Le bici da crono appartengono al ciclismo?

Su una bici da crono, Chris Froome ha consolidato gran parte dei suoi successi al Tour, ma non solo: ha conquistato tre medaglie di bronzo, due ai Giochi Olimpici e una al Mondiale.
Su una bici da crono Chris Froome, probabilmente, salvo smentite in questo 2022, ha messo fine a una carriera ad altissimi livelli, forse anche a medio-alti.

Chi se lo dimentica: era il 12 giugno del 2019 e Froome era in ricognizione della tappa a cronometro al Critérium du Dauphiné, che si sarebbe disputata nel pomeriggio. «Mi stavo soffiando il naso - raccontò qualche tempo dopo - quando all’improvviso una folata di vento ha travolto in pieno la ruota anteriore, mi ha fatto sbandare e sono finito contro un muretto». Storia nota il seguito, i brandelli in cui si era ridotto, il bollettino medico.

Di bici da crono e dell'uso che se ne fa, parla Froome nel suo canale YouTube dove ogni tanto fa capolino raccontando senza troppi peli sulla lingua alcune dinamiche legate al suo mestiere - seguitelo (https://www.youtube.com/channel/UC-Kpp0NLi-Y3d7rKWscjZ3A) perché ha sempre cose interessanti da raccontare, mostrandosi mai banale e perfettamente in linea con il personaggio che è.

Le bici da crono appartengono davvero al ciclismo su strada, si chiede Froome? «Non fraintendetemi: amo le crono - racconta nel video, dopo aver mostrato cosa gli piace fare per rilassarsi nel tempo libero.

In garage, in mezzo a, indovinate un po'? Un sacco di bici. Appese al muro la collezione di quelle a cui è più legato, le Pinarello con le quali ha vinto i Grandi Giri (e difatti se ne vedono con livrea rosa, gialla e rossa); in garage mentre fa un po' di manutenzione dopo un allenamento: «Quando ero ragazzo lavoravo in un negozio di biciclette e questo è quello che mi piace fare, questo è il mio piccolo spazio» racconta fiero. Così come si dice interessato all'evoluzione tecnica delle bici.

È appena rientrato da un giro, Froome, un allenamento su bici da crono. «Stavo riflettendo, stamattina, proprio sulle bici da crono. Premessa: amo le prove contro il tempo, sono arte, abilità, sono qualcosa che devi conoscere bene per essere un ciclista professionista. Una delle cose magiche dei Grandi Giri è proprio l'equilibrio tra scalatori e corridori che vanno forte a cronometro. Questo è uno degli elementi più interessanti delle corse a tappe. Solo che le bici da cronometro non sono pensate per essere utilizzate su strada. Se nel Tour è inclusa una cronometro, spesso si tratta di uno sforzo di un'ora. Sta diventando sempre meno comune, è vero, ma per essere pronto per un esercizio così, dovrai uscire con la tua bici da cronometro per simularla. Su quante strade è possibile guidare per un'ora senza traffico, segnali di stop, semafori, persone che ti attraversano la strada? Nel mondo reale da nessuna parte. E poi - prosegue il 4 volte vincitore del Tour, che arriva a questa riflessione probabilmente anche dopo quello che è successo a Bernal - quando sei su una bici del genere sei chino sulle appendici e non hai le mani sui freni: non è una cosa sicura! Un conto è farlo in gara, un altro è su strade normali aperte a tutti».

E quindi Froome pone la questione: «Sono davvero necessarie le bici da crono nel ciclismo su strada? Eliminarle significherebbe, oltre a ridurre i pericoli, anche garantire condizioni di parità fra i contendenti. A fare la differenza potrebbe essere più l'abilità del corridore che il materiale, l'aerodinamica o le ore trascorse nella galleria del vento. Dobbiamo fare qualcosa: l'ironia della faccenda è l'UCI che sta escogitando diversi stratagemmi per ridurre i pericoli in corsa, come la posizione sulla bici in discesa, e questo sarebbe un passaggio facile da introdurre; qualcosa che avrebbe un impatto maggiore sulla sicurezza dei ciclisti. Siamo arrivati a un punto in cui bisogna pensare in modo più logico al nostro sport. Bisogna renderlo più sicuro. Certo, per me potrebbe essere uno svantaggio, ma bisogna pensare a un quadro più ampio e alla sicurezza dei corridori».

Qualcuno obietterà come Froome proprio grazie alle bici da crono ha arricchito il suo palmarès, d'altra parte lo specifica anche lui, ma si tratterebbe di guardare il dito e non la luna. E poi, chi meglio di uno che è sempre andato forte a cronometro potrebbe spiegarci il rischio nell'uso di questo mezzo sulle strade i tutti i giorni? Meriti sportivi o esperienza di Froome a parte, l'UCI ha il compito di ascoltare la voce dei diretti interessati, ponendo all'ordine del giorno la questione. Che poi l'opinione la diffonda un corridore così blasonato, non può che giovare a un'idea di cambiamento.

Foto: ASO/Gautier Demouveaux


Tour, infortuni e sofferenza: lo stallo alla messicana di Chris Froome

Soffrire, soffrire, soffrire. Scritto tre volte ma forse non basta. Quanta banalità all'apparenza - sembra sempre la solita solfa – dietro questa parola ripetuta come una nenia, ma è da qui, all'occorrenza, che parte ogni corridore.

D'altra parte cos'è il ciclismo se non atletismo, fantasia e sofferenza? Se vi siete mai allenati in bicicletta sapete di cosa parliamo, se avete mai provato a mettere vicino qualche chilometro magari condendolo con qualche salita, magari avete beccato la pioggia, magari vi siete districati su un tratto di lastricato, non potete che immedesimarvi in questo stereotipo.
Il soffrire per un corridore professionista con un passato importante è spesso finalizzato al tornare (o a provare) a essere quello che è stato, riassaporare la vittoria o arrivarci vicino. Soffrire per superare quella soglia, arrivare in cima e dire: ce l'ho fatta. Maledire – a tratti - quei momenti in cui si sale in bici, o si sceglie quel mestiere; ripensare al passato, gettare le basi nel presente per ricostruire il futuro, anche quando ti analizzi e pensi: ho quasi trentasette primavere, dove posso andare in un ciclismo dove si vincono i grandi giri appena superati i vent'anni?
Chris Froome riparte proprio da questi pensieri, si riempie d'orgoglio raccontando la propria sofferenza. Parole sue, testuali. La sofferenza l'ha messa al centro del discorso in una lunga intervista rilasciata a Cyclingnews nei giorni scorsi.

«La sofferenza - racconta Froome che tra 2011 e 2018 ha vinto 4 Tour, 2 Vuelta, 1 Giro - ha dato una nuova prospettiva alla mia carriera e alla mia vita». Dice che soffrire gli ha fatto capire quanto debba essere grato per i privilegi che ha vissuto e vive; che vuole sfruttare questa seconda occasione che ha avuto come ciclista professionista. «So che molti non lo capiscono – aggiunge - e questo mi dà ancora più forza per tornare al mio vecchio livello»
E riparte da una sorta di stallo alla messicana, cliché cinematografico che dagli anni '90 è stato riproposto in maniera assidua da Quentin Tarantino: Froome, infortuni, sofferenza e Tour de France come quattro temerari dal linguaggio un po' sboccato e magari dalla battuta piccante e fuori luogo e che si puntano la pistola addosso, l'uno verso l'altro, e sembra non ci sia modo di uscirne.

Ma ci crede Froome. Ha intenzione di uscirne. Che ce la faccia o no, ha intenzione di fuggire come Mr Pink o Mr Blonde, col bottino in mano o come voleva una certa parte di narrativa messicana: con i soldi o con la vita. «Non c'è alcuna garanzia di poter vincere un altro Tour, dopo quello che è successo e quello che ho passato. Lo so, ma rimane il mio obiettivo. Questo è ciò che mi spinge a dare il 100%» riflette il corridore della Israel.

Da giugno 2019 a giugno 2021, dall'infortunio al Delfinato alla preparazione verso il ritorno al Tour, racconta di aver sentito finalmente la gamba ferita mettersi alla pari con tutto il resto del corpo. «L'incidente nella prima tappa di quest'anno però ha nuovamente ribaltato i miei piani. Non fossimo stati al Tour mi sarei ritirato. Ero ferito dall'anca fino al gluteo, sentivo tanto dolore fino alle costole». E invece ha stretto i denti, fino all'ultimo giorno: «Arrivare a Parigi è stata una vittoria personale fondamentale».

E quei giorni di gara a fine stagione sono diventati 68, mica pochi. Da questi numeri riparte come base per essere al meglio in vista del futuro.
Froome insiste e insisterà per provare a vincere di nuovo il Tour (sic): «Nel 2022, l'anno dopo, o l'anno dopo non importa. Ciò che conta è che continuerò a lavorare fino a quando non mi renderò conto che non sarà più possibile. Questo è ciò che mi fa salire sulla mia bici ogni giorno».

Questo è ciò che intende Froome per uscire dallo stallo in cui si trova. Questo è ciò che lo spinge ogni giorno a superare i limiti imposti dalla sofferenza. Ce la farà?

Foto: A.S.O./Bruno Bade


Chris Froome e l'effetto piuma di Dumbo

Si avvicina l’inizio del Tour de France ed è difficile pensare al Tour senza pensare anche a Chris Froome. Nella storia di tutta la Grande Boucle nessun ciclista si è portato a casa il quarto titolo senza poi vincere anche il quinto: sono le statistiche a parlare, ma le statistiche valgono per i grandi numeri e non per il caso singolo.

I numeri, si sa, regalano una lettura della realtà perfettamente razionale e a volerli mettere tutti in fila, nel caso di Chris Froome, trasmettono l’immagine di un corridore nella parabola discendente della sua carriera: il terribile incidente di giugno 2019 al Critérium du Dauphiné, i 36 anni compiuti il 20 maggio, i modesti risultati di questa stagione (47esimo allo UAE Tour di febbraio e in questi giorni al Critérium du Dauphiné, 81esimo alla Volta a Catalunya, 93esimo al Tour of The Alps e addirittura 96esimo in classica generale al Tour de Romandie) e la generazione dei giovanissimi talenti con cui dovrà confrontarsi al Tour.
Ma se una vittoria al Tour a 36 anni (e 130 giorni, come riporta procyclingstats), nella storia, è riuscita solo al tedesco Firmin Lambot - stiamo parlando però del 1922 - c’è qualcosa che i crudi numeri non possono spiegare ed è qualcosa che ha a che fare con l’effetto piuma di Dumbo, ovvero la possibilità in determinati momenti e circostanze della nostra vita di poter accedere a delle riserve nascoste, che nessuno intorno a noi immaginava potessimo avere. Noi pensiamo che la storia della vita e della carriera di Froome sia proprio una storia che racconta di quelle riserve nascoste, a cui il campione inglese è riuscito ad attingere, fin da quando era solo un ragazzo.

Nella sua autobiografia, The Climb, Froome ci racconta un episodio rivelatore in tal senso. Chris, all’epoca sedicenne, si sta allenando con quello che è stato il suo primo mentore, David Kinjah, nei pressi di Ngong fuori Nairobi. Kinjah in Kenya è una vera e propria leggenda, il corridore più vincente nella storia del Paese, si è guadagnato il soprannome di Leone Nero correndo per un anno in Italia nel team Index Alexia Alluminio, lo stesso del due volte vincitore del Giro d’Italia, Paolo Savoldelli.

Quel giorno, sulle colline di Ngong, quel ragazzo di 16 anni sogna di poter battere il suo mentore e lo racconta così: «Siamo corridori. Lo sto inseguendo. Lui è la mia preda. Sta ridacchiando come una iena perché sa che non lo prenderò mai. Ha migliaia di chilometri di strade e colline stipati lì dentro, in quelle gambe, tutti compressi in muscoli tirati. Si prende gioco di me, mi lascia intravvedere la sua ruota posteriore: ora la vedi kijana (ragazzo), ora no. Non posso vincere, ma lui mi consente di avvicinarmi al punto da farmi sperare di riuscirci.

Dopo, quando avremo finito, ci riposeremo e rideremo insieme; arriverà mia madre, che ci segue con la sua auto a un paio di ore di distanza, e ci porterà del cibo per rifocillarci.

A quel punto, lo conosco, mi dirà “Carica la bici sull’auto di tua madre kijana e torna indietro con lei. La lunga salita per arrivare a casa non fa per te”.
Mi conosce abbastanza bene da sapere che non lo farei mai. Continueremo con la nostra gara fino a casa».
Ecco noi pensiamo che l’effetto piuma di Dumbo per Chris Froome stia tutto lì.