A Liegi vince la fantasia

A Place Saint-Lambert, alla partenza della Liegi-Bastogne-Liegi, qualcuno ricorda Antoine d'Ursel, l'uomo che "tentò di truffare la Liegi", nel 1892, non proseguendo per Bastogne, ma restando lì, nascosto, nell'attesa del suo rivale Leòn Houa. D'Ursel perse, venne scoperto e fuggì in America, in preda all'imbarazzo. A Liegi resta anche qualcosa di Georges Simenon e del commissario Maigret, qualcosa di quello studio in cui lo scrittore si chiudeva, con del cognàc e delle pipe. Potresti immaginarlo ovunque, guardando verso l'alto di un edificio, dietro una finestra. Non c'è posto per strane idee.

Da Liegi a Bastogne e ritorno, ma da un'altra strada. Quella infarcita di côte, denti a mordere i muscoli. C'è la fuga, c'è anche un italiano davanti, Lorenzo Rota, ma le strade imbastite di case con tetti di ardesia, a cupola, a torretta, a ricordare i Castelli della Loira, non hanno pietà. Lui, Huys e Marczyński saranno gli ultimi fra i sette fuggitivi a cedere alla caccia del gruppo. Vliegen si bloccherà d'improvviso qualche metro prima, massacrato dai crampi, come un rantolo sordo. L'inizio dei saliscendi è una campana a morto per chi è in coda al drappello di testa come al plotone: atleti che si staccano, indolenziti dall'acido lattico, come tendini che si strappano, mentre davanti si buttano le prime carte.

Luis Leòn Sànchez e Omar Fraile scattano sulla Côte de Wanne, placcati dal gruppo. Anche Philippe Gilbert si farà vedere in testa sullo Stockeu, colle che ricorda una stoccata, qualcosa di rapido ma doloroso. Lui che, nei giorni scorsi, è andato dal suo macellaio, a Remouchamps, accanto a La Redoute a comprare una bistecca. Emozionato perché non gli capitava da tanto di essere a casa nei giorni prima della Doyenne. Sono graffi, niente più. Rosier e Desnié sono solo fatica, pura fatica, nelle gambe, in attesa di una corsa che scalpita, un purosangue nervoso che cerca di scrollarsi di dosso un fantino inesperto.

L'azione della Deceuninck-Quick Step e successivamente quella della Ineos frantumano il plotone una prima volta su La Redoute, una seconda volta sulla Côte de Forges, la più innocua all'apparenza, ma, dopo duecentoquaranta chilometri, le apparenze somigliano a miraggi: ingannano sempre.

Il nome Redoute deriva dal linguaggio bellico, significa fortino di guerra, luogo in cui mimetizzarsi e nascondersi. Qui è ancora possibile fingere. Poco più in là ogni imbroglio è scoperto e pagato a prezzo d'oro. Richard Carapaz riuscirà ad andare via così, grazie alla tattica di squadra, a tutta, testa bassa e denti talmente digrignati che quasi ti chiedi come facciano a non saltare sotto tanta pressione. Chi sbaglia, paga. Vale per l'Astana che dopo tanti attacchi resta a bocca asciutta quando l'attacco è quello giusto. Vale anche per lo stesso Carapaz che forse esagera nello scatto e quando partono Valverde, Alaphilippe, Woods, Pogačar e Gaudu non può che restare a guardarli, da lontano.

Siamo sulla Roche-aux-Faucons, salita che nel nome ricorda i falchi, per assonanza, loro che ghermiscono e portano via. Roglič è dietro, Schachmann anche, Kwiatkowski pure.

Ora la strada verso Liegi scorre veloce, prima perché in discesa, poi perché i cinque in testa spingono i pedali a gran velocità, sembrano non sentire la fatica, mentre provano a seminare il gruppo. Nel frattempo le squadre degli attaccanti rompono i cambi e favoriscono la fuga.

L'ingresso nell'ultimo chilometro è attesa, battito e respiro trattenuto. Gaudu si sposta a bordo strada, Alaphilippe si volta a destra e a sinistra, favorito in volata, Valverde è in testa, quarantuno anni oggi e ad un passo dalla quinta Liegi, come Merckx, alla sua ruota Woods, Pogačar pizzica la radiolina e si mette in ultima posizione. Valverde parte lungo, Alaphilippe sembra rimontarlo, è pronto al colpo di reni finale, Pogačar è un equilibrista che dal lato delle transenne si butta all'interno e lo supera sul traguardo. Al secondo posto il campione del mondo che ancora una volta viene beffato da uno sloveno, terzo Gaudu.

Vincono l'imprevedibilità e la fantasia di un ragazzo di ventidue anni che l'anno scorso ha vinto il Tour de France e che ancora riesce solo a immaginare dove può arrivare. Perché Simenon ed il suo Maigret lo sanno bene: a Liegi non si può barare, ma è concesso, anzi doveroso, inventare.

Foto: Peter De Voecht/BettiniPhoto©2021


Freddo ad aprile

Riprendiamo il filo dall'inizio, da marzo. Strade Bianche: corsa piuttosto divertente. Si era già in mezzo a una primavera che poi in realtà ha faticato ad arrivare. Si era a bocca aperta quel giorno, maschere di sabbia come un carnevale nel deserto, come quelli che se la sono giocata fino alla fine: van der Poel, Alaphilippe, Bernal, van Aert, Pidcock, Pogačar. Il meglio - o quasi - del ciclismo formato (inizio) 2021.

Si è passati dalla Milano-Sanremo e alla sua imprevedibile linearità. Corsa poco tirata, dove a stare in gruppo stai come in taxi, giustificata nella sua epica e pathos dal crescendo rossiniano da tappa pianeggiante di un Grande Giro e dal paradigma de "la tradizione non si tradisce" e con quel passaggio finale adrenalinico Poggio-su-e-Poggio-giù che tende un po' a viziare e ribaltare il giudizio. Chi scrive auspicherebbe se non altro un tentativo di rendere la corsa più varia. Lo fanno diverse grandi corse, motivi economici o meno, perché la Sanremo no?

Poi c'è stato il Nord: quello fatto di pietre del Belgio. Purtroppo niente Francia, anche questa fredda primavera ci ha scippato la Roubaix. Abbiamo sognato alla Gand con tre italiani in lotta, ma abbiamo ugualmente gioito per la vittoria di van Aert.
Abbiamo assistito alle cavalcate di van Baarle (Dwars door Vlaanderen) e di Asgreen (Harelbeke). Ci siamo stupiti nel vedere van der Poel perdere il Fiandre proprio dal danese, e poi nel vedere Pidcock fare un boccone di van Aert al Brabante. Sembra una filastrocca.
E visto che gira e rigira i protagonisti poi sono sempre quelli: all'Amstel avremmo dato comodamente la vittoria a entrambi gli ultimi due citati, mentre alla Freccia Vallone Alaphilippe si riprendeva ciò che è suo in una primavera dove ha vinto sì, ma è apparso agonisticamente tiepido.

E ora? E ora siamo arrivati al termine di questo lungo, freddo, viaggio verso il Nord, verso fine aprile. Dalle pietre alle Ardenne, dal pavè alle côte. Con il cuore diviso a metà: si spezza all'idea che un'altra primavera (ciclistica, quella "reale" non parliamone nemmeno) è passata, si esalta all'idea che fra due settimane ci sarà il Giro.
Intanto Liegi-Bastogne-Liegi: la decana. Ci si immagina una sfida franco-slovena: Alaphilippe, Gaudu, soprattutto, Cosnefroy (non al meglio per la verità), Barguil, G.Martin, da una parte (quanta abbondanza la Francia sulle Ardenne, in pochi anni). E dall'altra Roglič - campione uscente e Pogačar (mettiamoci dentro anche Mohorič) pochi ma buoni capaci entrambi di vincere, di inventare ed esaltare.

Poi sia chiaro: il nuovo percorso, aperto a diverse soluzioni, è decisamente più spettacolare di quello col finale verso Ans che rimescolava le carte e rendeva spesso una lunga attesa verso lo strappo finale, e apre un ventaglio di possibilità di successo ai corridori più in forma più che a qualche outsider: l'eterno Valverde, il duro Schachmann, l'atteso Hirschi, il rampante Vansevenant, il gemello Yates, il mezzofondista Woods, il levriero Mollema, l'ingobbito Carapaz.

Per l'Italia, se proprio dobbiamo tirare dentro qualche nome, l'unico fattibile è Formolo.
Ma oggi ancora è meglio non parlarne, va così: aspettiamo tempi migliori, vacche grasse o talenti (ce ne sono) che diventano campioni. L'ultima “Doyenne” vinta risale ormai al 2007. A oggi ci tocca osservare, da posizione privilegiata, per passione, ma con la bocca sempre di traverso in una smorfia, osservando poi gli ordini d'arrivo con la bandiera tricolore parecchio indietro.

PERCORSO

Poco meno di 260 chilometri da Place Saint-Lambert, passando ovviamente per Bastogne fino a dove la strada è più clemente rispetto al ritorno verso Liegi. Dal 2019 non si arriva più (finalmente) ad Ans, anche se i punti chiave rimangono più o meno i medesimi. Intanto non c'è mai un metro di pianura, anche se i GPM segnati sono alla fine 11, in realtà se ne potrebbero contare in tutto il doppio. Dal km 164 (Cote de Mont-le-Soie) al km 245 con la Roche-aux-Faucons, quasi 80 km in cui non si respira con Wanne, Stockeu, Haute-Levée, Rosier, Desnié, Redoute e Forges. Dalla “Rocca dei Falchi” 13,4 km fino a Liegi.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ Roglič
⭐⭐⭐⭐ Alaphilippe, Pogačar
⭐⭐⭐ Gaudu, Valverde, Schachmann, Vansevenant
⭐⭐ Carapaz, Barguil, Cosnefreoy, Hirschi, Woods, Mollema, Wellens, Teuns, Chaves, Benoot, A.Yates
⭐ G.Martin,  Formolo, Tulett, Vingegaard, Schelling, Konrad, Poels, Q. Hermans, Leknessund, Fabbro, Almeida, Konrad

Foto: A.S.O./Gautier Demouveaux


Philippe Gilbert non è soltanto una scritta sull'asfalto

Destino straordinario quello di Philippe Gilbert. Corridore fuori dall’ordinario. Saltellava sulla Redoute quando era ancora giovane, anche se gli dicevano di non farlo: quella salita lì è troppo dura per un ragazzo, era il monito. Costante. Ma vi è un legame così stretto tra Gilbert e quella salita che sull’asfalto trovavi già scritto: “Philippe Gilbert” e lui doveva ancora diventare professionista. Era la Liegi del 1999, Philippe, nato nel 1982, non era manco maggiorenne, e sulla Redoute si sfidavano Frank Vandenbroucke e Michele Bartoli. Attaccarono entrambi, affiancati, appaiati, mentre per terra sotto le loro sagome si ripeteva quel nome ancora sconosciuto. Spianarono i quasi due chilometri di côte guardandosi, in un testa a testa come sfida di nervi labili, quegli stessi nervi che poi mandarono all’aria la vita del fuoriclasse all’epoca in maglia Cofidis. Vinse Frank quel giorno – staccando Boogerd ben dopo il tentativo sulla côte simbolo della corsa belga – e per dodici lunghi anni fu digiuno per i corridori di casa.

A spezzare quel sortilegio Gilbert, oppure semplicemente “Phil” come da un certo punto in avanti trovavi scritto su quelle strade: non serviva più specificarne il cognome: d’altra parte avrebbe messo vicino, un po’ alla volta, successi in tutte le corse di un giorno più importanti al mondo. Tutte tranne una, come sapete. Phil, Philippe, Gilbert, eccetera: un peso quel nome, un marchio che ha sempre legato valloni e fiamminghi, che ha sempre emozionato italiani e francesi e spagnoli e olandesi. Difficile pensare a un corridore più tifato in gruppo negli ultimi dieci, quindici anni.

Filippo di (e da) Remouchamps, un paesino proprio ai piedi, più o meno, della Redoute. Ruvida erta d’asfalto quella côte, che quando si arrampica interseca senza pietismi un tratto di autostrada: brutta da vedere, sì, una volta pure così efficace nel selezionare il ristretto novero dell’élite ciclistica verso il finale di corsa, ma poi negli anni trasformatasi in fotografia del greggepecorismo che per un lungo periodo ha influenzato il gruppo. Invece che vedere scattare e sgranare, eccoli tutti aperti in fila lungo la sede stradale a immaginarsi una selezione che man mano arriva la salita dopo, poi la salita dopo, poi ancora la salita dopo, fino all’arrivo. Fino a quando poi han cambiato il finale della Liegi – per fortuna.

Adolescente come tanti altri, è stato. Con un padre che voleva diventare corridore e che trasmette la passione ai figli. Corrono tutti, ma arriva solo Philippe. Parte dal Belgio, dopo aver entusiasmato in una corsa Under 23 in Francia, attaccando a un centinaio di chilometri dal traguardo in mezzo al vento, e Marc Madiot (team manager già all’epoca della Française des jeux) lo strappa alla concorrenza delle squadre di casa. «Ho preferito la Francia per sentire meno pressione» racconterà spesso Gilbert.

Ma intanto in quella Remouchamps una piazza porta il suo nome, così come un’ala del Museo della Bicicletta – situata ai piedi delle Grotte di Remouchamps e fortemente voluta da Christian Gilbert, fratello di Philippe e assessore alla cultura della cittadina belga. Un’importante corsa che si disputa da quelle parti è stata ribattezza “La Philippe Gilbert Juniors” (nel suo albo d’oro vittorie di Pidcock nel 2016 ed Evenepoel nel 2017), quando vinceva lui, vinceva tutto il paese. Di fan club in giro per il mondo se ne perde il conto, di tifosi che si asserragliano lungo quelle salite, il giorno de “La Doyenne”, non basterebbero giorni per contarli tutti. “Philomani” li chiamano. A fine “Doyenne”, la decana delle classiche, ovvero la Liegi-Bastogne-Liegi, per esteso, e che negli anni ha perso molto del suo fascino antico, si organizza sempre una grande festa in suo onore. Uno stand, magliette. gadget, balli, musica, salsicce e birra. Eroe per i valloni che dai tempi di Criquielion – e di Magritte -aspettavano un figlio della loro gente per guardare negli occhi i fiamminghi.

Ha vinto una Liegi (una soltanto, è il caso di dirlo) da favorito e dominatore. Era il 2011: decadi che passano. Sconfisse i due fratelli Schleck nella volata verso Ans. Volata via senza storia. Quando ha conquistato il Fiandre (2017), lui che per un lungo periodo si è sentito tagliato fuori dalle corse sulle pietre a causa pare anche di una difficile convivenza in casa BMC, lo ha fatto come un matto. Attacca lontano dal traguardo, poi 55 chilometri in solitaria con 8 muri ancora da affrontare. «Ci vuole coraggio per fare quello che ho fatto. Sì mi sono sentito davvero pazzo», disse appena tagliato il traguardo, la bici tirata su in aria, tutti prostrati davanti alla sua classe.

E poi il 14 aprile del 2019 il colpo alla Roubaix, cercato, ma inaspettato. Il paradosso vuole che ancora per questa primavera, la seconda consecutiva stramaledetta primavera, c’è il rischio che il suo resterà l’ultimo nome scritto nell’albo d’oro della Regina delle Classiche, lui che delle classiche è di sicuro stato un Re. Quattro Amstel, un Fiandre, una Roubaix, una Liegi, una Freccia Vallone, svariate tappe tra Giro, Tour e Vuelta, un Mondiale, una Freccia del Brabante, due Parigi Tours, due Lombardia, una Strade Bianche, un San Sebastian, un Gp de Quebec, due Het Volk, due titoli nazionali – uno in linea e uno a cronometro. Allora gli mancherebbe e probabilmente gli mancherà, solo la Sanremo per eguagliare Van Looy, Merckx e De Vlaeminck, belgi come lui, prima di lui, ma deve fare i conti con il tempo che passa.

Gilbert smuove, ma forse ha smosso definitivamente ormai, non ce ne voglia. A 38 anni, quasi 39, si farà da parte e smetterà a fine 2022. Oltre al logorio del tempo che scalfisce ci sono tanti infortuni pure gravi, pure recenti. È vero: ci piacerebbe giocare proprio con quel tempo e plasmarlo a nostro piacimento. Ci piacerebbe prendere il Gilbert dello scatto devastante di Anagni al Giro 2009, oppure quello dell’attacco su quel sottile capezzolo sopra Valkenburg quando si lanciò verso l’iride, e proiettarlo per una sfida alla pari con van Aert, van der Poel, Alaphilippe, ma non è possibile. Non ci sono armi né sotterfugi, né capacità di sottrarsi al destino e al tempo. Rimane solo la capacità di chiudere gli occhi e immaginarsi ancora quella scritta sull’asfalto della Redoute: “Philippe Gilbert” oppure semplicemente “Phil” e via di nuovo, tornare indietro e ricominciare tutto da capo come un attacco folle a cento chilometri dall’arrivo di una grande corsa. All’infinito.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2018


Primož Roglič: il mondo in un istante

Nel momento in cui tagliava il traguardo della cronometro de La Planche des Belles Filles al Tour, Primož Roglič aveva una faccia che non poteva generare alcun tipo di malinteso. I suoi pensieri non li potevamo conoscere, ma erano facili da intendere; la faccia non mentiva, mentre saliva a fatica, brutto da vedere sulla sua bici, come non si era mai visto prima, e non serviva essere dentro la sua testa – per altro coperta a fatica da un casco antiestetico che pareva andare da tutte le parti - per cercare di interpretarlo.

Il mondo, quello sportivo, pareva essergli crollato addosso in un istante. Tutto, insieme alle sue certezze e a quelle della sua squadra, sembrava assumere contorni nebulosi. Una scampagnata nei Vosgi trasformata in un martirio. Soccombeva a chi arrivava prima di lui al traguardo; dopo di lui, in una presunta linea temporale di nascita, a pochi chilometri di distanza, se invece tutto ciò vogliamo ridurlo a una storia di provenienza.
Una settimana dopo, Primož Roglič si batteva come poteva: dalla Francia a Imola, avremmo potuto intitolare. Pogačar, quel ragazzo più giovane e descritto sopra in poche righe, gli apriva la strada; lui cercava di tenere il ritmo dei migliori, chiudeva sesto, beffato in corsa e umiliato da fischi e critiche da chi, dal Belgio, ripeteva: «Ma come si è permesso di non aiutare van Aert dopo quello che van Aert ha fatto per lui al Tour?» E niente, forse per qualcuno lo stato delle gambe non contava, ma va beh.

E contavano, invece, gambe e facce, e tutto sembrava uno scritto occulto, ieri, sul traguardo di Liegi. Alaphilippe? Una saetta ubriaca. Scartava da tutte le parti con quel suo modo sempre febbrile di interpretare le corse, quelle sue sceneggiate in bicicletta che sono forza, ma a volte anche limiti. Metteva giù la testa, e quasi in modo metaforico sembrava puntare una bandiera slovena sventolante a bordo strada. A destra, poi a sinistra rischiando di far cadere “tutti”. Sul traguardo alzava le braccia per godersi quel momento e farlo suo, soltanto suo, ingannando se stesso e fotografi, ingannando una corsa che da oltre un secolo bacia la primavera belga – e per una volta fa l'amore con l'autunno.

Alzava le braccia, Alaphilippe, spadaccino infilzato da Primož Roglič che non aveva compreso la portata di quell'istintivo colpo di reni. “Istant Karma”, lo ha definito Tylor Phinney prendendosi gioco di Alaphilippe, pochi minuti dopo il verdetto dei giudici che declassavano il francese al quinto posto.
Dalla Francia al Belgio passando per Imola e dagli sberleffi belgi, quel destino ci ha messo un po' di tempo prima di ingraziarsi nuovamente il talento di Primož Roglič. Uno che faceva altri sport, che faceva l'amatore, che sembrava non avere nulla a che fare con il ciclismo: scambiato per sgraziato oppure per inscalfibile. Per una volta, dopo interminabili settimane, nuovamente cavaliere di ventura e col mondo ai suoi piedi.

Foto: Bettini