Stefan Küng: per il progresso
Sulla bici Stefan Küng ci è salito solo per un motivo: andare più veloce di tutti gli altri, ma quante volte da quando corre tra i professionisti la differenza con un avversario è stata così sottile da relegarlo spesso a un piazzamento ricco di rimpianti? Quante volte lui si è disperato per una questione di metri o secondi e noi a dispiacerci? Ma proprio per questo, forse, Stefan Küng è un corridore che riscuote quel successo riservato allo sconfitto, alla sua dignità, all’enfasi che si porta appresso, all’umanità che si manifesta dietro un nome, un numero, una maglia, una bici, dei pedali.
E poi c’è chi lo segue da vicino che in quanto a teatralità non ha nulla da invidiare alla gradinata di una curva di calcio argentino: ha un gruppo di tifosi tra i più folcloristici in assoluto, si chiamano King Küng Freunde e se non vi è capitato di vederli dal vivo, fatevi un giro sui loro profili social per conoscerli perché ne vale veramente la pena; e poi come non si fa ad apprezzare un corridore sempre davanti nelle corse del Nord, che se c’è brutto tempo si esalta, spesso all’attacco, a volte per terra a buttare via occasioni come se forze misteriose lo avessero preso di mira, uno che va forte sul passo e tiene bene pure sugli strappi?
In bici Küng ci è salito per correre sempre più veloce, degli altri e di se stesso, per lui inizialmente era solo fare il giro dell’isolato come uno di quei circuiti fatti di pietre e vento che lo esaltano o come quando su pista da ragazzo si toglieva diverse soddisfazioni; nessuno a casa lo ha spinto, costretto, convinto a mettere il sedere su un sellino, ma è stato un vicino che - probabilmente - lo vedeva scorrazzare come un matto da solo: «Perché non ti iscrivi in qualche squadra e ti misuri con gli altri?» pare gli avesse detto proprio così. Storia normale di cui ne avrete sentito parlare migliaia di volte e che riguardano migliaia di altri come lui.
E poi inizia a pedalare sempre più sul serio e arriva nella nazionale junior svizzera quando pareva quasi un miracolo al tempo ricevere l'attrezzatura per misurarsi a livello mondiale con le squadre avversarie: «Con la Svizzera siamo riusciti a fare grandissime cose con mezzi limitati, è il caso del mio titolo mondiale nell’inseguimento individuale nel 2015, mentre oggi i ragazzi di 17/18 anni arrivano già con casco e ruote». E lo studio del dettaglio per lui è tutto. Spiega, Küng, come sia una componente fondamentale del progresso. Ciclistico, di atleta e uomo. Se vuoi fare risultato non puoi far finta che non esista. «Io mi trovo in grossa difficoltà con quella categoria di persone che accettano ogni novità senza farsi domande». Si nutre di curiosità, condivide i suoi dati con i partner tecnici, ma fa di più, vuole sapere cosa c’è dietro ogni novità. «Pensate che quando arrivarono i freni a disco molti in gruppo dissero: vedrai che è solo la moda del momento Stefan! fra tre o quattro anni sparirà!». Uno schema mentale che il ventinovenne di Wil reputa inconcepibile.
Chi lo conosce racconta di come Stefan Küng sia persino troppo severo nei suoi confronti, come dire che se non stesse a misurare ogni dettaglio nella vittoria e nella sconfitta, non migliorerebbe mai. Su questi principi si basa la sua carriera. «Anche se avessi vinto il Mondiale in Australia subito dopo avrei analizzato i miei dati per capire dove migliorare»
Una storia fra lui e il ciclismo partita dal giro in bicicletta dietro casa, con in mezzo le tanto agognate crono dove da anni è uno dei tre, quattro più forti al mondo, e culminata con le classiche del Nord nelle quali è costantemente uno dei protagonisti, outsider (ruolo che lui adora) di grido, anche se solo quest’anno pare abbia fatto quel deciso salto di qualità, pur mancandogli ancora qualcosa per il successo, quel grande successo che ne coronerebbe una carriera. Eppure ci è arrivato così vicino. Anche lui (come noi, ahinoi) ricorda quel giorno ad Harrogate prova in linea del Mondiale 2019, quando arrivò allo sprint e perse contro Pedersen (e Trentin): una giornata fredda, con la pioggia, il suo habitat naturale, condizioni climatiche in cui lui spesso riesce a tirare fuori qualcosa in più.
«A 28 anni voglio vincere un mondiale su strada e una grande classica» dice. Fino ad allora Stefan Küng continuerà a cercare nel progresso la chiave per dare tutto nel ciclismo. Ma siamo certi che nel caso non cesserà la spasmodica ricerca verso la sua aristotelica perfezione.
I quattrocento calci
A guardarlo quando non è in bici faresti fatica a immaginartelo come uno scalatore duro, vero, di quelli che, quando pedali in gruppo con lui speri sempre di trovartelo in cattiva giornata, altrimenti, forte com'è, capace che fa saltare il banco, che ti fa saltare per aria. Intanto lui è lì, piccolino sul manubrio ma forzuto, a mulinare sui pedali, a scartare da una parte all'altra della careggiata nei tratti più duri, a guardare in faccia uno per uno gli avversari, a staccare tutti.
Occhialuto, faccia tra l'intellettuale e l'impiegato, David Gaudu non è per nulla il nome nuovo del ciclismo francese - né mondiale - perché talento e carisma lo aveva già mostrato anni fa quando era ragazzino e quando, per forza di cose, eravamo tutti più ingenui. Negli ultimi mesi, però, qualcosa è scattato, e anche lui strada facendo, con gambe sempre più veloci, si è unito a quel gruppetto di corridori che hanno preso di petto il ciclismo e lo stanno rivoltando.
Arriva dal Finistère, terra alla fine del mondo e di ciclisti a tutto tondo, persino di scalatori, nonostante le cime più alte pare non arrivino nemmeno a quattrocento metri, e hanno un nome così difficile da ricordare e da pronunciare: Roc’h Trevezel e Roc'h Ruz. Genitori descritti come di una disarmante normalità e che nulla hanno a che vedere con le due ruote agonistiche: papà artigiano piastrellista, che lo ha messo in bici per passione, mamma ragioniera contabile: quell'aria impiegatizia che trasmette per forza l'ha ereditata da loro. Storie anche di animali la sua: Pierre Carrey, su Libération, un paio di anni fa alla vigilia del Tour, per raccontarlo scrisse un incipit ricco di ritmo e assonanze:
"Quand les coureurs cyclistes se vivent en objets fragiles enveloppés dans du papier bulle, levés avec le coq, endormis avec les poules, David Gaudu, 22 ans, s'est choisi une autre voie: sa chienne".
E se parliamo di assonanze ci verrebbe da dire come oggi abbiamo finito di aspettare Gaudu, ma lo evitiamo. Ci verrebbe da dire che Gaudu quando vuole in salita è uno di quelli che può inserirsi tra gli sloveni e dare filo da torcere ai colombiani, come ha già fatto per altro: nel 2016 vinse il Tour de l'Avenir dove al quarto posto arrivò proprio Bernal. Lo scorso anno vinse due arrivi in salita alla Vuelta, nel 2019 al Romandia tra i battuti Roglič.
Diciamo anche che, più che inseguire il Tour - come ogni francese lo sente sulla pelle - David Gaudu potrebbe lasciare il segno alla Freccia Vallone o alla Liegi-Bastogne-Liegi. Sulle strade delle Ardenne c'ha già provato: alla Freccia fu nono da neo professionista, di più: fu il primo a rompere gli indugi nella caotica volata, oltre il 20%, sul Muro di Huy, mentre alla Liegi (6° nel 2019) sulla Redoute prima ancora di lui il protagonista è stato il suo cane.
Gaudu ha un husky: Houna si chiama. Sono inseparabili come dimostrano le foto che il corridore pubblica sui Social o come raccontano i suoi compagni di squadra. Madouas, amico, coetaneo, anche lui bretone e suo compagno di stanza, raccontava tempo fa sempre sulle pagine di Libération: «Ogni sera David ci mostra una foto del suo cane. Se viene a trovarlo all'inizio di una gara, ce lo dice il giorno prima. È pazzo. Non so se lei lo calma o se gli dà la forza per fare il suo lavoro, ma il suo cane occupa un posto essenziale nella sua vita». Mentre Pinot, suo capitano in Groupama (ancora non per molto visto la parabole delle loro carriere) puntualizza: «Se io sono un animale da fattoria, Gaudu è un cane».
Lo stesso Gaudu racconta di come la sua vita giri intorno a Houna, come un personaggio a metà tra un romanzo di Guillermo Arriaga e un racconto di Jack London: «Siamo fatti l'uno per l'altro. Mi segue ovunque e in inverno mi alleno a piedi correndo assieme a lei nei boschi. Sta sempre al mio fianco. Nella mia borsa c'è la sua ciotola insieme ad acqua e cibo. È un cane robusto e potente, ma c'è una cosa bizzarra però che non mi torna: in salita non va troppo forte. Se io sono uno scalatore allora lei è una velocista».
Ma torniamo a quella Liegi Bastogne Liegi: sempre Carrey sul quotidiano francese descrive il passaggio sulla Redoute di Gaudu, racconta di un trambusto inizialmente non identificato tra la folla. Poi a un certo punto si vede un cane tirare come un forsennato al guinzaglio: è Houna “che salta come una cavalletta quando David le passa sotto il naso”. Storia di cani ma anche di gatti: un giorno un gatto gli attraversa la strada durante una corsa tra gli juniores gli si infila tra i raggi e Gaudu cade.
Pochi giorni fa ai Paesi Baschi è rimasto solo con Primož Roglič, mentre Tadej Pogačar si affidava a più miti consigli lasciando perdere qualsiasi rischio in discesa. Vince Gaudu dopo aver battuto il pugno in segno di intesa a Roglič il quale evita la volata che sarebbe stata vincente sì, ma esiziale per il prosieguo della stagione. Dopo gli ostaggi fatti alla Parigi-Nizza è arrivato tempo di farsi qualche amico in più in gruppo, avrà pensato lo sloveno. L’idea di tenersi stretto Gaudu non ci pare così campata per aria. Già sulle Ardenne vedremo che effetto farà e poi al Tour magari la prova del nove.
Foto: ©PHOTOGOMEZSPORT2020