Benoît Cosnefroy e la foto ricordo

Non appena tagliato il traguardo del fu Gp de Plouay, oggi Bretagne Classic, Benoît Cosnefroy si è visto avvicinare da un ragazzo, in verità un uomo, con una maglia diversa dalla sua ma così rinoscibile in mezzo al gruppo. Con quel ragazzo-uomo, pochi minuti prima, quando mancavano una ventina di chilometri al traguardo, si era mandato a quel paese: «Che fai? Non tiri? Ci riprendono!». Ma Benoît Cosnefroy conosce lo spirito del terzo tempo e una volta finita la corsa dimenticherà tutto prendendosi pure i meritati complimenti.

Qualche anno fa a Montréal, Gp de Montréal, Benoît Cosnefroy si stava involando verso l'arrivo. C'era di nuovo quel ragazzo-uomo, stavolta con una maglia diversa, invece che bianca con quei cinque colori messi in cerchio come quella indossata a Plouay, tutta blu; lo riprese a poco dal traguardo; invece di tirare dritto gli si mise a ruota e ci fu una scena simile: Cosnefroy si girò e lo mandò diretto a quel paese, diritto di fronte alle telecamere.

Ci fu un belga che li riprese e li fulminò, quel belga aveva un casco dorato, figlio della vittoria ai Giochi Olimpici di qualche anno prima. Superato il traguardo, il ragazzo-uomo in tredicesima posizione, Cosnefroy poco più dietro, i due si chiarirono: «Non ne avevo più» disse uno. «Nessun problema» disse l'altro «D'altra parte, tu sei il mio punto di riferimento» sentenziò Cosnefroy. «Spero un giorno di poterti battere».

Qualche anno prima ancora, è il 2015, Cosnefroy era un dilettante di belle speranze, poco più di un bambino con gli occhiali. Dalla Normandia, dove vinse una corsa che portava il suo stesso nome - al Tour des Pays de Savoie. Un’auto entrò nel circuito e lo prese in pieno. Benoît ricorda poco o nulla di quella scena, se non di essersi ritrovato in un letto d'ospedale con un edema cerebrale. Una trasfusione per salvargli la vita. Cinquanta punti di sutura tra faccia e collo che si fermarono a tanto così dalla carotide. Sa di essere sopravvisuto per miracolo e ricorda le notti a svegliarsi all'improvviso («era il mio corpo che ricordava il trauma»), che per i primi mesi faceva fatica persino a pronunciare alcune parole, mentre il braccio pareva quasi inutilizzabile. Ricorda di essere ingrassato, che pensava solo a mangiare. Una volta tornato a correre e passato poi professionista lo iniziarono a paragonare a quel ragazzo-uomo che da lì a qualche anno avrebbe spesso incrociato lungo le strade di tutto il mondo (ciclistico).

Succede così domenica scorsa: Benoît Cosnefroy si ritrova testa a testa con Alaphilippe, ragazzo che si è fatto uomo, punto di riferimento di un intero movimento, idolo ciclistico di Benoît. I due arrivano assieme al traguardo, Alaphilippe non ha le gambe dei giorni migliori, Benoît, dopo i problemi accusati alla fine del Tour 2020, sì. Sembra quello che vinse un mondiale Under 23 nel 2017, quello che scattava a Montréal o che chiudeva secondo alla Freccia Vallone e alla Paris-Tours. Cosnefroy conosce bene il finale che porta a Plouay, ma sa che Alaphilippe è forte, veloce. È il favorito. Lo fa sfogare sul rettilineo, e mentre Alaphilippe digrigna i denti, lo salta via.

Superato il traguardo, tutto si dimentica. La maglia, l'agonismo, la rivalità - Alaphilippe gli si avvicina: «Sei stato il più forte - gli dice - te lo meriti». Cosnefroy si tiene stretto i complimenti, e alla domanda su cosa si provi a battere il suo idolo, ci scherza su: «È una sensazione speciale. La foto penso che la incornicerò. Forse non l'appenderò nel soggiorno, ma la terrò nell'album dei ricordi».


È la fine del mondo

Il primo giorno è già passato, volato via, e ha quella faccia un po' insolente di Julian Alaphilippe. Il primo giorno è già passato accendendosi con lo spettro dei colori della maglia di campione del mondo. Il primo giorno è schizzato, da pallido a lucente, da drammatico a evocativo, tra cadute e primi rimpianti, debolezze ed errori, gesti atletici superiori e altre piccole e grandi storie che il Tour de France, in poco meno di cinque ore, ha già raccontato.

Ci aspettava una sfida di irripetibile fascino oggi, un gioco pieno di significati. Van der Poel per Poulidor, van Aert per battere van der Poel, Colbrelli per farci sognare, Sagan per far vedere che c'è ancora, Alaphilippe per tutta la Francia, e poi Pogačar contro Roglič, e altro ancora.

E il primo giorno è passato: può essere espresso tutto in quello scatto ai meno due dall'arrivo o forse era qualcosa in più. Vola via nelle mastodontiche sembianze da trattore di Declercq che alle 12.30 è davanti al gruppo, e quattro ore dopo è ancora lì a dare cambi, a chiederne a sua volta, a comandare, a mietere, a guidare.

Scivola via: nella tirata di Cattaneo, nell'imbeccata di Devenyns. "Vai e scatta" sembra dire girandosi verso il fedele amico e capitano. Vola via: su quella rampa che sembrava non finire mai, che si estingueva nelle gambe di Alaphilippe che spingeva per spogliarsi dell'iride e andare a vestirsi di giallo.

Il primo giorno è già volato ed è in Colbrelli che sognava, ma annaspava, in Nibali che chiudeva davanti a van der Poel, in van Aert che rimbalzava, in Gaudu che rimontava, in Roglič e Pogačar che un po' giocavano tra di loro, un po' soffrivano, perché pare giusto che anche i più forti, a volte, debbano un po' concedere.

Il primo giorno è passato: nelle cadute, tremende, quelle che non vorremo mai vedere, che vorremmo chiudere gli occhi e dimenticare, e che purtroppo fanno parte di uno sport che non è un gioco, anche se è tremendamente bello. Il primo giorno di un Tour de France che in (poco) meno di duecento chilometri ha già gettato via la maschera esprimendo la sua drammatica grandezza, il suo irreversibile giudizio. Il suo irreparabile frastuono.

D'altro canto la partenza è in una terra che è la fine del mondo, tanto da chiamarsi Finistère -"Tout commence en Finistère" è una scritta enorme sulla spiaggia, messa lì a ribaltarne il concetto - dove tutto ha inizio e fine, dove le strade sono strette da ricordare strazianti viuzze, i tifosi tanti e troppi. E il Tour si adatta rivoltandosi prima ancora di dare un segnale di vita.

E così il primo giorno vola via nel gesto all'arrivo di uno che fino a pochi minuti fa vestiva la maglia di campione del mondo e da domani quella gialla. Merci Julian, non fanno che urlare i francesi, mentre lui ringrazia Asgreen subito dopo il traguardo. In un Tour partito dalla fine del mondo e che in poche ore ha già fatto il pieno di storie.


Sogni di un pomeriggio di Tour de France

Il mondo corre. A volte così veloce che ti scuote e ti ribalta. Ti mescola e ti confonde. Dirada e cancella. Il ciclismo non si sottrae a queste semplici regole. È il 13 luglio del 2019. È il Tour de France. È l'ottava tappa. I francesi pensano in grande e Alaphilippe è l'uomo dei loro sogni. Si arriva a Saint-Étienne, ma sarebbe potuto essere un qualsiasi altro posto. La tappa la vince De Gendt: non sarebbe potuto esserci epilogo migliore. Dietro, dal gruppo della maglia gialla indossata da Ciccone, scatta, per conquistare l'abbuono, Alaphilippe. Lo segue Pinot. I due vanno forte abbastanza da staccare il gruppo, ma non così tanto da riprendere De Gendt.

Alaphilippe fa sua la maglia gialla, grazie a quell'abbuono e a quel margine risicato sul traguardo. La maglia la terrà fino alla tappa dell'Iseran facendo sognare i suoi compatrioti. Pinot lo precede sul traguardo di Saint-Étienne in un giorno in cui non avrebbe dovuto nemmeno rispondere alla miccia accesa dal suo connazionale. La fantasia, se ben impugnata, può più di ogni idea tattica.

De Gendt vince, Pinot secondo, Alaphilippe terzo. I due francesi si abbracciano, subito dopo il traguardo, in un'immagine che fece il giro del mondo evidenziando, nelle increspature di un epoca a volte disumana, lo spessore umano dei due corridori. Sognano, i francesi, con Alaphilippe e Pinot. Si esaltano.
Quel Tour, allora, sembrava possibile persino vincerlo: dopo più di trent'anni in Francia ne hanno due in grado di riportare a Parigi le maillot jaune, di sfatare una delle più lunghe maledizioni della storia del ciclismo. Con un ragazzo a volte persino istrionico, febbrile, tarantolato, attaccante nato. L'altro più tenebroso, quasi intellettuale, un po' atipico, ma forte in salita, e nella narrazione dei Grandi Giri, un predestinato.

Qualche giorno dopo Alaphilippe vince la cronometro di Pau, gonfiando il proprio margine sulla concorrenza. Pinot, sul Tourmalet qualche ora dopo, si mostra il più forte in salita. Di colpo altro che sogno: è realtà.

Poi: tutto come un incubo. Un cambio repentino, uno scolastico esempio di tragedia shakeaspeariana. Incorniciato dalle Alpi francesi più che dalla brughiera scozzese; lampi e tuoni come nel Macbeth. Superstizioni che si fanno reali, lacrime, i compagni di squadra di Pinot lo sorreggono e lo abbracciano. All'improvviso Pinot è vuoto. Di energie, ha la testa piena di troppe emozioni. Non va più avanti. Si ferma e da lì sembra ( a parte qualche lampo) che non si sia più ripreso.

Da lì il suo volo non è più spiccato, tanto che oggi è fermo ai box, tanto che si manifestano espressioni in grigio scuro sulla sua futura carriera. Alaphilippe quello stesso giorno, nella tappa dell'infinito Iseran, quasi 3000 metri d'altitudine, dove tutto franava verso Tignes, cederà la maglia gialla. Franava Alaphilippe, franava Pinot, franava la montagna. Il giorno in cui Bernal conquistò il Tour.

Fra poche ore si parte con il Tour numero 108, con Alaphilippe che veste la maglia iridata e con Pinot che oggi non c'è e domani chissà. Il mondo da quella volta è cambiato in maniera repentina. Pinot lo aspettiamo prima o poi, Alaphilippe invece ha un sogno.

Foto: ASO/Alex Broadway


A Liegi vince la fantasia

A Place Saint-Lambert, alla partenza della Liegi-Bastogne-Liegi, qualcuno ricorda Antoine d'Ursel, l'uomo che "tentò di truffare la Liegi", nel 1892, non proseguendo per Bastogne, ma restando lì, nascosto, nell'attesa del suo rivale Leòn Houa. D'Ursel perse, venne scoperto e fuggì in America, in preda all'imbarazzo. A Liegi resta anche qualcosa di Georges Simenon e del commissario Maigret, qualcosa di quello studio in cui lo scrittore si chiudeva, con del cognàc e delle pipe. Potresti immaginarlo ovunque, guardando verso l'alto di un edificio, dietro una finestra. Non c'è posto per strane idee.

Da Liegi a Bastogne e ritorno, ma da un'altra strada. Quella infarcita di côte, denti a mordere i muscoli. C'è la fuga, c'è anche un italiano davanti, Lorenzo Rota, ma le strade imbastite di case con tetti di ardesia, a cupola, a torretta, a ricordare i Castelli della Loira, non hanno pietà. Lui, Huys e Marczyński saranno gli ultimi fra i sette fuggitivi a cedere alla caccia del gruppo. Vliegen si bloccherà d'improvviso qualche metro prima, massacrato dai crampi, come un rantolo sordo. L'inizio dei saliscendi è una campana a morto per chi è in coda al drappello di testa come al plotone: atleti che si staccano, indolenziti dall'acido lattico, come tendini che si strappano, mentre davanti si buttano le prime carte.

Luis Leòn Sànchez e Omar Fraile scattano sulla Côte de Wanne, placcati dal gruppo. Anche Philippe Gilbert si farà vedere in testa sullo Stockeu, colle che ricorda una stoccata, qualcosa di rapido ma doloroso. Lui che, nei giorni scorsi, è andato dal suo macellaio, a Remouchamps, accanto a La Redoute a comprare una bistecca. Emozionato perché non gli capitava da tanto di essere a casa nei giorni prima della Doyenne. Sono graffi, niente più. Rosier e Desnié sono solo fatica, pura fatica, nelle gambe, in attesa di una corsa che scalpita, un purosangue nervoso che cerca di scrollarsi di dosso un fantino inesperto.

L'azione della Deceuninck-Quick Step e successivamente quella della Ineos frantumano il plotone una prima volta su La Redoute, una seconda volta sulla Côte de Forges, la più innocua all'apparenza, ma, dopo duecentoquaranta chilometri, le apparenze somigliano a miraggi: ingannano sempre.

Il nome Redoute deriva dal linguaggio bellico, significa fortino di guerra, luogo in cui mimetizzarsi e nascondersi. Qui è ancora possibile fingere. Poco più in là ogni imbroglio è scoperto e pagato a prezzo d'oro. Richard Carapaz riuscirà ad andare via così, grazie alla tattica di squadra, a tutta, testa bassa e denti talmente digrignati che quasi ti chiedi come facciano a non saltare sotto tanta pressione. Chi sbaglia, paga. Vale per l'Astana che dopo tanti attacchi resta a bocca asciutta quando l'attacco è quello giusto. Vale anche per lo stesso Carapaz che forse esagera nello scatto e quando partono Valverde, Alaphilippe, Woods, Pogačar e Gaudu non può che restare a guardarli, da lontano.

Siamo sulla Roche-aux-Faucons, salita che nel nome ricorda i falchi, per assonanza, loro che ghermiscono e portano via. Roglič è dietro, Schachmann anche, Kwiatkowski pure.

Ora la strada verso Liegi scorre veloce, prima perché in discesa, poi perché i cinque in testa spingono i pedali a gran velocità, sembrano non sentire la fatica, mentre provano a seminare il gruppo. Nel frattempo le squadre degli attaccanti rompono i cambi e favoriscono la fuga.

L'ingresso nell'ultimo chilometro è attesa, battito e respiro trattenuto. Gaudu si sposta a bordo strada, Alaphilippe si volta a destra e a sinistra, favorito in volata, Valverde è in testa, quarantuno anni oggi e ad un passo dalla quinta Liegi, come Merckx, alla sua ruota Woods, Pogačar pizzica la radiolina e si mette in ultima posizione. Valverde parte lungo, Alaphilippe sembra rimontarlo, è pronto al colpo di reni finale, Pogačar è un equilibrista che dal lato delle transenne si butta all'interno e lo supera sul traguardo. Al secondo posto il campione del mondo che ancora una volta viene beffato da uno sloveno, terzo Gaudu.

Vincono l'imprevedibilità e la fantasia di un ragazzo di ventidue anni che l'anno scorso ha vinto il Tour de France e che ancora riesce solo a immaginare dove può arrivare. Perché Simenon ed il suo Maigret lo sanno bene: a Liegi non si può barare, ma è concesso, anzi doveroso, inventare.

Foto: Peter De Voecht/BettiniPhoto©2021


Siamo tutti Alaphilippe

La storia di Julian Alaphilippe è una di quelle storie in cui tutti ci siamo immedesimati sin dal primo momento. E ci siamo immedesimati perché è storia sua ma, in realtà, è storia nostra. Accade con quelle vicende che racchiudono ciò che tutti viviamo o abbiamo vissuto. Magari non integralmente, magari solo per brevi tratti, magari di riflesso ma sappiamo bene cosa c'è lì dentro, sappiamo bene cosa si prova a stare in quei panni. Quando gioisce qualcuno con quella storia, in fondo, gioiamo tutti. Come se esorcizzassimo qualche groppo in gola, come se guardassimo a tutto quello che ci ha fatto del male e gli dicessimo in faccia: «Vedi? Ci rialziamo lo stesso». Certe storie ci fanno forti. Questo è il bello. Ed è per questo che, appena Alaphilippe ha alzato le braccia al cielo, domenica, siamo tornati indietro e, col pensiero, abbiamo rivisto tante cose. Per lui ma in realtà per noi.

Abbiamo ripensato ai giudizi. Sì perché a tutti è accaduto, almeno una volta ma in realtà molte di più, che un giudizio ci ributtasse là, in fondo al buco nero dove ci siamo sentiti invisibili ed inascoltati. Magari dopo che tanto avevamo fatto per uscirne. Dopo che tanto ci avevamo creduto. Quando eravamo così giovani e di credere avevamo tanto bisogno. E non c'è nulla di peggio soprattutto nell'età della crescita. Un preside me lo disse, qualche anno fa. «Tutte le parole hanno un peso ma le parole pronunciate nei confronti di persone di una certa età, giovani o adolescenti, pesano molto di più. Quelle parole possono rovinare una vita. Certi non ci pensano». Julian è passato da quelle parole: «Suo figlio non ha le capacità per frequentare un liceo. Non ha nemmeno il fisico per frequentare una scuola di ciclismo. Anzi sarebbe il caso che iniziasse a lavorare invece di perdere tempo con gli amici». Qualcosa di questo tipo, qualcosa di questa forza. Le critiche possono servire per crescere, i giudizi perentori no. Quelli distruggono senza dare una seconda opportunità. Senza nemmeno considerare che in errore potrebbe benissimo essere colui che quel giudizio lo ha emesso. Non conta nulla l'età, l'esperienza e tutto il resto. Sbagliano tutti, persino le eccellenze. Essere eccellenza, in realtà, dovrebbe essere un concetto a larga scala, fondato sulla meritocrazia delle capacità e delle competenze ma affiancato dalla sensibilità e dalla cura. Chi sfoggiando la propria capacità, vera e presunta, irrida o distrugga le speranze di altri dovrebbe sottoporsi a un serio esame di coscienza. Catherine, mamma di Julian, ha creduto a quei giudizi, e forse non poteva fare altrimenti date le circostanze. Papà no. Papà ha creduto in un futuro che pareva impossibile. Ha creduto che, forse, quell'irrequietudine del figlio fosse solo sinonimo di un qualcosa da cercare, da trovare. Che quelle biciclette, che tanto gli piacevano, potevano essere un mezzo per farsi strada tra tante cose.

Abbiamo pensato a tante altre cose ed in particolare alla mancanza. Tutti abbiamo qualcuno che ci manca. Perché non c'è più o perché c'è ma è altrove. A tutti mancano delle braccia per essere stretti e delle mani a carezzare il volto. Possiamo cercarle ovunque e non le troveremo più. Altri ci abbracceranno, altri ci accarezzeranno le gote ma non sarà la stessa cosa. Bisogna dirlo. Certe braccia e certe mani le perdi una volta e non ci sono più speranze di riafferrarle. Julian rivorrebbe quelle di papà. Dice che la sua mancanza gli ha tolto il fiato, gli ha tolto tutto. Dice che il mondiale è per lui e piange, guardando il cielo. Sappiamo come si sta. Sappiamo la paura che fa la parola "sempre" in queste circostanze. Fa talmente paura che ci si rifiuta di accostarla alla persona che "abbiamo perso per sempre".

La storia di Julian è la storia di tutti noi perché sa di umanità. Perché racconta umanità e rifugge ogni stereotipo di forza, di perfezione, di eroe che non teme niente e nessuno. Gli uomini non sono così e nemmeno i ciclisti lo sono. Nemmeno se vincono il Tour de France o il Mondiale. Nemmeno se la narrazione sportiva così li dipinge. Forse si raccontano gli sportivi in un certo modo pensando di incuriosire la gente. Di mostrare quel lato "invincibile" che tutti vorremmo, specie quando la vita presenta il conto. Per questo ci sono i supereroi o i miti dell'infanzia. Ed è un bene. Degli uomini e delle donne, invece, ci interessa tutto il resto. Ci interessa la loro gioia, la loro sofferenza ed il loro essere ancora qui. Ci interessa il modo di tenerli stretti per farli restare qui, anche quando dubitano o hanno paura. Nonostante tutto. Come Julian.


Alaphilippe è l'uomo del mondiale di Imola

Non è un caso se il Campionato del Mondo è, per molti, la gara dell’immaginazione sin da fanciulli. Non sono un caso la mano portata al cuore durante l’inno o il legame che ognuno stabilisce con un colore; quel colore che, chissà perché, rappresenta la propria nazione. Alla fine, se guardi bene, quel colore è un paesaggio, un umore, un’indole, una persona, forse una musica. Tante altre circostanze legate a questa competizione, anche la sua luce, la sua stagione e il ricordo del primo Mondiale vissuto, vogliono dire ciò che vogliamo dirvi noi, oggi.

Persino la fuga: Jonas Koch, Torstein Traeen, Yukiya Arashiro, Danii Fominykh, Ulises Castillo ovvero Germania, Norvegia, Giappone, Kazakistan e Messico. Senza dimenticare tutti gli altri che lì, davanti al gruppo, ci sono andati. Perché il Mondiale, è questo il punto, è per molti la possibilità di plasmare un’idea e di farlo insieme. È quella magnifica sensazione di gruppo, di quando fai qualcosa e ti rendi conto che non lo stai facendo solo per te. Quando fai qualcosa e hai il sogno o anche solo l’immaginazione che quel tuo passo cambierà qualcosa per altri. Qui c’è il concetto di terra: sembra quasi di sentirne il profumo o l’umidità. Come quella dei prati in cui ti distendevi da bambino con addosso quel colore. Pensando che un domani tu, proprio tu, avresti rappresentato qualcuno. Quando ci parli, gli atleti ti dicono questo: «Credo che la mia terra abbia tanti talenti. Vorrei essere un esempio, vorrei aprire un varco. Una strada». Essere un esempio ovvero buttarsi in avanti senza pensare alle conseguenze. Fa paura, certo. Forse fa meno paura quando sai che qualcuno sta capendo il tuo gesto. Che, almeno qualcuno, ci sta provando e i cinici dicano ciò che vogliono. Non hai nemmeno il tempo di pensare a loro. Questo, per i più, è il significato di un giro di pedali al Mondiale: ritrovare quella forza e quella splendida incoscienza che solo l’appartenenza regala. E quando hai quelle non ti ferma più nessuno.

Tadej Pogačar questa cosa la sa molto bene, meglio di altri. La sa perché sa quanto potesse sembrare una follia vincere il Tour de France, a ventidue anni, alla penultima tappa ed essere a Parigi con occhi gonfi di lacrime grosse quanto una noce. Sapeva che in tanti, comunque, ci credevano già prima che accadesse e altri hanno faticato a crederlo anche dopo quel tramonto ai Campi Elisi. Lui ha capito che l’importante era fare qualcosa per i primi, perché quando qualcuno smette di credere a qualcosa è un dramma e per chi non spera in nulla poco si può fare. Per chi crede e spera si scatta anche oggi. Un motivo lo si trova sempre, come lo trova Damiano Caruso che immagina un ciclismo raccontato dalle storie di tutti e per questo scatta e allunga. Perché, se non sei pronto a farti un poco male per ciò che vorresti, anche se ottenessi tutto non sapresti difenderlo. Il mondo invece ha bisogno di persone che difendono ciò che vogliono a costo di sbucciarsi le ginocchia e di piangere qualche notte. Ai tuoi desideri devi tutta la protezione di cui sei capace, altrimenti lasciali ad altri.
Alaphilippe è l’uomo di questo Mondiale. Non solo perché lo vince, non solo perché è Campione del Mondo. È l’uomo di questo Mondiale perché la sua storia parla di questa storia. Di dignità e orgoglio, di quando sei ad un passo e perdi tutto ma anche di quando vinci mentre nessuno ti sta aspettando. Parla dei colori che ci portiamo addosso e di appartenenza. Di quel “Lulú” che é uomo forte e fiero ma anche figlio indifeso, abbandonato tra le braccia di un padre. Che poi è uno dei modi più veri che esistano di essere uomini. Poi ci sono tutti i ricordi cancellati per andare avanti e quelli rilanciati per trovare le forze. C’è tutto questo e tanto altro. C’è soprattutto quell’iride che è lì, in quella maglia, e starebbe benissimo sullo schermo del cielo. E chissà che Imola, prima di sera, non la proietti lì, come in un sogno.

Foto: Luigi Sestili