Tutta di un fiato

Come una tazza piena fino all'orlo, sbattuta sul tavolo e poi tracannata in un solo sorso. Il liquido da mettere dentro sceglietelo voi.
Tutto in poco più di sessanta secondi, da quando Bissegger pennella la rotonda che porta verso il Siegerstor, l'arco di trionfo che segue Ludwigstrasse a Monaco di Baviera e che interrompe l'arrivo a tutta velocità del plotone. Ma per lo svizzero è solo un'illusione, quella di poter anticipare, a poco più di due chilometri dalla fine, la sacrosanta e già sancita volata di gruppo.
Tutto in circa un minuto a complicare le manovre di un treno, quello italiano, blu più che azzurro, che si perde ai 600 metri dal traguardo; vengono a mancare un po' le gambe, un po' il tempismo, un po' il coraggio e qualche vagoncino, e alla fine «da dietro arrivavano più forte e ci è andata male» ha detto Guarnieri, mentre Dainese, con Viviani, veniva risucchiato dall'inerzia del gruppo.
Tutto in quegli attimi a dividere speranze e sfiducia, oppure la realtà dai sogni che oggi per Fabio Jakobsen sono più o meno la stessa cosa. I sogni (e la realtà), come quelli dell'Olanda con van Poppel che oggi prova a sancire il sorpasso su Mørkøv come miglior pesce-pilota del gruppo, trascinando Jakobsen alla conquista del titolo europeo e di quella maglia che vestirà fino all'anno prossimo. «È stato bello, molto bello» ha detto van Poppel, raggiante, a fine corsa. «In questi giorni io e Fabio abbiamo diviso la stanza e questo è servito anche a capire e concordare alcune cose. Ad esempio: Jakobsen preferisce essere portato davanti e lasciato dove vuole lui possibilmente in scia a un avversario per poi aprirsi e sfogare la sua potenza, mentre Bennett (con il quale corre tutto l'anno in maglia BORA, Nda), vuole essere lasciato con la strada libera davanti».
In quegli attimi Jakobsen sceglie la ruota giusta, quella che vuole lui, in quegli attimi dove sarà passato di tutto dalla sua testa, ma oggi non ci interessa, se n'è già parlato sin troppo e Jakobsen è un anno che va di nuovo forte, fortissimo.
Quello che conta è che tutto d'un fiato Jakobsen, fatto di velocità e potenza, affianca Merlier e lo sorpassa. Quello che conta è stato aver scelto la ruota giusta e aver rimesso la propria davanti, dove merita di stare.


Quelle foto, quelle volte e poi domani

La prima immagine è del 2018, dell'estate del 2018. Quel giorno la pioggia era come un incessante ticchettio che rivoltò il percorso dell'Europeo di Glasgow: da semplice contesa per uomini veloci, ma resistenti, a gente avvezza a contesti più impegnativi, una sfida tra uomini - ragazzi - granitici.
Quell'immagine è del 2018, e quell'arrivo fu il primo a regalare i quattro titoli consecutivi che l'Italia di Cassani è riuscita a conquistare nelle rassegne continentali. All'epoca qualcuno forse si fece sfuggire l'importanza di quel podio - non del successo in sé. Davanti arrivò Trentin che, dopo una condotta di gara dai tratti somatici vicini a quelli della perfezione da parte dell'Italia, conquistò uno dei suoi successi più importanti in carriera (ah, maledetta volata di Harrogate poco più di dodici mesi dopo!), dietro di lui van der Poel e van Aert immortalati sul podio con delle facce poco convinte, poco sorridenti, a dimostrazione di quello che è da anni la loro fame, ma ancora con le sembianze di chi sembrava aver intrapreso da poco la strada dell'adultità. Primo Trentin, secondo van der Poel e terzo van Aert: a leggerlo oggi sembra qualcosa a cui si farebbe fatica a crederci.
2019, siamo ad Alkmaar, Olanda. È l'anno di Viviani e anche qui, la nazionale va che è una meraviglia; su strada è il migliore (o quasi) Viviani di sempre, ed è un Viviani che non si ciba di sole volate pure: l'arrivo con cui sconfigge Lampaert e Ackermann andati via nel finale è la dimostrazione. Ancora un percorso facile, sulla carta, ancora una nazionale che corre come si deve, ancora un successo. Poi arriva il 2020, a Plouay, Francia, ed è volata quasi vera e pura stavolta, e Ballerini che pilota Nizzolo, e poi Nizzolo che vince. Secondo Démare, terzo ancora Ackermann.
Infine a Trento è il giorno di Colbrelli, lo ricordiamo bene. Colbrelli che va via con Cosnefroy ed Evenepoel; Colbrelli che resiste agli affondi di Evenepoel; Colbrelli che batte Evenepoel davanti al Duomo di Trento e lo fa ammattire ma fa impazzire tutti.
E poi arriva domani in un lampo: Nizzolo - si è chiamato fuori dopo una caduta in gara in Belgio qualche giorno fa - e Colbrelli - ahinoi - non ci saranno, Trentin e Viviani sì, ma soprattutto non sarà più la nazionale di Cassani, ma quella di Bennati. Soprattutto non sarà la nazionale da battere - Belgio (Merlier), Germania (Bauhaus e Ackermann) e Olanda (Jakobsen) favorite, occhio alla Francia (Démare) e alla Danimarca (Pedersen). Ci sarà Dainese che sta andando dannatamente forte da mesi a questa parte. I favoriti sono altri, abbiamo detto, ma domani sogniamo lo stesso che tanto è gratis.


Potenza e fantasia

Ci voleva estro, un colpo di fantasia per farsi piacere la tappa di oggi. Ci voleva potenza per sfuggire al piazzamento su quel rettilineo dove una bava di vento ogni tanto portava refrigerio all'ennesima giornata calda. Perché più sali verso il nord e più pare di soffocare, l'asfalto ribolle e i corridori in gruppo hanno di che temere: contro queste temperature non c'è riparo. Nemmeno se freni o corri veloce. Niente.
C'era bisogno di furbizia, o chiamatela sapienza. Conoscenza delle leggi della fisica: prendere la scia giusta e saltare gli avversari stremati verso il traguardo in una delle tappe più veloci della storia del Giro. Ci voleva in fondo, un po' di fondo, di velocità, scaltrezza e doti non comuni.
Ci voleva senso del dovere e passione per seguire una tappa pianeggiante, noiosa, quasi spocchiosa e inefficace, ma il Giro è anche questo, strappa applausi e sbadigli: per chi lo segue in gara è attraversare città, colline, costeggiare il mare, salire passi e infilarsi dentro centri storici; per chi lo segue per strada è aspettare il gruppo che passa per pochi secondi, applaude e poi scompare nei portici come succede a Forlì verso l'ora di pranzo. Si chiama passione, oppure curiosità.
Ci voleva estro per diventare un grande scalatore nascendo sul mare. Siamo partiti, con la nostra giornata Alvento, da Cesenatico. Doveroso. Ieri a salutare Scarponi a Filottrano, oggi a rendere un omaggio a Pantani.
Ci voleva coraggio, o le leggi del gruppo che ti mandano in fuga sapendo come il tuo destino sarà quello delle prede coscienti di essere braccate: così per Rastelli e Tagliani. La legge del gruppo che poi è la legge del regno animale da cui evade, con estro, Dries De Bondt scatenato: per un attimo ha pensato persino di farcela, per spingere più forte, quando si voltava dietro e vedeva il gruppo, quella vaga e incomprensibile macchia multiforme, si sarebbe appoggiato sul manubrio persino con i denti. Avesse potuto.
C'è voluto un rettilineo, qualche sbandata, un treno, un rallentamento, qualche gomito e poi una volata. Ci voleva Dainese a farci saltare sulla sedia: «Ha vinto Gaviria! Ha vinto Bol! Ma no ha vinto Dainese!» Che è spuntato da dietro all'ultimo, all'improvviso. Con le doti di chi sa scrivere un finale ma troppo spesso gli è rimasto sulla punta della penna.
«La volata è venuta fuori un po' così» ha raccontato con quel suo fare sempre umile e costante, a fine gara, lui che diceva a inizio stagione che se non avesse vinto avrebbe iniziato a pensare a fare altro. Ad esempio il pesce pilota. Oggi il suo pesce pilota è stato Bardet.
Di gran carriera, Dainese, per una gran carriera, lanciata da lontano come una volata. Fatta con potenza e fantasia, ideale per farsi piacere una giornata piatta, calda e veloce, come quella di oggi. E alla fine godereccia come la bella Reggio Emilia.


Gli antichi mestieri

Padova è tutta nelle mani di Alfredo che intorno all'ora di pranzo impasta il pane su un tavolino di legno sporcato di farina, lui che è stato panettiere e oggi che è in pensione continua a provare piacere nell'infornare panini. Padova è tutta nelle sensazioni di Kalì che, in Prato della Valle, ha una bancarella con la frutta e mentre guardiamo al cesto delle albicocche avverte: «Vi spiego come fare a capire se la polpa è buona. Però ricordate: dovete sentire, non guardare». E inizia a maneggiare un'albicocca, come a modellarla. Padova è in una rosticceria in cui torna una ragazza dopo la scuola e il padre chiede come sia andata la giornata. «Tornavo qui anche io dopo le lezioni: lasciavo la bicicletta appoggiata ai vetri e uscivo nel cortile a giocare».
Padova che non si è mai scordata gli antichi mestieri e oggi, col ritorno del Giro del Veneto, si è ricordata di uno dei più antichi: il ciclismo. «Il treno su cui saltare in cerca di fortuna» diceva Gianni Mura e citava Zavattini e il suo «i poveri sono matti» aggiungendo «anche i ciclisti lo sono». Per esempio, è da folli partire in fuga dopo cinque giorni in cui non si è toccata la bicicletta e altrettanti di antibiotico, eppure Giacomo Garavaglia lo ha fatto. Come Kalì resta in piazza pure quando d’estate ci sono quaranta gradi anche se non vende nulla e Alfredo impasta il pane nonostante l'artrite. Assomiglia a loro Marco Marcato, di San Donà di Piave, che avrebbe voluto correre il Giro del Veneto, non ha potuto farlo a causa di ripetuti episodi di aritmie, l'anno prossimo si ritirerà, ma questo pomeriggio era lì, in ammiraglia con la UAE Team Emirates e non se lo sarebbe perso per nulla al mondo questo giorno.
Rovolon, Castelnuovo e poi Il Roccolo, dove tutti dicevano che la corsa si sarebbe accesa e dove la corsa si accende. Dove impazza Lutsenko che da ragazzino praticava karate, che non parla molto, come la gente degli antichi mestieri e soffre con dignità, in silenzio. Così in Prato della Valle ci siamo ricordati di quelle lacrime nascoste per i due gemelli che sua moglie aveva perso, per tutto quello che si sarebbe dovuto spiegare all'altra figlia che, già da bambina, doveva affrontare questa sofferenza. Certe cose non c'è mestiere che te le insegni, anche se nel tuo paese sei un eroe.
Gli antichi mestieri, invece, insegnano la concretezza. Non è un caso che a Prato della Valle vinca Xandro Meurisse che «non sa cosa sognare», che ha provato a dire di «non avere sogni», ma tira dritto e beffa Trentin che non ne ha più. Musicista, tastierista e batterista, Meurisse, perché anche la musica, in fondo, si fa con le mani e non lascia spazio a bugie. Non è un caso che in questa città si ritiri Fabio Sabatini, uomo di fiducia di Elia Viviani, lui che pilotava il treno dei velocisti. Quello stesso treno che serve per andare altrove e su cui saltavano i più poveri, i disperati.
Gli antichi mestieri, soprattutto, insegnano la genuinità dell'indignazione. Cruda come la fatica. Accanto a noi, all'arrivo c'è un ragazzo con addosso una maglia Trek-Segafredo. La Trek non è qui, ripensando a Trentin secondo, dietro Meurisse, quel ragazzo spiega: «Non è giusto, è sempre lì, merita di vincere». Sincero, sinceramente dispiaciuto, non perché non abbia vinto il suo beniamino o perché Meurisse non meriti la vittoria, ma perché avrebbe voluto un finale più giusto per la fatica e i tentativi. Lì vicino c'è Dainese con gli occhi lucidi, tradito dalla fatica di uno dei mestieri più antichi. Poco più in là, una voce grida «Forza, sei un ciclista». E solo questo, forse, spiega davvero tutto.