Tra le crepe dei sogni belgi

Chissà se i giganteschi troll di legno del parco di De Schorre, in Belgio, conoscevano già l'esito della gara. Ce ne sono sette, ma due in particolare sono interessanti, "Una e Jeuris" i loro nomi. Si dice siano raffigurati mentre sognano indicando le nuvole.

Tra quelle nuvole oggi si è infilato Julian Alaphilippe. Tra le crepe dei sogni belgi si infilano i suoi tre scatti: il primo, tribale come un rullo di tamburi, a 58 km dall'arrivo porta via la fuga decisiva di una corsa pazza, meravigliosa, velocissima, da bere tutta d'un fiato come una birra fresca quanto basta; il secondo una stilettata micidiale che screma ulteriormente; il terzo, decisivo, fatto di gambe e smorfie, di tic e scossoni. Spegne i bollori di van Aert, Colbrelli e tutti gli altri a seguire, e lo lancia verso il secondo titolo mondiale.

Il sole oggi a Leuven non è mai uscito in maniera del tutto convincente. Il cielo, coperto da un sottile strato di nuvole, è una patina biancastra. Mentre Alaphilippe taglia il traguardo si alza un urlo, bandiere fiamminghe smettono di sventolare, qualche boccaccia, cacofonici buuuu dei tifosi di casa.

L'urlo è un "fate spazio" in mondovisione, è il soigneur francese mentre regge il vincitore. La bocca di Alaphilippe, asciutta, pulsa in cerca di una bevanda zuccherata. Lo sguardo ha inflessioni incredule, mentre arrivano Štybar, Sénéchal, Madouas, poi pure van der Poel, ad abbracciarlo. Di nuovo Campione del Mondo - meritato.
L'autunno oggi è belga per una squadra di casa che accende una corsa sulla quale spendiamo elogi. Ogni gruppo che parte è pericoloso, ogni volta che va via qualcuno dentro c'è Evenepoel, come fosse nascosto nei cespugli.

Evenepoel, oggi il più fedele alla causa di tutto il Belgio. Una sorta di piccolo eroe. E se qualcuno avesse ancora dubbi su di lui, eccoci serviti, attacca a 180 dall'arrivo, tira il gruppo per van Aert, chiude, strappa e poi si fa da parte stremato in preda ai dolori.

È un sogno in bianco e nero la corsa: sembra di aver fatto un salto di quarant'anni indietro, quando i migliori si sfidavano da subito, da lontano, facendo brillare gli occhi e sgolare tifosi da tutto il mondo a bordo strada o a casa. Una volta attaccati alle radioline in attesa di notizie. Oggi incollati a televisori, tablet, telefonini.

Ci aiutereste, allora, a trovare una parola per definirla? Ci consigliereste un termine per una giornata che a quattro ore dalla fine vedeva già alcuni tra i favoriti andare in fuga? Ci vengono i termini spettacolare, meraviglioso. Esageriamo? Ma lo abbiamo detto ieri: è un Campionato del Mondo, ci aspettavamo tanto, sì, ma forse questo no. Come un sogno.
Il sogno dell'Italia pare infrangersi subito, quando Ballerini tampona Trentin e vanno a terra, e poi la Francia parte con Turgis e lo segue Evenepoel e l'Italia insegue, insegue, insegue e riesce a chiudere.

Poi il sogno matura perché Colbrelli e Nizzolo stanno bene, con un Bagioli da 9 in pagella che ci darà tante di quelle soddisfazioni in futuro: solo 9 perché 9,5 lo prende Evenepoel e 10 il vincitore. Stanno bene, dicevamo, Nizzolo e Colbrelli e sono lì davanti in quel gruppo a giocarsi le medaglie.

Poi arriva Alaphilippe che decide di infilarsi in mezzo ai sogni altrui. Parte e nessuno lo rivede. Vince ed è un bellissimo vincitore, mentre van Baarle e Valgren uccidono crudelmente i sogni belgi, cacciando dal podio al fotofinish il ragazzo di casa, di Leuven, Jasper Stuyven.

Forse Una e Jeuris conoscevano già lo svolgimento di questa gara indicando con meraviglia qualcosa tra le nuvole. Fortunati loro che sognano e hanno visioni. Fortunati noi per aver vissuto questa giornata.

PS. Qualche parola su quanto è forte Pidcock andrebbe spesa, ma tant'è. La scena oggi è di Alaphilippe.

Foto: Bettini


Domani c'è il Mondiale

Quella corsa che tutti sognano: chi corre e chi aspetta, chi scrive e chi tifa. Quella gara che ti dà una maglia che, se ce ne fosse bisogno, rende ancora più unico il ciclismo. Potevamo fare una lista di trenta, quaranta nomi, fra quelli che vinceranno e indosseranno la maglia arc-en-ciel per tutto il 2022. Talmente tanti i possibili finali del multiverso di Leuven: un percorso che pare meno duro di quello che si prospettava alla vigilia e che si apre a diversi scenari. Ne abbiamo scelti dieci: diteci anche la vostra.

𝐖𝐨𝐮𝐭 𝐯𝐚𝐧 𝐀𝐞𝐫𝐭 è il più completo e continuo del 2021 e potrebbe vincere in qualsiasi modo. Gli argenti conquistati in diverse occasioni fra poche ore vorranno fondersi e come per una strana alchimia diventare oro. Corre in casa, tutti sono per lui, il gruppo è contro di lui (come si è sempre contro il più forte), ma se dovesse vincere, paradossalmente, non farebbe scontento nessuno. Almeno così ci piace credere.

𝐌𝐚𝐭𝐡𝐢𝐞𝐮 𝐯𝐚𝐧 𝐝𝐞𝐫 𝐏𝐨𝐞𝐥 arriva a fari spenti che sembra un po' un paradosso quando si parla di lui ma è così. Naïf nel modo di correre a volte, e anche di organizzare la sua stagione che difatti gli lascia strascichi fisici. C'è quella rampa a sei dall'arrivo che pare fatta apposta per il miglior van der Poel. Ma sarà il miglior van der Poel?

𝐉𝐮𝐥𝐢𝐚𝐧 𝐀𝐥𝐚𝐩𝐡𝐢𝐥𝐢𝐩𝐩𝐞 più di testa che di gambe perché il campione uscente in rare occasioni quest'anno ha dimostrato quell'attitudine vista la stagione precedente. Il discorso è che lui è Alaphilippe, non uno qualsiasi, e, se pure non al meglio: scommettereste mai contro uno così? In Francia hanno in cantiere una serie di piani alternativi da fare impallidire uno sceneggiatore folle e che vanno da Laporte a Cosnefroy, passando per Sénéchal e Démare e finendo a Turgis. Squadrone.

𝐌𝐚𝐭𝐭𝐞𝐨 𝐓𝐫𝐞𝐧𝐭𝐢𝐧 per l'Italia. Perché potevamo dire Colbrelli e la forma della vita, o Nizzolo e Ballerini e il loro spunto finale, ma se c'è un azzurro che si meriterebbe di vincere è lui. Uscito bene dalla Vuelta è in crescita, ha l'esperienza giusta, e sogna uno svolgimento simile ad Harrogate 2019 ma con finale completamente diverso.

𝐄𝐭𝐡𝐚𝐧 𝐇𝐚𝐲𝐭𝐞𝐫 è il più giovane fra quelli su cui scommetteremmo. Se non si conoscesse la sua stagione sembrerebbe folle inserirlo qui, ma va forte e soprattutto, un po' con caratteristiche simili a quelle di van Aert, potrebbe vincere (quasi) in ogni modo. Da valutare sulla lunga distanza , ma per la Gran Bretagna più lui che Pidcock.

𝐌𝐢𝐜𝐡𝐚𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐡𝐞𝐰𝐬 perché ovunque ti giri lui c'è sempre. Magari non vince ma è lì. Si attacca e non ti molla e poi, visto lo spunto veloce, può infilarti. Il percorso è tagliato per lui che corre sempre davanti e coperto a ruota altrui e ha la forza giusta per resistere alle accelerate. In casa australiana però non fanno mistero di guardare con buon occhio il finale di Ewan. Nel caso arrivassero davanti entrambi: chi si sacrifica per chi?

𝐌𝐚𝐭𝐞𝐣 𝐌𝐨𝐡𝐨𝐫𝐢č è la punta di una Slovenia che presenta i dominatori di Tour (Pogačar) e Vuelta (Roglič) i quali forse si sarebbero aspettati (come anche noi umili osservatori) un tracciato più duro, ma con quel talento mai darli per vinti. Mohorič ha tutto per vincere: scatto, spunto, fondo, scaltrezza, forma e capacità di guida della bici. Ha già vinto due mondiali in passato che male non fa. Si saprà ripetere?

𝐑𝐞𝐦𝐜𝐨 𝐄𝐯𝐞𝐧𝐞𝐩𝐨𝐞𝐥 perché se vogliamo una gara spettacolare con attacchi che partono magari dalla media distanza, scorribande già nel circuito fiammingo con uomini forti, guardiamo lui. Che si dice pronto a spendersi alla causa van Aert ma è così ambizioso che un modo per cercare di far saltare il banco lo troverà. O almeno ci proverà.

𝐌𝐚𝐠𝐧𝐮𝐬 𝐂𝐨𝐫𝐭 𝐍𝐢𝐞𝐥𝐬𝐞𝐧 esce dalla Vuelta come uno spauracchio. È una delle punte di una formazione danese che da più parti hanno definito gli Avengers. Completo, alla stagione migliore della carriera, come tutto il movimento danese è all'apice. Può adattarsi alle più svariate situazioni: volata ristretta, corsa dura, persino fuga. Due anni fa Pedersen, domani l'iride potrebbe prendere di nuovo la strada della piccola nazione nord-europea.

𝐌𝐚𝐫𝐜 𝐇𝐢𝐫𝐬𝐜𝐡𝐢: ci piacciono quei nomi che potrebbero fare corsa dura e Hirschi è uno che calza a pennello in caso di selezione. Non è l'Hirschi del 2020, ma è in crescita e, seppure giovanissimo, lo stiamo imparando a conoscere come profilo che si ingrossa non appena si alza la posta in palio. La Svizzera sin qui al Mondiale è arrivata più volte vicina al colpo grosso: magari con Hirschi, che ha fondo e resistenza e alla fine di 270km si difende bene anche in uno sprint ristretto, è quella buona.

E poi ancora Sagan e Stuyven, Lampaert e Teuns, Kristoff e Asgreen, Pedersen e Valgren, magari Aranburu (la Spagna ogni tanto qualche scherzetto lo combina), Degenkolb o Politt. Bissegger e Almeida, Simmons, Kwiatkowski o Štybar. Qualcuno magari ce lo siamo lasciati per strada, ma insomma l'elenco ci pare sufficiente.
E i vostri favoriti chi sono?

Foto: Luigi Sestili


Grazie, Elisa!

Un capolavoro. È un capolavoro quello realizzato dalle azzurre a Leuven, al Campionato del Mondo delle Fiandre. Certe volte nello sport si esagera, oggi no, oggi si può dirlo forte e chiaro. L'Italia non ha sbagliato un colpo e la spietata meritocrazia dello sport, in questo sabato di inizio autunno, ha omaggiato il talento genuino di Elisa Balsamo, una ragazza di soli ventitrè anni, di Cuneo. Una ragazza che crede nel potere delle storie, che ha scelto una penna per sconfiggere la timidezza e una bicicletta per raccontare che è possibile. Anche per i più timidi, anche per chi, caratterialmente, stenta a crederci e si sente sempre un gradino inferiore, è possibile.

Una corsa allo sfinimento. Il concetto di marcatura a uomo non è un concetto ciclistico, ma questa è stata la tattica delle ragazze di Dino Salvoldi. A controllare le olandesi e ripartire, perché oggi le favorite erano loro. Era Marianne Vos, un cannibale delle due ruote, che sembrava quasi non fare fatica. E non è facile continuare a rispondere quando le tue avversarie non mostrano un minimo segno di cedimento. Non ce n'è.

Non ce n'è perché, ad ogni attacco, le ragazze azzurre erano lì. Quanto ha fatto Maria Giulia Confalonieri? Fino all'ultimo sulle ruote di Vollering, Blaak, Brand. A voltarsi e a controllare che dietro stessero rientrando, perché non c'è spazio per follie personali, si lavora per Elisa Balsamo. Quanto hanno fatto Elena Cecchini, Vittoria Guazzini e Marta Cavalli? In testa, a chiudere il gruppo, prima all'inizio e poi alla fine.

Marta Bastianelli sa cosa vuol dire vincere un mondiale in giovane età e stasera dirà tante cose a Elisa Balsamo. Tante gliene ha dette in questi giorni. Lei che è in questo gruppo con l'orgoglio di essere la maggiore di età e per questo la più ricca di consigli. Lei che dopo le sfuriate olandesi ha fatto un solo cenno alle compagne: «Avanti, andiamo avanti a tirare».
Quanto bene ha fatto a questo gruppo Elisa Longo Borghini? La sua tenacia, la sua forza, la sua umiltà. Il suo essere ovunque, quasi incollata alla ruota di Annemiek van Vleuten, come a dirle «oggi non scappi, oggi non molliamo un metro». Si meritava questo mondiale Elisa, meritava che a vincerlo fosse l'Italia per il suo rispetto dei ruoli, per quel «faccio quello che mi chiedono e fino all'ultimo non mi tiro indietro».

E poi Elisa Balsamo, la Campionessa del Mondo. Fa quasi effetto scriverlo, dirlo, pensarlo, immaginarlo. Ragazza semplice, che studia Lettere e legge fumetti. Ragazza determinata, fragile come il suo pianto al traguardo, e forte come la capacità di rialzarsi dopo quella brutta caduta alle Olimpiadi, staccare qualche giorno, ripartire ed essere qui, sul gradino più alto del podio. Lucida come chi, a pochi metri dall'arrivo, fa cenno di no a Elisa Longo Borghini: «Non è ancora il momento di spostarsi. Aspetta». Così anche Marianne Vos ha dovuto arrendersi.
Non aveva più parole Elisa, dopo il traguardo. Piangeva con singhiozzi profondi, quelli che si ritrovano nei pianti più veri, quelli dei bambini. Piangeva, sospirava e non parlava. Però, le sue compagne, le ha ringraziate tutte. Si voltava, cercandole con gli occhi pieni di lacrime, e le ringraziava. Noi ne siamo certi, in giornate come queste non serve poi molto per raccontare una storia. Basta poco. Anche solo un grazie


Filippo, Campione del Mondo

Non crediamo che nel nome di una persona ci sia il destino, o almeno non fino al punto da determinarne vittorie o sconfitte in bicicletta, ma se ti chiami Filippo, in questi giorni, pare che nelle Fiandre tu possa andare discretamente bene. Se Filippo, inteso come Ganna, lo conosciamo bene, oggi è il caso di scoprire un po' chi è Baroncini, che per come è scattato a meno cinque dall'arrivo sarebbe subito da rubare l'idea già usata (e abusata) e scrivere il suo nome tutto in maiuscolo e tutto attaccato: FILIPPOBARONCINI.
Quando lo abbiamo incontrato qualche settimana fa a Trento ce lo ha detto: si sente bene, forte e motivato, ma soprattutto ambizioso. Che quando passerà professionista (Trek-Segafredo) vorrà da subito giocarsi le sue carte.

Ma oggi il suo cammino tra gli Under 23 era da portare a compimento. Esploso sul finire della scorsa stagione, l'ascesa di Baroncini è stata fulminea e ha visto l'apice della sua sin qui brevissima carriera su quella rampetta, quando al traguardo mancavano meno di una decina di minuti.

E lui scattava, «Dentro di me dicevo: vai, vai, vai» - ha raccontato a fine corsa. Con i suoi watt avrebbero acceso probabilmente tutte le luci del viale che lo conduceva verso l'arrivo, mentre dietro Zana, Colnaghi, Coati e Gazzoli (e Frigo nelle prime fasi a lavorare per tutti) lo coprivano, perfettamente, manco fosse una di quelle giornate fredde da passare sul divano a guardare la tv. A guardare ciclismo: gioco che regala oggi la maglia iridata a un solo corridore, ma quanto c'è di squadra dietro ogni successo.

Oggi Filippo Baroncini (che è pure caduto a metà corsa) ci ha fatto saltare da quel divano, ci ha fatto vedere cos'è il talento, la crescita graduale, la potenza del finisseur, ci ha fatto vedere cosa vuol dire finalizzare il lavoro di squadra - Colnaghi all'attacco e gli altri a lavorare per ricucire, Zana stopper come uno di quei cagnacci che ti morde le caviglie - lui che è capace di andare forte dappertutto, ma che non sembra di quelli buoni ovunque e basta, ma di quelli davvero competitivi su ogni terreno: salita, cronometro, finali vallonati e incasinati come quello di oggi.
E a guardarlo negli occhi a fine gara o a rivedere l'azione che lo ha portato a vincere, sembra impossibile che per lui finisca qui. La rampa sopra Leuven lo ha lanciato, ma non sappiamo bene ancora dove potrà arrivare.

Foto: Bettini


Quei cinque centesimi

D'altra parte cosa sono cinque centesimi? In realtà non sapremmo quantificarli in una gara di biciclette, perché arrivare davanti per cinque centesimi dopo cinquantuno (51!) minuti ha tanto il sapore della beffa o di quelle corse tipo lo sci alpino.
Ma il cronometro benedetto e maledetto ha sentenziato: gioia per i ragazzi azzurri, beffa per gli svizzeri che sarebbe stato meglio togliere quei distacchi dopo la virgola e assegnare la medaglia a tutti e dodici (12!).
È che ci stiamo abituando così bene a questa Italia, popolo di passistoni e abili cronomen, ma così bene che se ce l'aveste detto qualche anno fa ci saremmo messi a ridere o vi avremmo accusato di circonvenzione di incapace.
Ci stiamo abituando così bene a Filippo Ganna trascinatore, a Elisa Longo Borghini, Elena Cecchini e Marta Cavalli finalizzatrici, a Edoardo Affini e Matteo Sobrero carburanti per il motore, azzurri che oggi, tra Knokke-Heist e Bruges, si sono regalati un'altra medaglia.
Forse qualcuno ancora storce il naso per questa gara, ma noi ci siamo divertiti. Distacchi a fisarmonica tra la frazione maschile e quella femminile; una crono che racconta mille storie e la più intensa è quella di Tony Martin, all'ultimo ballo come va tanto di moda dire, all'ultima gara, all'ultima maglia, all'ultima medaglia.
Pochi giorni fa "Der Panzerwagen" ha annunciato il ritiro dalle competizioni e oggi ha guidato la Germania in una crono a mille, di alto livello; altro che "eh ma la staffetta mista". Ben venga la staffetta mista. È affiatamento, tecnica e potenza, mostra i progressi di una squadra, tasta il polso alla punta dell'iceberg di un movimento, sia maschile che femminile. E poi li unisce: nel risultato, nel tifo dopo il traguardo con Ganna e gli altri a spingere idealmente la volatina azzurra.
E Ganna, sempre lui, chi sennò, tecnica e potenza in un solo corpo, ha trascinato la nazionale con quella sua proverbiale tranquillità che lo contraddistingue sia nella vittoria che nella sconfitta. Pista e strada non fa differenza: basta seguirlo. E poi Affini e Sobrero vagoncini affidabili, Longo Borghini, Cecchini e Cavalli che l'hanno spinta in rete.
Cinque centesimi sono bastati, anche se qualcuno al traguardo non lo aveva capito. Cinque centesimi per un podio. Un niente, difficile da quantificare. Cinque centesimi, sì, e oggi ce li prendiamo tutti.


Spingere Wout van Aert

Secondo, secondo, secondo, secondo, secondo. No, non ci si è incriccato il cervello e nemmeno incantata la tastiera. Se ci pensate bene il ritornello assomiglia al ruolino di marcia di Wout van Aert tra prove olimpiche e mondiali, appuntamenti iridati nel ciclocross e su strada: parliamo più o meno degli ultimi 12 mesi.
Due volte secondo nel 2020 ai Mondiali di Imola: prima nella crono dietro Ganna, poi pochi giorni dopo nella prova in linea, dietro Alaphilippe.
Secondo poi al mondiale di Ciclocross a Ostenda dietro van der Poel; secondo qualche mese fa a Tokyo dietro Carapaz, secondo domenica dietro Ganna. E più che un ritornello sembra diventata una sorta di maledizione per lui che in carriera, almeno quando si infangava con regolarità, le sue maglie iridate le ha vinte.
Ma quella di questa domenica è la medaglia d'argento che fa più male, perché spinto dal suo pubblico che a un certo punto goliardicamente faceva persino segno a Ganna di rallentare all'imbocco di una strettoia.
Spinto dall'idea di consacrarsi numero uno del ciclismo mondiale dopo aver vinto quest'anno 13 corse tra cui Gand-Wevelgem, Amstel, campionato nazionale in linea, 3 tappe al Tour e 2 alla Tirreno Adriatico.
Spinto da un motore che è un tutt'uno con la testa: chi la conosce la descrive come senza eguali. Un motore che gli permette di andare forte in salita, in pianura, in volata. Una testa che lo ha fatto ripartire dopo un incidente drammatico al Tour di un paio di anni fa. Che lo fa spingere oltre ogni limite, perché a trovarne di corridori che ieri lottano con Ganna, domani con Pogačar e Alaphilippe, dopodomani con van der Poel.
Alla fine della prova di domenica ha abbracciato Ganna, nonostante tutto, a dimostrazione dello spirito e del rispetto che trasmette il ragazzo di Herentals.
Si è dichiarato deluso, non poteva essere altrimenti, e ha aggiunto che da un punto di vista razionale perdere una crono per 5 secondi da un "super specialista", così lo ha definito, come Ganna, normalmente sarebbe una gran cosa, ma resta un argento che brucia, perché arrivato in casa e dopo essere stato in testa per due terzi di gara.
Dice, poi, van Aert che analizzerà la gara con calma da lunedì, ma che in realtà un'idea su dove ha perso la corsa ce l'ha: in un punto ha rischiato di cadere, e poi nel finale, tra Damme e Bruges, Ganna ha spinto nettamente più forte.
Domenica, tra i tanti corridori al via, abbiamo già trovato per chi simpatizzare: nessuno ce ne vorrà. Abbiamo trovato chi spingere con forza verso il traguardo per vederlo a braccia alzate - se proprio non dovesse essere qualcuno in maglia azzurra.
Siamo schietti, un Wout van Aert iridato non ci dispiacerebbe. O almeno che non arrivi di nuovo secondo, ecco.