Tra le storie della SD-Worx: intervista a Elena Cecchini

«Ho abbracciato Demi, poi ho cercato Lotte tra la folla dell'arrivo. "Lotte, sei felice?" le ho chiesto e lei mi ha risposto sinceramente: "Sì, Elena, sono felice". Credo fosse importate quella domanda, di certo importante è stata la risposta». Elena Cecchini parte da Piazza del Campo, a Siena, alla Strade Bianche per raccontare la sua squadra, SD-Worx. Ancora meglio, parte da quello sprint a due, tra Vollering e Kopecky, vinto proprio da Vollering.

Ci spiega di Lotte Kopecky, della sua introversione e di tutte le volte che, l'anno scorso, la cercava con gli occhi al traguardo, dopo una volata: «Facevo fatica a vederla felice, soddisfatta, a meno che non vincesse e, dentro di me, pensavo che fosse il mio lavoro il problema, che non fosse abbastanza. Nel tempo, abbiamo parlato e ho capito che Lotte aveva esattamente il mio stesso timore: non riusciva ad essere pienamente serena perché temeva di aver deluso la squadra». Non è un inverno facile per la belga: la notizia dell'arrivo di Lorena Wiebes, indubbiamente, l'ha fatta pensare, le ha messo dubbi, quasi come si sentisse sostituita, «poi ha compreso di non essere una velocista pura e che Lorena poteva solo aggiungere qualcosa, non togliere. Ma è da comprendere, chiunque avrebbe reagito così». Una timidezza con cui non è facile convivere per Kopecky, soprattutto da quando la sua popolarità è esplosa dopo la vittoria del Fiandre. Quella sera, non è potuta rientrare a casa perché la sua abitazione era letteralmente assediata da fotografi e giornalisti e con questa fama deve fare i conti ogni giorno e la squadra allestisce conferenze stampa apposta per lei, per raccogliere lì tutte le domande.

«Mi spiace che l'impressione generale sia stata che io e Demi non fossimo soddisfatte di com'era andata la gara. Eravamo solo spaesate perché non ci eravamo parlate prima» ha confessato Kopecky a Cecchini, in pullman, in una riunione post gara. L'accordo era che Vollering avrebbe attaccato prima e Kopecky successivamente, ma che le due avrebbero collaborato fino alla fine. Danny Stam, uno fra i direttori sportivi di SD Worx, la sera prima era tornato a parlare con Vollering: «Ma se io sono davanti- aveva detto lei- non ha senso che Lotte attacchi, non ti pare?». La risposta era stata pronta: «Ha senso, perché sole non resterete comunque e, se non collaborate entrambe, la gara la vincono le altre». Ed, in effetti, chiosa Elena Cecchini, Faulkner è andata davvero vicino alla vittoria. Sta di fatto che, quell'impressione sbagliata avuta dalle persone, stava rovinando l'atmosfera. Cecchini è intervenuta per questo: «Non state male perché non vi siete parlate. Avete fatto qualcosa di straordinario, andate oltre».

Racconta Cecchini che l'anno in cui Demi Vollering è arrivata in SD-Worx, condividevano la camera e, da subito, lei l'aveva soprannominata "la Principessa": «Sì, perché era molto giovane e l'aiutavamo molto, anche nelle cose più semplici. Anche nel portare i vestiti in lavanderia. Ricordo che detestava quel soprannome. Il nostro rapporto è cresciuto anche così e con questo è cresciuta anche Demi». Una ragazza semplice, genuina, molto emotiva che piange per le vittorie e nel tempo libero fa yoga, meditazione oppure va nella natura, sta in montagna e fa lunghe passeggiate. «Il primo anno, con Anna van der Breggen come capitana, per lei è stato il più semplice, dopo ha dovuto prendere la squadra sulle spalle e assumersi molte più responsabilità. Per molti è diventata "la rivale" di van Vleuten e, ogni tanto, me lo dice: "C'è chi sta aspettando che Annemiek lasci, perché non avere più una rivale come lei cambierà molto. Io voglio che resti, voglio che sia forte e batterla mentre è forte». Demi può farlo, ne sono certa". Elena Cecchini fa una pausa, noi stiamo per formulare un'altra domanda, ma lei riparte, per una precisazione.
«Capisci perché non c'è stata decisione dall'ammiraglia? Se un direttore sportivo avesse indicato un nome piuttosto che un altro, il timore era quello di rompere un equilibrio di fronte a due campionesse di questo tipo perché l'una o l'altra avrebbe potuto avvertire come ingiusta la decisione per il lavoro fatto. Ti assicuro che basta davvero poco, quando ci sono situazioni di forte pressione, per creare una frattura». Cecchini racconta di quanto creda nel valore del dialogo e di quanto parli sempre molto con le compagne di squadra: «Quello che facciamo, e quindi il risultato che otteniamo, è strettamente connesso al modo in cui ci sentiamo, a quello che pensiamo di noi stessi o alla considerazione che gli altri hanno di noi».
In questo, la presenza di Anna van der Breggen in ammiraglia è un punto fondamentale perché anche la campionessa olandese sta continuando a crescere in ammiraglia. Spiega Elena Cecchini che l'anno scorso, quando si trattava di fare rimproveri o osservazioni, van der Breggen era più restia, si sentiva ancora molto ciclista, molto compagna di squadra, quest'anno ha preso sicurezza in ogni cosa, anche nella guida dell'ammiraglia: «Difficilmente sarà Anna a venire a dirti qualcosa, ma perché fa parte del suo carattere: parla poco e al momento giusto. Se, però, chiedi un consiglio, puoi essere certo che il suo punto di vista non mancherà e sarà dritto al punto, schietto». Come prima della Strade Bianche, quando van der Breggen ha parlato alla squadra.

Ronde van Vlaanderen 2022 Women - Tour des Flandres - 19th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 158,6 km - 03/04/2022 - Elena Cecchini (ITA - Team SD Worx) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2022

«Arrivate agli ultimi quindici chilometri, vi sentirete sfinite, penserete di non farcela più, in quel momento, dovete pensare che anche le vostre rivali stanno così. Resistete, perché è l'unica cosa da fare e perché anche le altre stanno resistendo». Poche parole e un'attenzione costante: lasciare sempre fuori la campionessa che è stata e rapportarsi con un ruolo nuovo. «Ho sempre avuto la sensazione che dietro la sua tranquillità, ci fosse la visione chiara che il ciclismo fosse una parte importante della sua vita, non il tutto. Oggi il suo ciclismo ha ancora un'altra forma, una forma che sta conoscendo giorno dopo giorno».
Si arriva così a Lorena Wiebes, l'altra punta di diamante del team: Cecchini la definisce semplicemente "uno spasso". Wiebes praticava ginnastica artistica prima di arrivare al ciclismo e la sua conformazione fisica lo racconta. Anche qui la parola d'ordine è "genuinità": «Fuori dalle gare, la trovi a guardare serie televisive, film, ha sempre un modo molto naturale di porsi, ma, in quanto allo sprint, è molto competitiva e può insegnare tutto». In SD-Worx l'apporto di Wiebes ha riguardato soprattutto il lead out, il lancio delle volate, qualcosa in cui Cecchini ammette che la squadra doveva perfezionarsi.
Lorena Wiebes parte dalla linea d'arrivo e torna indietro, fino all'ultimo chilometro, per descrivere il lead out: «Se ai 150 metri devo essere a questa velocità, in un determinato tratto, vorrà dire che ai 400 metri la velocità e la posizione dovranno essere queste». E così via: con sicurezza e fiducia nella ruota che la precede, ma anche con l'idea di mettersi alla prova, di "cavarsela" se la squadra non può fornire interamente il proprio contributo.
In tutto questo, c'è Elena Cecchini, gregaria, a disposizione. «Mi è successo di chiedermi se riuscissi effettivamente a soddisfare tutte le aspettative della squadra. Ci sono momenti in cui puoi mettere tutta te stessa, ma le gambe non girano come vorresti, cosa puoi fare? Dirti che più di così non potevi proprio dare, che meglio di così non potevi prepararti. Bisogna dirselo spesso e, magari, invece di chiedersi se si è pronti, dirsi: "Sì, con quello che ho fatto, sono pronta per forza. Vada come vada”».


Il rumore dell'Inferno

Che rumore fa Tadej Pogačar che accelera sull'Oude Kwaremont e riprende tutti? Un suono simile a quello delle ruote che dapprima sfruttano la superficie centrale delle pietre, quella più consumata dal passaggio delle auto, per poi scorrere sulla linea laterale e, persino, sulla terra. Che rumore fa Mathieu van der Poel ancora nel gruppo, mentre alza la testa e si riporta sotto? Pensiamo al cambio che ingrana, a qualcosa che riporti a una variazione della situazione.
Un fruscio e qualcosa di più pesante. Suoni ricercati dall'orecchio e anche dalla vista, una sinestesia, una contaminazione dei sensi, perché quanto abbiamo sperato che quei due se ne andassero da soli? Quanto abbiamo controllato la posizione di Pogačar quando, poco dopo, a scattare sul Paterberg era van der Poel? Quanto abbiamo stretto i denti, quasi fossimo alla ruota dello sloveno, mentre van der Poel riusciva a stargli incollato per un sospiro al termine dell'ultimo Paterberg?
E non lontano da qui ci sono i Beffroi, le torri campanarie delle Fiandre, i loro carillon a scandire i momenti importanti per la città, i loro suonatori. Qui, invece, restano tutti i sognatori. Chi ha trasformato in un "cafè" un tronco di mulino e chi sognava di essere da solo sul Paterberg e non c'è riuscito. Poi quel numero sulla schiena di Laporte, il tredici, che dicono porti sfortuna. Alcuni lo mettono al rovescio, lui l'ha messo dritto e, nonostante la caduta in un fosso, era lì.

Ma Pogačar e van der Poel sfiniscono sia fisicamente che mentalmente, perché basta una leggera accelerata e gli altri sembrano fermi. Non possono fare altro, solo andare avanti, pietra dopo pietra. Meglio non guardare. Le ruote delle bici di Pogačar e van der Poel se ne infischiano delle pietre, scorrono veloci tra la gente che grida e non smette un secondo. Anche se tutto è passato. Il talento gasa, agita, come le nuvole nere sullo sfondo, nel finale, sbattute dal vento leggermente trasversale. E va via mentre inizia a piovere.
Il suono delle friggitorie, come l'olio bollente in cui tutto cuoce, sembra quasi portato via dall'aria che spostano i ciclisti. Un silenziatore, quel vento. Quasi fosse una foto, una delle tante nell'album di qualcuno. A fissare l'esatto momento in cui van der Poel, sul traguardo, capisce che è il momento di partire altrimenti è la beffa, un'altra beffa. A fissare quello in cui Pogacar resta intrappolato, dietro a van Baarle e Madouas, e finisce quarto, alzando le mani che ora pesano più di tutto e tornano a scendere come cade un peso.
Quel talento che può essere leggero o pesante. Leggero per van der Poel come per Kopecky, che hanno vinto, pesante per Pogačar come per van Vleuten che viene superata sulla linea d'arrivo, e non le capita spesso, intrappolata fra le tattiche di due compagne di squadra. La sicurezza in se stessi, certe volte, non serve a nulla. Certe volte, semplicemente non puoi. Forse avresti potuto muovendoti prima, partendo prima (ci ripenserà spesso Pogačar), forse nemmeno così. A noi viene in mente Marlen Reusser che, sotto la pioggia ghiacciata, stava quasi per andarsene, invece no. Anche la compagnia di Chapman non l'ha aiutata.
Che rumore fa tutto questo? Ora, all'Inferno, quello del Nord, sanno già la risposta, mentre i raggi di sole che spuntano dalle nuvole allungano le ombre degli atleti davanti a loro.


Terra e speranze

La brezza delle speranze ha iniziato a soffiare stamattina presto su Siena. Quando, per esempio, il portiere del nostro hotel ci ha chiesto se van Aert fosse a Siena per poi confessarci che, qualche anno fa, aveva avuto ospiti i suoi genitori ma non li aveva riconosciuti. La speranza che van Aert torni qui e che i suoi genitori si ricordino ancora di questo piccolo albergo, perché lui ricorda ancora tutte quelle domande che avrebbe voluto fare. C'è chi ha sperato nella pioggia fino a stamattina e ce lo dice con semplicità disarmante: «Con gli anni del tempo te ne freghi, quando arriva una gara di biciclette, però, torni a svegliarti e a guardare il cielo come facevi da bambino per la neve». Ma ci sono anche speranze più grandi, speranze talmente grandi che non stanno in un pezzo di ciclismo. Quella signora con due sacchetti pieni di cibo da mandare in Ucraina che grida a qualcuno: «Lascio questi da donare e vengo alle transenne, tienimi il posto!».
Per un ciclista o una ciclista la speranza è qualcosa di multiforme. La sera prima, ci dicono i più, si pensa agli sterrati: li hai già visti, certo e se non li hai potuti vedere hai telefonato a chi ha avuto questa possibilità per farteli spiegare ma la notte può cambiare le cose, basta così poco perché le cose non siano più come le immaginavi. La terra è refrattaria alle speranze, non ha appigli, non ha certezze. Basta il vento. Speranza significa appoggiare una mano sulle spalle, come Alaphilippe con Honorè. Proprio dopo quella caduta che ha capovolto la bicicletta e il corpo del Campione del Mondo, in quell'unico momento in cui non hai tempo di sperare. Alaphilippe che ha continuato a sperare che può significare anche aspettare, a patto di fare qualcosa. Inseguire nel suo caso, anche dando di spalle, inseguire Tadej Pogačar che «solo a vederlo andare via a cinquanta dall'arrivo, ti lascia senza speranze», ci dice un tifoso di Gianni Moscon a cui la speranza l'ha tolta la stessa bicicletta che è, in realtà, la prima possibilità di sperare per un ciclista.
Tutta la speranza delle compagne di Lotte Kopecky la vedi all'arrivo, quando, non vedendola quasi più, nell'insieme dei fotografi, allora le fanno arrivare la loro voce. La indicano a ogni nuova compagna che arriva: «Vai da lei», è questo il senso. Kopecky ha iniziato a sperare quando ha visto che van Vleuten, tanto forte, non la staccava, quando ha visto che, se anche perdeva qualche metro, rientrava. Lei da cui oggi sono corsi tutti, lei che, due anni fa, al Giro Rosa, ha vinto mentre tutti aspettavano van Vleuten, caduta malamente. Quasi la sua vittoria fosse solo un dato in più. Non siamo riusciti a contare i secondi in cui, mentre il suo staff la aiutava a coprirsi, guardava il centro della piazza, voltandosi appena sentiva il suo nome.
La speranza di Tadej Pogačar è uguale e diversa da quella di qualunque fuggitivo. Somiglia a quella del ragazzo in ginocchio su un pilone di Piazza del Campo solo per una foto dell'arrivo. «Me l'hanno chiesta e da qui si vede meglio» dice a chi gli chiede perché non si metta più comodo. Sembra facile essere Pogačar oggi, come sembrerà facile aver fatto quella foto a chi la riceverà. Devi aver sperato quasi come chi attacca a Monte Sante Marie per saperlo.
Pogačar che vince e si butta per terra con così tanta forza che a vederlo viene da chiedersi fino a che punto l'acido lattico faccia male e fino a che punto anestetizzi i muscoli. Pogačar che ha dominato quella terra, non l'ha subita, davanti a Valverde che, a quasi quarantadue anni, dopo una gara così, chiede il permesso di passare per andare alle premiazioni. Quanto ancora può sperare "Bala"?
Vedere Pogačar vincere così, per il ciclismo, vuol dire sperare, in fondo. Non solo in quello che ancora può vincere, ma in qualcosa che ti fermi lì, anche se c'è un vento freddo come in Piazza del Campo ed è quasi sera, e non ti faccia pensare ad altro. Almeno per qualche momento. Che ti tolga la nostalgia del ciclismo che è stato, perché puoi godere a pieno di quello che c'è. Perché è vero: la speranza da sola non cambia le cose, per un ciclista come per chiunque altro, ma, senza quella, nessuna bicicletta si muoverebbe mai, che le strade siano di terra o di asfalto. Le persone che arriveranno a casa a notte, oggi, sono certe di aver fatto bene a esserci. Noi anche.