reale da nessuna parte. E poi - prosegue il 4 volte vincitore del Tour, che arriva a questa riflessione probabilmente anche dopo quello che è successo a Bernal - quando sei su una bici del genere sei chino sulle appendici e non hai le mani sui freni: non è una cosa sicura! Un conto è farlo in gara, un altro è su strade normali aperte a tutti».
E quindi Froome pone la questione: «Sono davvero necessarie le bici da crono nel ciclismo su strada? Eliminarle significherebbe, oltre a ridurre i pericoli, anche garantire condizioni di parità fra i contendenti. A fare la differenza potrebbe essere più l'abilità del corridore che il materiale, l'aerodinamica o le ore trascorse nella galleria del vento. Dobbiamo fare qualcosa: l'ironia della faccenda è l'UCI che sta escogitando diversi stratagemmi per ridurre i pericoli in corsa, come la posizione sulla bici in discesa, e questo sarebbe un passaggio facile da introdurre; qualcosa che avrebbe un impatto maggiore sulla sicurezza dei ciclisti. Siamo arrivati a un punto in cui bisogna pensare in modo più logico al nostro sport. Bisogna renderlo più sicuro. Certo, per me potrebbe essere uno svantaggio, ma bisogna pensare a un quadro più ampio e alla sicurezza dei corridori».
Qualcuno obietterà come Froome proprio grazie alle bici da crono ha arricchito il suo palmarès, d'altra parte lo specifica anche lui, ma si tratterebbe di guardare il dito e non la luna. E poi, chi meglio di uno che è sempre andato forte a cronometro potrebbe spiegarci il rischio nell'uso di questo mezzo sulle strade i tutti i giorni? Meriti sportivi o esperienza di Froome a parte, l'UCI ha il compito di ascoltare la voce dei diretti interessati, ponendo all'ordine del giorno la questione. Che poi l'opinione la diffonda un corridore così blasonato, non può che giovare a un'idea di cambiamento.
Foto: ASO/Gautier Demouveaux
Un campione, un fuoriclasse
Oggi è una di quelle giornate che elevano i campioni a fuoriclasse. Dove si sposta l'asticella, dove resti con il fiato sospeso e vedi Evenepoel e ti chiedi: "e ora chi lo batte?". Dove vedi i polpacci di van Aert tiratissimi che pensi nessuno possa fermarlo; il belga spinto dal pubblico di casa in delirio a ogni curva e sembra che oggi si possa finalmente festeggiare con lui. E invece.
Oggi non era facile. Per nessuno. Perché la rassegna iridata iniziava nel peggiore dei modi: ieri Chris Anker Sørensen, ex professionista e inviato ai Mondiali come commentatore tecnico per una televisione danese, ha perso la vita sulle strade del Belgio, pedalando, come ha sempre fatto e come ha voluto fare ieri, fino al tragico epilogo quando un furgone lo ha investito.
Ma c'è stata la corsa, oggi: si sa, va così. E allora per un attimo dimentichiamo quei pensieri, anche se quel groppo in gola resterà per sempre, lasciandoci il fragore del mare a Knokke-Heist che si infrange alle spalle dei corridori in partenza.
Lasciamoci alle spalle i due intertempi dove van Aert era sempre davanti a Ganna. Chiudiamo gli occhi e pensiamo solo a quel rettilineo finale a Bruges, a quella spinta ideale, all'exploit, al "ce la fa, non ce la fa", al conto alla rovescia fatto a mente, ai riferimenti presi meno di un minuto prima, a quella maglia blu, a quelle gambe enormi, a quei 5 secondi e 37 centesimi che sono bastati a Filippo Ganna per diventare di nuovo campione del mondo della cronometro. Quei pochi secondi che bastano per cancellare il nome di campione di fianco a quello di Ganna e cambiarlo con il termine: fuoriclasse.
Lasciamoci alle spalle l'urlo strozzato dei belgi: le cronometro non vanno mai come si pensa. Scrivi un codice e premi invio, ma dall'altra parte c'è un firewall che ti blocca.
Lasciamoci alle spalle tutto e godiamo per Filippo Ganna, che corre la sua miglior cronometro della carriera, nel giorno più importante (l'ennesimo giorno più importante) della sua carriera. Lui che si lascia alle spalle quella piccola delusione all'Europeo o le critiche per quella medaglia sfumata a Tokyo.
Lasciamoci alle spalle tutto e anche questo racconto un po' a metà; perché se si potesse, oggi la medaglia d'oro la meriterebbero pure van Aert ed Evenepoel. Perché per chi scende dalla bici è stato un urlo un po' strozzato, negli occhi di tutti i protagonisti una gioia non goduta fino in fondo, un groppo in gola che rimarrà per sempre, perché avremmo sognato una giornata diversa questa mattina, anche se l'epilogo, per certi egoistici versi, ha funzionato come un palliativo.
Lasciamoci alle spalle tutto, almeno per un attimo. Tranne quella maglia iridata che, diciamolo francamente, su Ganna sta terribilmente bene.
Il tempo del tricolore
Un signore, seduto su una panchina accanto alla stazione di Faenza, canta ad alta voce “A mano a mano” di Rino Gaetano. La cappa di umidità avvolge la città già di primo mattino e lascia alcuni passanti in canottiera. Se non fosse per pochi dettagli, Faenza, questo venerdì, potrebbe davvero essere un nuovo assaggio degli anni settanta, forse ottanta. Ci sono anche i bar che tornano a riempirsi, qualche sigaretta accesa nel portacenere e una partita a carte in sospeso sotto un portico. Il tempo non sembra essere mai passato, invece ci sono circa quarant'anni a dividere ciò che sembra da ciò che è. La causa è il ciclismo che col tempo sembra giocare a rimpiattino per poi salvare nei ricordi poche cose, quasi sospese fuori dal tempo, pur in una giornata, la cronometro, in cui il tempo è tutto. In ogni minuto, in ogni secondo.
Le parole di Matteo Sobrero, nuovo campione italiano a cronometro, ad esempio, vanno oltre il tempo. Ieri mattina Matteo ha scherzato con Filippo Ganna, gli ha detto: «noi tutti corriamo per il secondo posto con te in gara, ma va bene così». Ieri sera, dopo aver vinto, ha ribadito il concetto. «Filippo è davvero un campione del mondo contro il tempo. Non so se mi spiego». Certo che Matteo si spiega, perché un conto è la maglia che indossi, un altro quello che gli altri ti riconoscono. Per lui Ganna è campione del mondo a prescindere da quella maglia e dal quarto posto della cronometro. «Forse ho vinto io anche perché Filippo sta preparando altri traguardi» aggiunge alla fine, proprio mentre scherza. «Domenica vado al mare, inizio a essere anche stanco». Ed è bello così, perché questo ragazzo di soli ventiquattro anni sembra quasi di altri tempi.
È senza tempo il gesto di Sofia Bertizzolo che, appena arrivata al traguardo, va in mezzo al pubblico e cerca con lo sguardo Soraya Paladin dall'altra parte della strada, sotto il tendone delle premiazioni. Sa che la compagna è giunta seconda e il primo pensiero è quello di farle sentire la sua presenza. Sofia esulta, alza le mani tra folla. Si ferma a parlare con un'anziana signora che vuole filmarla qualche secondo con il telefono. Sembra dirle «è come se avessi vinto io, se la meritava». Così la signora sorride, abbassa il telefono, quasi compiaciuta, e finge di batterle il cinque.
Sofia, qualche tempo fa, mi ha confessato che forse il ciclismo è raccontato con troppa enfasi, forse anche con troppa poesia: in fondo, dice lei, per chi lo pratica è un lavoro, con gli onori e gli oneri di tutti i lavori. Non le piace romanzare, ama la concretezza dei gesti. Così le cose le fa, non le dice.
Fuori dal tempo, poi, c'è Elisa Longo Borghini, campionessa italiana èlite a cronometro, che ha percorso gli ultimi chilometri senza contatto radio, non avendo più la percezione esatta del vantaggio sulle rivali. Fidandosi delle sensazioni e di ciò che aveva visto e sentito quando aveva provato il tracciato. C'è Elisa che l'altra sera ha ricevuto un messaggio che le ricordava come, in fondo, la cronometro sarebbe stata una formalità e ha subito pensato che non era d'accordo, perché lei lo scontato proprio non lo conosce, per rispetto delle avversarie e «perché in strada può succedere di tutto».
In un tempo sospeso, che resta nonostante tutto, è Francesca Barale che ieri ha corso più veloce perché non stava pensando a ciò che gli altri si aspettavano da lei. Perché nelle ultime prove non si era sentita all'altezza e questo le aveva restituito la possibilità di provare senza troppe aspettative.
Resta nel tempo anche quella bambina che non ha voluto essere presa in braccio dal padre e, per vedere la gara, si è messa in punta di piedi vicino alle transenne, a costo di stancarsi il doppio. Perché al tempo sopravvivono poche cose. Di certo, però, resistono quelle fatte sinceramente e quelle costruite con le proprie forze.
Foto: BettiniPhoto