La gerarchia prima di tutto: intervista a Fausto Masnada
Il senso di rispetto di Fausto Masnada per i ruoli appare evidente, lapalissiano, quasi eclatante: «Siamo pagati per rispettare i compiti assegnati: uomo squadra, seconda linea, gregario, definitemi come preferite. È vero: è importante avere ambizioni personali, però bisogna essere realisti, sono in un grande team con grandi capitani ed è giusto rispettare ciò che ci viene chiesto».
Corridore sempre a disposizione per la sua squadra «e miei compagni lo sanno. Al termine del Lombardia sono uscite fuori polemiche inesistenti: Alaphilippe e gli altri ragazzi della Quick Step erano felicissimi del mio risultato e per come era maturato. A me non piace fare il furbo e prima di provare in prima persona avevo lavorato come mi era stato richiesto. Poi quel giorno stavo particolarmente bene anche se in partenza le gerarchie erano altre».
Inevitabile partire proprio da quel risultato maturato sul traguardo di Bergamo: 2° posto dietro Pogačar, una delle prove più convincenti della carriera del 28enne che proprio su quelle strade ha vissuto la maggior parte della sua vita, agonistica e non. «Mentirei se dicessi di non essere rimasto un po' deluso. Ma cosa ci vuoi fare: ha vinto uno dei corridori più forti del gruppo, uno che oltre ad avere la gamba ha una testa incredibile». Per Masnada, infatti, quello che caratterizza il 23enne sloveno è l'intelligenza: «Non vinci due volte un Tour se non hai anche la testa per farlo. E nel finale contro di me ha mostrato furbizia e freschezza».
Racconta, Masnada, puntuale e preciso, la preparazione e lo svolgimento dell'ultima Monumento della stagione: «Come ho detto la gerarchia in squadra era stabilita. Tre punte: Remco, Almeida e Alaphilippe e io in seconda battuta. Stavo bene ("benissimo!" gli diciamo noi); il mio compito era stare con le antenne dritte e muovermi dalla media distanza da Dossena in poi. Quando è partito Tadej sulla salita di Orezzo ho avuto il via libera da Bramati per fare la mia corsa».
D'altra parte, aggiunge Masnada, in corsa a volte le strategie prestabilite possono essere rimescolate. «Non tutti possiamo partire con il ruolo del leader, ma capita che uno dei capitani designati non si senta bene, oppure che la corsa prende una certa piega: la nostra forza in squadra è quella di essere un gruppo compatto, affiatato, ci parliamo spesso e se hai la tua opportunità come è successo con me al Lombardia allora devi essere pronto a coglierla». La pazienza come canone, la disciplina per alimentare la forza interiore.
E giù dal Passo Ganda, nella discesa del Selvino, Masnada, bergamasco doc, le sue carte se le è giocate come un abile prestigiatore, tracciando linee, prendendo rischi calcolati e riuscendo a piombare a fine discesa su Pogačar. «Quelle strade le conosco a memoria: capitava, quando mi allenavo da questa parti, di fare anche una cinquantina di volte all'anno il Selvino. Sono sceso con intelligenza, ma fondamentale doveva essere rientrare prima del tratto in pianura, altrimenti avremmo dovuto cambiare spartito».
Ma nel finale non c'è stato nulla da fare, Pogačar si è gestito in pianura, ci racconta ancora Masnada, tirando sempre con un certo margine: «E sulla Boccola ha fatto un'andatura pazzesca: ho raggiunto un wattaggio che non avrei mai creduto dopo sei ore di corsa», ma il segreto dietro quei numeri è stata anche la spinta del pubblico. Bandiere, urla, cappellini, tifosi ovunque. Davanti Pogačar seduto, potente, a scandire il ritmo, con una accenno di bocca aperta, dietro Masnada in piedi sui pedali, i denti di fuori. Si direbbe: a tutta. Forse di più. «Quanta gente che c'era a spingermi per tutto il percorso! Emozioni immense, indescrivibili. I bergamaschi sono tutti grandi appassionati di ciclismo, ma quello che ho visto in gara ha dell'incredibile. Sulla Boccola sono salito grazie al tifo del pubblico che mi ha fatto passare il mal di gambe e mi ha spinto fino in cima».
Una stagione chiusa bene, in crescendo (prima del Lombardia, Masnada volava, letteralmente, anche alla Milano-Torino), ma che lo vede soddisfatto a metà per via dei problemi fisici avuti al Giro, chiuso in anticipo per una tendinite dopo essere partito da Torino con l'influenza, e per una frattura rimediata alla Settimana Ciclistica Italiana in Sardegna che gli ha fatto saltare la Vuelta.
Ma nel 2021 ha potuto approfondire le conoscenze su due compagni di squadra per i quali ha lavorato in più fasi, in modo egregio. «Differenze fra Almeida e Evenepoel? Intanto le similitudini: hanno un talento incredibile e sono così giovani che ancora devono imparare a correre da capitani. Almeida è tranquillo, quasi pacato. Trasmette serenità in corsa. Evenepoel ha una forza devastante in tutti sensi: nervoso, istintivo, a volte non si riesce a farlo ragionare. Testardo, emana cattiveria agonistica e quando corri per lui ti senti ancora più motivato e concentrato perché trasmette professionalità e ti motiva con la sua stessa grinta».
Chiediamo a Masnada quale futuro, quali margini, quali obiettivi per lui. Al solito è laconico, essenziale; vola basso, ma più che dimesso appare concreto e ambizioso: «Anno dopo anno sto crescendo: mi pongo obiettivi nuovi che servono per stimolarmi, diventare ancora più forte e tirare fuori il meglio da me stesso. E questi miglioramenti sono la benzina che mi motiva ad andare avanti. È vero: ho fatto 2° al Lombardia e voglio continuare a migliorare, ma niente voli pindarici, preferisco commentare dopo una corsa che fare dei pronostici prima».
Gli piacerebbe fare il Giro nel 2022, anche se i programmi non sono stati stabiliti, la corsa alla quale si sente più legato e che sente più adatta. «Però, se mi dovesse essere chiesto di fare il capitano al Giro, mi farò trovare pronto».
"Finalmente ho vinto"
Seduto sulla poltroncina - in (finta?) pelle grigia - che spetta al leader della cronometro dello Skoda Tour Luxembourg, Cattaneo ha visto passare avversari su avversari: gli finivano regolarmente dietro e nemmeno di poco.
Ha pennellato e spinto. Ha tagliato il traguardo ed era primo, ha battuto il danese Skjelmose, vent'anni, una carriera davanti che gli sorriderà dopo un passato che lo ha visto fare tempi à la Remco e poi l'ombra di una squalifica per doping.
Ma Cattaneo, dicevamo. Si è seduto su quella specie di trono di plastica. Ha visto scorrere i tempi: nessuno gli si avvicinava nemmeno lontanamente, e quando è stato il turno del compagno di squadra Almeida, quello che fino a ieri pomeriggio ha difeso come fosse una porta da tenere inviolata, ha tremato.
Abbiamo, poco sportivamente, ma ogni tanto capita, sperato che Almeida tirasse con meno precisione una curva, che rilanciasse con meno forza, perché i due erano vicinissimi. Quando ha chiuso la sua prova, il verdetto: due secondi di ritardo per il portoghese. O ribaltando: due secondi di vantaggio per l'italiano. Quanto bastava per vedere Cattaneo incredulo, felice e poi commosso. «Finalmente ho vinto». Le sue prime parole.
Cattaneo corre tra i professionisti ormai da quasi dieci anni. Prima promessa, poi dimenticato. Con Savio si è rilanciato e ora, in maglia Quick Step, vive una seconda parte di carriera che dà il giusto tributo al suo talento.
A Trento lui c'era a farsi in quattro per la Nazionale; quando è con la squadra di club l'atteggiamento non cambia: lo chiami e lui interpreta al meglio il suo compito.
Al Tour ha sfiorato la vittoria che oggi è arrivata. Ieri per Modolo erano tre anni e mezzo di digiuno, oggi per Cattaneo poco più di due. Ha vinto poco (tre volte) e proprio per questo ci pareva giusto omaggiarlo.
Foto: Bettini
Asgreen trova le risposte giuste
Che cos'è una corsa ciclistica se non un tentativo gagliardo a volte, masochista spesso, di cercare se stessi e poi trovarsi? Un limite spinto più in là, un elogio della bellezza, un'elegia della fatica. Bellezza, limiti, fatica: tre parole che spiegano bene la giornata di Asgreen. Partito gagliardamente a poco più di sessanta chilometri dall'arrivo, ripreso nel dolore (suo e nostro che a un certo punto imploravamo pietà) quando ne mancavano dodici e dopo che gli inseguitori lo hanno avuto a tiro per un'ora, un'ora e mezza.
Ripartito per ritrovarsi quando ne mancavano quattro e poi rivisto e ritrovato all'arrivo, in quella maglia rossa di campione di Danimarca, indubbiamente tra le più belle in gruppo.
E bisognerebbe poi fermarsi un attimo e lanciarsi in un atto di esaltazione del collettivo (Deceuninck) Quick Step, oggi ai massimi termini. Perfetti in ogni frangente di corsa, straripanti. Visione di gioco totale dello schema di gara: mosse semplici quanto efficaci. Ho il collettivo migliore? Tutti muovono nella stessa direzione? Non ci sono van der Poel e van Aert che tengano, allora. Almeno non oggi, quando l'olandese è, a tratti, apparso incerto sul da farsi e in soggezione per la spietata superiorità numerica in blu e quando il belga, invece, dopo aver affrontato la fase finale di corsa tutta in testa, all'improvviso si è spento. Sono (splendidi) umani pure loro: questa è una delle storie più interessanti di oggi. Il ciclismo è anche uno sport di squadra, una lezione importante.
Ma vediamo la migliore formazione in campo oggi. Deceuninck Quick Step era il soggetto: se Asgreen è una splendida punta (e una superba locomotiva), Štybar e Senechal – e a tratti Lampaert – sono stopper d'altri tempi, di quelli che si attaccano alle caviglie e non ti mollano. Mentre Ballerini è specchio per le allodole – e fa gola ai bookmakers – e da Van Lerberghe e dal solito amabile Declercq parte la costruzione dal basso.
E che cosa è stata la corsa di oggi? Ci siamo fermati un po' a riflettere: le ultime due ore da farsi venire un colpo. Duecento chilometri in Belgio e al via (quasi) tutti "i meglio fichi del bigoncio mondiale". O almeno in questo modo li chiamerebbe uno che una volta definì così Van Steenbergen, Coppi, Koblet e Bobet all'inseguimento di Forestier e Scodellier nella Roubaix del 1955. Ma non divaghiamo.
Che cos'è l'E3 Harelbeke, quindi? Così giovane rispetto ad altre corse del Nord ma ormai ambita pietra miliare. Aizza polemiche con locandine il più delle volte da velo pietoso. Cambia nome ad ogni cambio di sponsor come una franchigia del basket. Prima Harelbeke-Anversa-Harelbeke, poi E3 Prijs Vlaanderen, E3 Harelbeke (come ci piace chiamarla ormai: E3 come l'autostrada che si incrocia ai -9 dall'arrivo), poi E3 BinckBank Classic, e poi, infine oggi, E3 Saxo Bank Classic. Qui dove un certo Boonen ha vinto cinque volte e un certo Merckx mai. Dove i belgi, di casa, negli ultimi anni si sono sentiti fuor d'acqua: se è vero che, a scorrere l'albo d'oro, negli ultimi dodici anni hanno messo la bandierina solo due volte.
Qui si danno appuntamento per la prima volta sulle pietre nel 2021 van der Poel e van Aert – mancava Alaphilippe – costretti dalle vicissitudini di corsa persino a fare squadra. E vederli cercarsi con lo sguardo nel finale è stato quasi tenero, lo ammettiamo.
Una corsa dove alla vigilia i corridori della Vini Zabù (unica squadra italiana alla partenza – nessun corridore della squadra di Scinto classificato all'arrivo) si dilettano in un simpatico siparietto, che vi consigliamo di cercare in rete, sulla loro conoscenza dei muri che avrebbero affrontato in gara - spunta persino uno Scintoberg.
Quei muri, così difficili da mandare a memoria che ti serve una guida alla corsa sempre sotto gli occhi per identificare il Taienberg, il Kanarieberg o il tratto chiamato Karnemelkbeekstraat, che vuol dire semplicemente “la strada del burro fuso“. Muri così difficili non solo da memorizzare per noi e da scalare per loro, ma anche da ripetere ad alta voce con il rischio che ti allappi la lingua e ti si secchi la gola.
Che cosa sono dunque tutti quei muri sparsi mica regolarmente per i duecento chilometri di corsa, ma infilati come il ritmo improvviso di una canzone freak-noise? E così via a farci domande su domande.
E le risposte non si fanno attendere. Arrivano da prima del via: fuori la Bora e con loro Politt, qualche chance la nutriva pure lui: Walls è positivo, la squadra resta al palo. Le risposte le troviamo subito alla partenza: vento forte e nuvole minacciose (che rimarranno tali – un velato monito) tra corridori che sbadigliano dalla tensione e un van der Poel che si maschera dietro una bieca indifferenza.
Le risposte le dà subito il gruppetto in fuga, vecchie glorie (Terpstra e Greipel) giovani rampanti con la scorza dura tra cui Jonathan Milan: se qualcuno non se lo fosse ancora segnato il suo nome, si appresti a farlo, in una giornata magrissima di gioie per i colori italiani (un periodo per la verità che dura da diverse settimane), lui splende (l'è un gran Milan verrebbe da dire, scusate non abbiamo resistito) e in futuro (magari già a Tokyo su pista) splenderà. E poi Haller, fra i meno timorosi davanti, che nonostante la fuga da lontano sarà protagonista con un decimo posto finale, eccetera.
E poi ci sarebbe ancora da dire molto, ma la facciamo breve: Simmons che attacca da solo a ottantaquattro chilometri dall'arrivo perché anche lui ha coraggio da vendere e fa sorridere pensare che quando doveva ancora compiere cinque anni, Greipel, oggi in fuga, correva la sua prima E3. Ci sarebbe da dire dell'attacco concertato dai Quick Step sul Taaienberg, detto Boonenberg un tempo, come ci fosse ancora il campione belga. E poi l'attacco di Asgreen a sessantasei dall'arrivo, van der Poel e van Aert che vanno d'amore e d'accordo, ma non serve a nulla, Van Avermaet che fa ostruzionismo e non si capisce ancora dopo tanti anni come voglia correre, e poi gli italiani che scompaiono, Van Baarle che appare, la Quick Step che spaia e vince. Domande tante e le risposte giuste le trova Asgreen, mentre il suo compagno di squadra Sénéchal è secondo a completare la giornata perfetta, van der Poel terzo e van Aert, cotto a puntino nel finale, undicesimo.
Foto: Nico Vereecken/PN/BettiniPhoto©2021
Fausto Masnada: «Quel giorno allo Stelvio...»
Se chiedete a Fausto Masnada di parlarvi del suo carattere, vi parlerà del suo nervosismo: «La prima parola che mi viene in mente è proprio "nervoso", una sorta di caratteristica primordiale. Sono così dalla nascita, per qualunque situazione che non riesco a controllare come vorrei. A questo bisogna aggiungere il fatto che ho una spiccata competitività: se giochiamo a carte e perdo, mi arrabbio, se faccio un allungo su una salita e non riesco a passare per primo mi vengono i nervi. C'è un lato del mio orgoglio che trabocca». Un nervosismo da tenere a freno come un ronzino imbizzarrito da domare: «Devo fare i conti col fatto che il mio è un lavoro e questo aspetto deve essere tenuto a bada, frenato. Lo sfogo alla sera, quando torno in camera. Quando sono da solo. Non devono essere gli altri a farne le spese. Sto lavorando molto su me stesso per trovare quella tranquillità interiore che mi permetterebbe di gestire questi scatti di nervosismo. Ci vorrà tempo ma è un lavoro da fare giorno per giorno, soprattutto nelle situazioni che li suscitano».
Il 22 ottobre, al Giro d'Italia, si scalava lo Stelvio: Fausto Masnada, come tutta la Deceuninck-Quick Step, era accanto alla maglia rosa, il portoghese João Almeida: «Dall'ammiraglia è arrivata la comunicazione: "State accanto ad Almeida, sta pagando". Quando lo abbiamo affiancato, João era preoccupato e molto nervoso. È normale, perfettamente normale. Il problema è che queste situazioni vanno gestite e serve lucidità. Come ho iniziato a fare il ritmo mi ha detto di accelerare, poi di rallentare, poi nuovamente di rallentare ed ancora di accelerare. A quel punto ho avuto uno scatto di nervoso anche io: "Basta. Ora non si parla più. Si tira dritto e si arriva assieme al traguardo, i Laghi di Cancano sono ancora lontani e questo tira e molla peggiora solo la situazione". Da quel momento non ha più parlato nessuno sino a dopo il traguardo. João è un ragazzo molto intelligente, ha capito che se ho reagito così è stato per il bene di tutti ed alla sera è venuto a ringraziarmi. Perché dico questo? Perché mantenere la lucidità è fondamentale per noi stessi e per i nostri compagni. Quel giorno sono stato io a supportare Almeida ma nei giorni prima Ballerini e Keisse avevano fatto lo stesso. Quando si indossa la maglia rosa si è sempre più stanchi, João ha gestito la situazione in maniera invidiabile dimostrando una forte maturità». Un approccio collettivo ai problemi che risente dell'impronta data dalla dirigenza della squadra: «In Androni ho imparato cosa volesse dire correre fra i professionisti, seguendo una tattica di squadra e non andando allo sbaraglio, ognuno per proprio conto. Alla CCC devo il passaggio nel WorldTour: ho preso una strada diversa ma la loro fiducia è rimasta immutata ed è difficile trovare chi crede in te anche quando prendi altre vie. Loro lo hanno fatto e gli sono riconoscente. Il WorldTour mi ha permesso di lavorare con professionalità sempre più raffinate e di vivere gare sempre più prestigiose. La Deceuninck-Quick Step ha aggiunto ancora qualcosa: la comprensione dell'importanza del gruppo e della serenità nel lavoro». Ovvero? «La prima cosa in Deceuninck è l'affiatamento dei compagni, controllano che si vada tutti d'accordo e se qualcosa non va intervengono in prima persona per parlare e risolvere. Parlare è importantissimo. Poi c'è la serenità dell'ambiente: le pressioni si avvertono solo in gara, prima e dopo si lavora seriamente ma nel contempo si ride e si fanno battute. Lavori meglio, ottieni risultati e in più ti diverti».
All'inizio di questa stagione, proprio questo aspetto è stato messo a repentaglio dalla pandemia: «Tutto è più difficile quando si lavora in bolle, si dorme in camere singole ed anche i contatti esterni sono limitati. Io ho sofferto molto questa situazione. Sai, ero arrivato a sviluppare una vera e propria fobia da contatto. Un'ansia abbastanza invadente per ogni risultato dei tamponi, l'incubo di non poter gareggiare. Ero teso per quello, non per i risultati delle gare. Vivo a Montecarlo e qui le restrizioni sono state inferiori, così in questi giorni sono riuscito a rivedere qualche amico e anche Giulio Ciccone. Del resto, io al ciclismo sono arrivato proprio grazie ad un amico che mi convinse a gareggiare con lui. Lui ha smesso ed io corro ancora. Pensa te com'è la vita! L'aspetto di condivisione mi interessa molto. Credo anche molto al fatto che quest'anno abbia reso il ciclismo più forte. Capisci cosa intendo? Un poco come quando si passa un momento brutto e se esce. Poi credi più in te, sai che se hai passato quel periodo puoi farcela altrettante volte. Il ciclismo deve ricordare questo». A Masnada piace raccontarsi, lo fa volentieri: «Non avessi fatto questo lavoro probabilmente mi sarei inventato qualcosa nel mondo della comunicazione social. Raccontare una storia, far conoscere un dettaglio, anche un marchio. Deve essere piacevole».
Quando le parole tornano sulle corse, l'orgoglio di Fausto Masnada prende forma. Un orgoglio molto particolare perché è l'orgoglio di chi ha fatto qualcosa per gli altri e ne è fiero: «Sono fiero di ciò che ho fatto al Giro. Ti rendi conto? Ho lavorato per la maglia rosa, sono stato il treno della maglia rosa. Come posso non esserne felice? Se mi dicessero in questo istante che l'anno prossimo avrò lo stesso privilegio, metterei la firma. Dal punto di vista personale sono soddisfatto del decimo posto di quest'anno. L'idea è quella di lavorare per un piazzamento nei primi cinque in una grande corsa a tappe. Per questo durante l'inverno farò lavori specifici sulla posizione e sui materiali da cronometro. Non posso trascurare questi aspetti. Proprio mercoledì ho ripreso gli allenamenti cercando di allineare quantità del lavoro alla qualità». Questo inverno, probabilmente, tornerà a lavorare anche con Remco Evenepoel ma su di lui, Masnada, ha già molto da raccontare: «Se parlassi delle qualità tecniche e tattiche di Remco scadrei nel banale: dove ha gareggiato, ha quasi sempre vinto. A me, più di tutto, ha sempre colpito la sua umiltà, davvero un ragazzo alla mano. Quando è stato annunciato il mio arrivo in Deceuninck è stata la prima persona a scrivermi, a cercarmi, per un "in bocca al lupo". Un messaggio inaspettato che mi ha fatto felice. Non che a Remco Evenepoel serva il mio augurio di buona fortuna ma a chi si pone con queste delicatezze nei tuoi confronti non puoi che augurare il meglio. Sono certo sarà formativo lavorare con lui. Non vedo l'ora».
Foto: per gentile concessione di Fausto Masnada