Compagni di camera

Francesco Gavazzi e Lorenzo Fortunato possono parlare del significato del silenzio. Lo hanno imparato essendo compagni di camera e sono certi che il loro rapporto sia fatto anche in buona parte del silenzio. Entrambi spiegano che il compagno di camera è fondamentale perché, lontani da casa, è la persona con cui condividi tutto, dentro e fuori dalla gara. Non è, però, scontato trovarsi bene. «Può capitare di sentirsi a disagio anche solo a vedere la lista delle camere- dice Gavazzi- ed è il peggio perché non ti senti libero nemmeno nelle ore del rilassamento e questo porta stress». Con Fortunato non è capitato e Lorenzo sa il motivo: «Non abbiamo paura di stare in silenzio e questi momenti in cui non si parla, in camera, non tolgono nulla. Questo silenzio lascia tranquillità. Lui legge, io guardo un film. Possiamo parlare, ma non siamo obbligati a farlo. Non ci giudichiamo, se non lo facciamo».
In realtà Fortunato e Gavazzi parlano molto, anche fuori dalle gare e le cose che sanno l'uno dell'altro derivano proprio da questo tempo parallelo. Francesco Gavazzi racconta una sua telefonata con Fortunato questo inverno: «Mi ha parlato di tantissimi impegni e della difficoltà di incastrarli tutti. Credo quello sia stato il giorno di uno dei consigli più importanti: imparare a dire no». Da quella vittoria allo Zoncolan, il mondo attorno a Fortunato è cambiato e, per Gavazzi, Lorenzo non è ancora abituato a questa concezione.
Amici? Sì, anche amici. «La squadra è comunque un ambiente di lavoro- precisa Gavazzi- e anche il compagno che ti aiuta sta pensando al proprio contratto, al rinnovo. Se c'è amicizia è più semplice, perché non hai timore nell'affidarti e anche per l'altro è più facile fare fatica per te». Una fatica che, aggiunge Fortunato, si fa comunque perché, dove non arriva il rapporto, arriva la professionalità: «Da un lato, l'amicizia non può e non deve fare sconti all'impegno. Dall'altro lato, anche chi non diventa tuo amico, deve mettere il massimo per te e state certi che, se una squadra è una squadra, succede senza alcun dubbio. Non esiste alternativa».
Fortunato può parlare dell'autorità di Gavazzi, della fiducia che è cresciuta come ha visto che le sue indicazioni si verificano prontamente.
«Una volta, Gavazzi si arrabbiò per una mia distrazione in corsa, perché non ero davanti, e, sono sincero, subito pensai che fosse esagerato. Poco dopo, nel luogo in cui mi trovavo ci fu una caduta, se non mi avesse rimproverato, sarei caduto anche io». Già, ma come prende questi rimproveri Fortunato? «All'inizio, resta lì, ascolta e non dice nulla. Magari la sera o la mattina dopo arriva e ti dice: “Avevi ragione, Gava”. Vuol dire che riflette su quello che gli dici, che ci pensa, ci tiene, che non se lo fa scivolare addosso».
L'ultima volta alla Tirreno-Adriatico, nella prima tappa vinta da Pogačar. Gavazzi spiega che, ogni tanto, Fortunato si perde in gruppo: «Quel giorno lo portai davanti due volte e due volte finì indietro. Glielo dissi: "Se lima Pogačar, perché non limi tu?". Io sono brusco su queste cose. Ci ha pensato e da ragazzo intelligente qual è ne ha fatto tesoro per le tappe dopo».
Dalle cose più serie, alle più divertenti. Gavazzi si sveglia molto presto al mattino e magari scende a fare colazione mentre Fortunato è ancora a letto, ma Fortunato si addormenta prestissimo la sera, «appena tocco il letto» dice lui. E Gavazzi precisa: «È illegale. A venticinque anni non si può dormire alle dieci e mezza di sera».
Di sicuro, una cosa protegge Fortunato dalla pressione o dagli errori che si possono fare quando si sale di livello ancora in giovane età. «Ha una leggerezza buona che gli permette di lasciare da parte in fretta gli errori o le delusioni e guardare avanti. Difficilmente lo vedi arrabbiato. È una caratteristica che deve preservare, è la sua forza». Nel mentre Fortunato scherza: «Tanto Gavazzi continua a dire che vuole smettere, ma per altri due anni lo tengo in gruppo. Vedrai».
E Gavazzi risponde a tono: «Ma io gli dico sempre di non preoccuparsi per me. Continuerò a scrivergli e usciremo ancora a cena con le nostre compagne, per il resto, però, dovrà arrangiarsi da solo». Poi il ragionamento torna a farsi serio e le parole aumentano di peso: «Non gli auguro vittorie, perché, se continuerà così, vincerà molto altro di sicuro. Gli auguro di continuare a godersi il ciclismo come sta facendo adesso. Io, forse, non l'ho sempre fatto. In questi ultimi anni lo sto vivendo davvero con piacevolezza, avendo lasciato da parte il dover dimostrare. Lorenzo vive bene questo aspetto pur essendo molto giovane. Spero sarà sempre così, perché fare ciò che facciamo è un'opportunità rara e bisogna godersela».


Dirsi la verità a qualunque costo: intervista a Giovanni Lonardi

Giovanni Lonardi si augura di ricordare per molto tempo la vittoria alla Clàssica Comunitat Valenciana a fine gennaio. Tra l'altro, in quella gara, Lonardi non avrebbe nemmeno dovuto esserci ed è stato convocato pochi giorni prima per sostituire un compagno. A inizio stagione le sue gambe hanno sempre girato bene, il punto è che quella sensazione di serenità che lascia la vittoria rischia di svanire presto se non ci si ripete e questo è un problema.
Non è stato un anno facile l'ultimo per Giovanni, per questo ha scelto di cambiare squadra e di passare dalla Bardiani alla Eolo-Kometa. Qualcosa si era rotto dopo la mancata convocazione al Giro d'Italia, uno dei traguardi più importanti per una Professional. Cambiare non gli piace, se sta bene, anzi, è abbastanza abitudinario ma, a venticinque anni, è certo che se le cose non vanno bisogna assumersi la responsabilità di cambiare. Sempre quei venticinque anni lo hanno portato a riflettere sulla sincerità nel proprio lavoro: «Non correre un Giro d'Italia fa male soprattutto quando sai che avresti avuto la forma per partire. Da corridore è difficile ammettere che non si è pronti e chiedere al direttore sportivo di scegliere un altro. Davanti a quell'occasione si diventa egoisti. Penso sia fondamentale trovare quel coraggio, anche se pesa, e far notare al direttore sportivo ciò che magari non ha notato, anche se significa rinunciare a una tappa importante della stagione».
Giovanni Lonardi ha cambiato, sarebbe potuta andare male, invece è ripartito col botto. Ammette che serve coraggio per scegliere perché non sai mai come andrà, ma non vuole porre l'accento su questo aspetto perché «nella vita normale è tutto più difficile. Io ho cambiato ma faccio comunque il ciclista, ci sono persone che lasciano il proprio lavoro e devono reinventarsi in ruoli di cui non conoscono nulla». Il suo ruolo, ad oggi, è quello di velocista, non puro però. Quella gamba veloce di cui è dotato fa la differenza soprattutto in percorsi mossi, quando lo sprint è in un gruppo ristretto. La vittoria che glielo ha fatto capire a Forlì, nel 2018, al Giro Under23. Di strada ne ha fatta molta da quel giorno, assegnando sempre maggior valore al lavoro, perché da ragazzo gli capitava di prendere alla leggera qualche allenamento. Poi si cresce e si matura.
Per questo, se guarda avanti, Lonardi si lascia più possibilità: «Magari resterò velocista, magari scoprirò che sarei più utile come ultimo uomo. Ma non è detto, potrebbe essere necessario migliorare in salita. Bisogna essere pronti a cambiare, essere agili in questo senso». Per intanto, continua a provare il treno che deve guidarlo in volata, sicuro del fatto che per quanto si provi, la vera prova è la gara perché ci sono situazioni non simulabili in allenamento.
Crede che la sicurezza stradale sia un punto su cui ognuno ha il dovere di lavorare, perché le cose non sono ancora cambiate. Del ciclismo gli piacciono molti aspetti, viaggiare ad esempio, ma, da quando è diventato un lavoro, qualcosa è cambiato: «Una vittoria ti lascia molto più di ciò che ti tolgono i sacrifici. Per mettere il bilancio in pari bisogna anche vincere. Capita il giorno in cui sei contento anche solo di allenarti e questo vuol dire molto, però, in una carriera, di giorni ce ne sono tanti e uscire in allenamento non è sempre così piacevole. Soprattutto se ti alleni e i risultati non arrivano».
È giovane e, in un modo o nell'altro, si sente vicino a quei ragazzi che alla sua età devono smettere e ricominciare da capo. Lui non ha mai pensato a cosa avrebbe fatto se non avesse fatto il ciclista, ma il suo realismo gli impone di pensare a cosa avrebbe fatto se non avesse trovato una squadra o se dovesse trovarsi in una situazione simile. «Siamo troppo giovani per avere già da parte qualcosa che ci permetta di aspettare a cercare un lavoro. Non sono per restare attaccato a tutti i costi al ciclismo: fino a quando ci sono le possibilità per farlo e farlo in un certo modo sono contento di essere ciclista. Se non fosse capitato avrei cercato un altro lavoro, senza troppi rimpianti. Dobbiamo avere il coraggio di dirci chiaramente quando non è il caso di insistere. Si tratta di onestà con se stessi».


L'ultimo Giro di Manuel Belletti

Quando Manuel Belletti è partito per il Giro d'Italia era felice, ma aveva anche paura. Al Giro di Turchia, una caduta gli aveva causato delle microfratture delle costole, bastava un nulla per peggiorare la situazione ed in corsa può succedere di tutto. «Purtroppo durante la terza tappa sono caduto: il medico di gara ha capito subito la situazione e mi ha consigliato di fermarmi. Non l'ho ascoltato e all'arrivo faticavo a respirare. Nei giorni successivi ho provato a continuare, ma un colpo di vento, mentre infilavo la mantellina, mi ha messo fuori gioco. Non è possibile fare i conti solo con ciò che si vuole, arriva il momento in cui devi accettare ciò che puoi e non puoi fare. Alla sesta tappa, sono tornato a casa».

Sì, perché Manuel il suo ultimo Giro d’Italia avrebbe voluto concluderlo a tutti i costi. «Dopo la caduta ho proseguito solo di testa. Il ciclismo ti insegna anche ad usare la testa per ingannare il corpo e per arrivare dove non penseresti mai. Quando ti guardi indietro, non riesci nemmeno a capire come hai fatto, perché lo hai fatto. Sembra illogico pedalare per cento chilometri quando anche da fermo senti un male assurdo perché non respiri. Anzi, è illogico». Belletti è sempre stato così, sin da ragazzo, dopo quattordici anni di professionismo, però, c'è di più: «Ho imparato a conoscermi, ho scoperto cose di me che non avrei mai immaginato. Molti mi dicono che ora sono un uomo più forte, in parte è vero. Ma è altrettanto vero che sono anche fragile, molto fragile su certi aspetti. Senza dubbio mi conosco e questo credo sia un dovere di ogni persona. Per esempio, dopo la Tirreno Adriatico di qualche anno fa, ho capito che ho paura del freddo, l'ho accettata ed ho provato a farci i conti per superarla».

Belletti è un ragazzo sincero, lo capisci quando gli chiedi come stia e non si limita alla risposta di circostanza. Te lo dice chiaramente, prendendo seriamente la domanda ed ancor più la risposta: non sta ancora bene e si sta sottoponendo a fisioterapia. Una domanda che, quando sei un ciclista, ti senti fare dai tuoi familiari al telefono, ogni mattina ed ogni sera. «Loro vogliono solo che io stia bene e di questo si preoccupano. Però, nel tempo, ho capito anche che non puoi pensare di ascoltare sempre tutti, di non far mai torto a nessuno. La tua fatica e le tue scelte ti appartengono: devi imprimere tu la direzione che vuoi».
Lui spiega di averlo sempre fatto, anche quando ha deciso che sarà l'ultimo anno da professionista. «Proprio perché credo al valore delle decisioni, voglio scegliere io quando smettere. Non voglio arrivare ad essere obbligato a farlo per mancanza di contratti. La mia testa dice così. Chi mi conosce, pensa che avrei potuto ottenere di più nella mia carriera se, in qualche occasione, non mi fossi accontentato. Credo sia vero. Io, così critico con me stesso, mi sono accontentato diverse volte. Continuare a pensarci, però, non cambierà la situazione. Ad un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di una vita più regolare. Meglio: ho iniziato a sentire la necessità di vivere il mondo che c'è la fuori, quello reale».

Ed è a proposito di quel mondo che Belletti ha la sua paura più grande. «Ho fatto tanta fatica in bicicletta, ma chiunque lavori fa fatica. Sono stato un privilegiato perché sono stato pagato per fare ciò che mi piaceva. Molte persone, per portare a casa uno stipendio, devono fare cose che non amano, che odiano nel peggiore dei casi. Ora che anche per me viene il momento di andare là fuori, ho il timore di non esserne capace. So di non avere le competenze per fare un altro lavoro, so di dover ripartire da zero e questo mi fa paura. Ma l'ho scelto e lo farò. Senza dubbi».


Lontano dal gruppo: intervista a Samuele Rivi

Quando alla Strade Bianche, durante la fuga, il cambio di Samuele Rivi, Eolo Kometa, si è rotto, lui ha iniziato a chiamare l'ammiraglia, ma nessuno è arrivato. «Continuavo a chiamare e non c'era nessuno. Il gruppo era ad andatura sostenuta e non potevano raggiungermi. Sono sceso di sella e ho continuato a piedi lungo quel tratto di sterrato. Camminavo e pensavo che, in fondo, il plotone era ancora lontano e sarei riuscito a ripartire prima del suo arrivo. Poi lo vedi che ti raggiunge e ti sorpassa a doppia velocità e tu puoi solo camminare, correre, ma lui va e non puoi farci nulla. Hai fatto di tutto per lasciarlo lì, più lontano possibile e, alla fine, è lui a lasciarti lì». Samuele Rivi quel giorno ha sofferto ed ancora oggi fatica a pensarci. «Sono un ragazzo introverso e questo nella vita di tutti i giorni può essere un problema. M nel ciclismo no, perché in bicicletta non ho paura di farmi vedere, di mettermi in mostra. Quando pedalo sono un'altra persona, molto più coraggiosa. In gruppo mi annoio e non ho ancora la capacità di fare la differenza nel finale e così mi sono inventato le fughe. Le situazioni vanno vissute, non subite».

E certamente in questo discorso ci sono le parole di Ivan Basso in quella riunione, prima della Tirreno-Adriatico. «Eravamo sul bus della squadra, quando ha preso la parola: “Se qualcuno, prima di una corsa come questa, non si sente dentro lo stomaco qualcosa di unico e particolare, significa che ha sbagliato mestiere. Pensateci“. Io avevo lo stomaco in subbuglio dalla sera prima. In queste occasioni, all'inizio, senti solo pressione, hai paura perché devi fare centottanta, duecento chilometri, e in strada può succedere di tutto». In fondo, però, se Rivi ha scelto il ciclismo è anche per questo. «Tu pensa a un ragazzino di dodici anni che, all'improvviso, si rende conto che con quella bici può fare trenta chilometri e andare, da solo, dove non era mai stato. Prima di quella Fondriest gialla, non avevo mai sfiorato una bicicletta da corsa, ma dopo questa scoperta non sei più lo stesso. Ti senti grande, cresciuto e da piccoli sentirsi vicini al mondo degli adulti è la più grande soddisfazione che possa immaginarsi».

Ancor di più perché Rivi è arrivato da solo al ciclismo. «Credo sia raro perché solitamente c'è sempre un padre appassionato, un nonno, uno zio o magari un fratello maggiore. Nel mio caso il ciclismo è stata una mia scoperta». Samuele è abituato a stare con i piedi per terra. «Certo, avrei voluto diventare un ciclista professionista ma la vita è fatta di doveri. Puoi desiderare qualunque cosa ma, fino a che non hai la certezza di raggiungerla, devi lavorare duro per un piano b, studiando ad esempio. Non puoi stare a girarti i pollici ripetendo ciò che tu sogni». Tanto più che, in alcuni giorni, Rivi è stato il primo a non credere più alla possibilità di fare il corridore. «Capitava quando mi trovavo a disputare gare internazionali e i buoni risultati ottenuti nelle corse di casa sembravano un lontano ricordo. Continuavo ad allenarmi ma, in fondo, pensavo di aver sbagliato strada. In quei momenti devi aver vicino persone che credano in te più di quanto ci creda tu stesso e ti ricordino ogni giorno qual è il tuo talento. Qualcosa di simile mi è accaduto alla Tirreno Adriatico di quest'anno, quando, dopo la prima tappa, soffrivo sempre più ogni giorno. Quell'esperienza mi è stata utile, mi ha ricordato che la fatica e la sofferenza ti ripagano sempre nel ciclismo».

Già, perché poi c'è la vita di tutti i giorni e, nella vita, è tutto più complesso. «Tutti ci ammirano per la fatica che facciamo ed il dolore che sopportiamo in sella. Io vorrei dire che nel ciclismo questi sono fattori quasi quotidiani, ma molto più facili da sopportare. Sapete perché? Perché il ciclismo poi ti ricompensa. Soffrire in bicicletta serve, per migliorare, anche per vincere. Da noi dopo una salita, c'è per forza una discesa. Nella vita quotidiana no. Puoi soffrire per molto tempo senza che nulla cambi. Puoi faticare senza ottenere nulla. Nella vita, talvolta, la sofferenza fa solo male, non serve a niente».

Foto: Maurizio Borserini