La brezza delle speranze ha iniziato a soffiare stamattina presto su Siena. Quando, per esempio, il portiere del nostro hotel ci ha chiesto se van Aert fosse a Siena per poi confessarci che, qualche anno fa, aveva avuto ospiti i suoi genitori ma non li aveva riconosciuti. La speranza che van Aert torni qui e che i suoi genitori si ricordino ancora di questo piccolo albergo, perché lui ricorda ancora tutte quelle domande che avrebbe voluto fare. C’è chi ha sperato nella pioggia fino a stamattina e ce lo dice con semplicità disarmante: «Con gli anni del tempo te ne freghi, quando arriva una gara di biciclette, però, torni a svegliarti e a guardare il cielo come facevi da bambino per la neve». Ma ci sono anche speranze più grandi, speranze talmente grandi che non stanno in un pezzo di ciclismo. Quella signora con due sacchetti pieni di cibo da mandare in Ucraina che grida a qualcuno: «Lascio questi da donare e vengo alle transenne, tienimi il posto!».
Per un ciclista o una ciclista la speranza è qualcosa di multiforme. La sera prima, ci dicono i più, si pensa agli sterrati: li hai già visti, certo e se non li hai potuti vedere hai telefonato a chi ha avuto questa possibilità per farteli spiegare ma la notte può cambiare le cose, basta così poco perché le cose non siano più come le immaginavi. La terra è refrattaria alle speranze, non ha appigli, non ha certezze. Basta il vento. Speranza significa appoggiare una mano sulle spalle, come Alaphilippe con Honorè. Proprio dopo quella caduta che ha capovolto la bicicletta e il corpo del Campione del Mondo, in quell’unico momento in cui non hai tempo di sperare. Alaphilippe che ha continuato a sperare che può significare anche aspettare, a patto di fare qualcosa. Inseguire nel suo caso, anche dando di spalle, inseguire Tadej Pogačar che «solo a vederlo andare via a cinquanta dall’arrivo, ti lascia senza speranze», ci dice un tifoso di Gianni Moscon a cui la speranza l’ha tolta la stessa bicicletta che è, in realtà, la prima possibilità di sperare per un ciclista.
Tutta la speranza delle compagne di Lotte Kopecky la vedi all’arrivo, quando, non vedendola quasi più, nell’insieme dei fotografi, allora le fanno arrivare la loro voce. La indicano a ogni nuova compagna che arriva: «Vai da lei», è questo il senso. Kopecky ha iniziato a sperare quando ha visto che van Vleuten, tanto forte, non la staccava, quando ha visto che, se anche perdeva qualche metro, rientrava. Lei da cui oggi sono corsi tutti, lei che, due anni fa, al Giro Rosa, ha vinto mentre tutti aspettavano van Vleuten, caduta malamente. Quasi la sua vittoria fosse solo un dato in più. Non siamo riusciti a contare i secondi in cui, mentre il suo staff la aiutava a coprirsi, guardava il centro della piazza, voltandosi appena sentiva il suo nome.
La speranza di Tadej Pogačar è uguale e diversa da quella di qualunque fuggitivo. Somiglia a quella del ragazzo in ginocchio su un pilone di Piazza del Campo solo per una foto dell’arrivo. «Me l’hanno chiesta e da qui si vede meglio» dice a chi gli chiede perché non si metta più comodo. Sembra facile essere Pogačar oggi, come sembrerà facile aver fatto quella foto a chi la riceverà. Devi aver sperato quasi come chi attacca a Monte Sante Marie per saperlo.
Pogačar che vince e si butta per terra con così tanta forza che a vederlo viene da chiedersi fino a che punto l’acido lattico faccia male e fino a che punto anestetizzi i muscoli. Pogačar che ha dominato quella terra, non l’ha subita, davanti a Valverde che, a quasi quarantadue anni, dopo una gara così, chiede il permesso di passare per andare alle premiazioni. Quanto ancora può sperare “Bala”?
Vedere Pogačar vincere così, per il ciclismo, vuol dire sperare, in fondo. Non solo in quello che ancora può vincere, ma in qualcosa che ti fermi lì, anche se c’è un vento freddo come in Piazza del Campo ed è quasi sera, e non ti faccia pensare ad altro. Almeno per qualche momento. Che ti tolga la nostalgia del ciclismo che è stato, perché puoi godere a pieno di quello che c’è. Perché è vero: la speranza da sola non cambia le cose, per un ciclista come per chiunque altro, ma, senza quella, nessuna bicicletta si muoverebbe mai, che le strade siano di terra o di asfalto. Le persone che arriveranno a casa a notte, oggi, sono certe di aver fatto bene a esserci. Noi anche.