Promesse
Quel numero di dorsale poteva sembrare una promessa: uno. E l'uno, stamattina, a Carpi, nel primo giorno di ottobre, lo aveva Elisa Longo Borghini. Lei che, appunto perché conosce il valore delle promesse, le tratta con cura. Dire troppo, sbilanciarsi troppo, significa generare attese e, se poi le gambe ti lasciano, le peggiori delusioni per chi è lì a guardare, a guardarti, vengono proprio da lì. Dalle promesse, da ciò che, ascoltando le tue parole, aveva immaginato. La sua promessa è, da sempre, il suo lavoro. Il lavorare duro, il non cedere nulla nemmeno in autunno, il non dimenticare nulla nemmeno a fine stagione. Ed è questa, in fondo, l'unica cosa che si può promettere: volerci essere. Fare il possibile per esserci.
A Bologna, i portici della salita di San Luca sembrano fuori dal tempo. Li abbiamo visti in primavera, promessa di maggio, in estate, intermezzo di frescura, in inverno, riparo dall'aria tagliente, in autunno, con le mani nelle tasche della giacca nelle giornate più aspre. Elisa Longo Borghini li conosce bene, come ben conosce quella salita, perché quell'uno è anche passato, quello delle due volte in cui qui ha già vinto. Promettere di fare il possibile vuol dire guardare avanti perché promettere è fissare un punto nel futuro e credere di andarci, vuol dire stare su una bicicletta che ha poche certezze e quella di andare avanti è una di queste, vuol dire scattare in salita, anche se sei stanca, anche se è più difficile.
Elisa Longo Borghini ha fatto così ancora oggi ed è stato uguale e diverso da tutte le altre volte. Qualcosa che colpisce, che resta in mente, perché non è solo il risultato, è il modo: una sorta di presagio che abbiamo quando alcuni atleti fanno qualcosa di straordinario in modo normale o qualcosa di normale in modo straordinario. È questo il capovolgimento che attira, che calamita. Un segreto, forse.
Seconda Veronica Ewers, terza Sofia Bertizzolo. Ne abbiamo parlato qualche giorno fa, della sua fatica, dell'ultimo strappo del mondiale di Wollongong, e guardatela oggi, mentre è lì a giocarsela che è un piacere. Il discorso non è molto diverso, sempre di promesse si parla: di quelle fatte agli altri e di quelle fatte alla propria persona.
Una ciclista sa che non si può illudere chi aspetta per ore un passaggio di qualche secondo, sul San Luca anche qualche secondo in più tanto è duro, ma una ciclista sa anche che ha il dovere di promettersi qualcosa di grande, di molto grande, quasi essenziale, per andare avanti.
Pensiamo a Marta Cavalli che proprio oggi è rientrata dopo la caduta al Tour de France Femmes ed è arrivata sesta. Vogliamo immaginare cosa sia stato per lei questo giorno, dopo tutti i risultati della stagione, dopo la crescita di questi anni. Questo giorno è stato quello che si era promessa dopo essersi rialzata dall'asfalto francese, costretta a tornare a casa. Promettersi il giorno del ritorno significa avere la pazienza di aspettare e il coraggio di dire no pur volendo dire sì. Significa credere al fatto che arriverà. Anche per Marta Cavalli è stato un sabato uguale e diverso dagli altri, un giorno da cui non si aspettava nulla e in cui chiedeva a tutti di non aspettarsi nulla perché è meglio pedalare leggeri in salita. Il suo essenziale era pedalare in gruppo, risentirsi in quel caos del plotone. Le promesse sono promesse e bisogna averne cura. Tutto qui.
L'Enric Mas, il Mimmo, Tadej Pogačar
E a ogni giro, su quella curva, la Curva delle Orfanelle, le speranze della maggior parte del gruppo andavano infrangendosi contro aspre pendenze che inacidivano le gambe.
A ogni giro, lungo i 2,1 chilometri circa che portano in cima, oltre il Santuario della Madonna di San Luca, Enric Mas sembrava stare sempre meglio.
Tantissima gente dietro le transenne, un boato a ogni passaggio, un ritmo cadenzato di mani e urla per i corridori che digrignavano i denti, alcuni costretti a fare zigzag, altri, come Rochas, mettevano il piede a terra per forza di cose: un problema al cambio e su quelle percentuali di salita non ci si poteva inventare nulla.
E a ogni giro tiravano forte gli uomini di Tadej Pogačar, il favorito, senza troppi pensieri per gli altri: prima Majka, che divorava ogni tornata come se non avesse mangiato abbastanza; dopo di lui Ulissi, e poi, quando sarebbe toccato a Formolo (ottimo anche oggi, nono all'arrivo), mancavano due giri, provava l'allungo Fortunato, che frantumava definitivamente il gruppo; Fortunato che si vede poco, ma quando si vede prova a lasciare il segno, e a maggior ragione prova a farlo su quella salita che lui conosce come fosse, anzi praticamente lo è, la strada di casa sua.
E quella strada che portava su in vetta ispirava il miglior Enric Mas possibile: nemmeno Pogačar riusciva a stargli dietro. Enric Mas, l'Enric Mas, quella che solitamente si vede quasi solo nei grandi giri o tutt'al più nelle brevi corse a tappe, possibilmente spagnole; a volte si dice non sia proprio un attaccante, uno scaldacuori, un aizza popolo, uno per cui ti strapperesti i capelli o spenderesti tutti i tuoi averi per vederlo correre. Ma questa sua versione in progressione vincente sul San Luca ha detto tanto. Sulla sua forma, sul suo status, sul momento di salute, volendo, del ciclismo spagnolo che fra sette giorni perderà - agonisticamente parlando - Valverde, che anche oggi arrivava lì vicino al podio chiudendo quarto, applaudito e applaudendo.
E così vince l'Enric Mas l'edizione numero centotre del Giro dell'Emilia, secondo Pogacar, e terzo Domenico Pozzovivo, semplicemente Mimmo per molti o forse per tutti pure in gruppo o tra la gente che urlava il suo nome; "Mimmo" sul quale ci sarebbero da spendere ancora parole non bastasse vederlo a 40 anni tenere la ruota di colui che è considerato uno dei corridori più forti del mondo. Se quelli lì davanti lo sono, chissà lui cos'è.