Quando la fatica è fuori controllo: una riflessione con Mattia De Marchi
Questa volta, partire era più difficile. Mattia De Marchi inizia più o meno così il racconto di Atlas Mountain Race 2023: 1300 chilometri e 20000 metri di dislivello, da Marrakech a Essaouira, in Marocco. Era più difficile soprattutto perché la partenza era la sera, alle diciotto, e, in tutte quelle ore, dal risveglio, i pensieri hanno modo di prendere forma: «Quando ti alzi la mattina e devi correre per partire, non hai quasi il tempo per riflettere su quello che stai facendo. Sul fatto, ad esempio, che resterai solo per alcuni giorni e potrà succedere qualunque cosa. Ora di sera, invece, ci rifletti e quel pensiero un poco ti segna». Tutte cose che, almeno nel caso di Mattia De Marchi, sono andate via dopo le prime pedalate, quasi come se il vero blocco fosse l'inizio, i primi metri, perché, poi, quelle sensazioni si conoscono bene, anzi si riconoscono come qualcosa di familiare e non c'è più tempo per pensare. Così De Marchi parte bene e per un paio di giorni scorda ogni cosa. In Marocco fa freddo, non solo sulle vette, anche nei paesi in cui ognuno cerca di mettersi a disposizione, di aiutare, laddove, forse, si conosce il vero Marocco «una terra che ha poco a che vedere con l'immagine che ne abbiamo noi, con la sua parte turistica, una terra a tratti scavata dalle difficoltà e per questo vera, reale. Uguale alla disponibilità di queste persone».
In quei momenti, per De Marchi anche dormire fuori da un negozio, in un sacco a pelo, con una temperatura vicina allo zero sembra perfettamente naturale. Eppure qualcosa di strano c'è: quando si mette a dormire, il respiro di De Marchi diventa affannoso e veloce. Ci si pensa per qualche istante e poi non più. Ma quel respiro è già un segnale del limite, della fatica. La fatica è pane quotidiano in eventi come questo: il suo sintomo più classico è il collo che cede, l'impossibilità di tenerlo alto, di guardare avanti. «Ho visto persone che mettono un rotolo di carta igienica sotto il mento per proseguire, qualcuno che usa la camera d'aria per aiutarsi a stare dritto, per poter continuare. Una cosa è certa: uno sforzo simile non fa bene al fisico, bisogna saperlo. E bisogna anche sapere che potrebbe arrivare il momento in cui l'unica cosa razionale sia quella di scendere dalla sella senza farsi prendere troppo da ciò che si sta facendo, pensando solo alla propria salute». Potrebbe sembrare naturale, quasi scontato, invece non lo è. Sarà una salita a svelare il fatto che quel giorno qualcosa proprio non va.
«Non riuscivo a incamerare il respiro, ma credevo fosse qualcosa di momentaneo dovuto allo sforzo. Invece no, anche in pianura avevo la stessa sensazione. Passava per qualche istante e poi tornava». In quel momento, De Marchi è in testa all'Atlas Mountain Race, la gara che ha cambiato Enough Cycling oppure, per dirla ancora meglio, l'ha fatto diventare ciò che è adesso: «La prima volta, io e Federico Damiani eravamo pronti fisicamente, ma totalmente inconsapevoli. Forse anche quello è stato un bene, forse anche per quello siamo arrivati alla stessa conclusione: alla fine, una bicicletta è tutto quello che serve per essere felici. Quello che intendo dire è che il legame con questa corsa è come un nodo, stretto. Per questo il pensiero di vincerla è potente».
Senza respiro, De Marchi telefona a Giovanni, suo amico, medico che corre in bicicletta: «Se ti sdrai, cosa provi? La stessa sensazione?». De Marchi si sdraia e si sente soffocare, Giovanni lo ferma: «Ritirati e vai a farti visitare, può essere un edema». Non c'è altro da fare e Mattia De Marchi scende effettivamente dalla sua bicicletta, si fa venire a prendere, va in ospedale: i controlli ribadiranno che di edema si è trattato. Solo oggi, diversi giorni dopo, De Marchi ci dice che si sente come prima di partire, si sente bene. «Non ho pensato minimamente alla gara e sono tornato a casa, non lo avessi fatto non so cosa sarebbe successo. Il Marocco resta dove si trova e Atlas tornerà a corrersi, ma, forzare troppo la mano, forse, avrebbe impedito a me di tornarci e di fare molte altre cose. Lo dico con forza perché non sono l'unico a cui è capitato: avete presente la tosse da cui sono affetti gli atleti, quella che spesso si nota nei video di queste gare? Non è qualcosa di grave, ma è comunque sintomo di qualcosa che non va, di qualcosa su cui porre l'attenzione per evitare problematiche peggiori». Il concetto è sempre quello di limite, tuttavia, quando si tocca la salute, quel limite diventa particolarmente importante. Si tratta di accettarlo, ma anche di fare qualcosa per evitare che si arrivi a quel punto, allo stare così male.
«Dei segnali ci sono, per me ci sono stati e forse avrei dovuto coglierli. Bisogna aumentare la conoscenza di questi sintomi, magari raccogliendoli fra gli atleti con delle ricerche. Con Giovanni vogliamo provare a fare così, dedicandoci alla prevenzione, perché a forza di tirare la corda non si sa mai cosa può succedere. Penso che oggi il tema sia questo, più che quello del sonno che, tuttavia, si continua a studiare». Per meglio spiegare il concetto, De Marchi porta un altro esempio, un problema che ha sempre alle articolazioni, durante le gare, probabilmente legato al fatto che pratica poca attività in palestra: «Ho chiesto a chi mi segue e mi hanno detto che ci sono allenamenti particolari per eliminare o ridurre questo problema. Ecco: bisognerebbe fare una cosa simile anche con altre problematiche, comprese quelle legate alle vie respiratorie».
Poi c'è una domanda che Mattia si è fatto, che Giovanni gli ha fatto: «E se in qualche occasione, lontano da tutto e da tutti, con un pesante malessere, fosse necessario avere un medicinale a portata di mano per tutelare la salute?». La risposta è complessa, però è bene darla: «Le parole su cui far leva sono due: "necessario" e "tutela della salute". Il ciclismo purtroppo ha pagato fortemente lo scotto del doping e si rischia di fare confusione: bisogna essere netti nel respingere a priori ogni pratica di quel tipo, che serva a potenziare le prestazioni, senza se e senza ma. Bisogna anche dire che il medicinale deve essere l'ultima via, in ogni caso. Ma se quel medicinale fosse indispensabile e non averlo causasse danni gravi? Sottopongo questa riflessione, nulla di più, ben cosciente del fatto che ci sia una forte tematica di responsabilità personale. Si potrebbe anche pensare di aumentare le ore di riposo, ad esempio. L'importante è pensarci».
Proprio perché ci ha pensato e ci sta pensando, De Marchi spiega che non ha timore nel tornare in corsa, forte di quella prevenzione che sta mettendo in atto: coprendosi di più o semplicemente imparando a fermarsi al momento giusto, fossero anche ore di pausa. Poi c'è la fatica bella, quella da elogiare, per esempio quella degli ultimi perché «so bene che chi percorre una gara di questo tipo in una settimana fa molta più fatica di me, anche se fa meno chilometri al giorno. Mi piace dirlo, ripeterlo, perché è fondamentale».
In quanto alla Atlas Mountain Race, De Marchi tornerà, per divertirsi, per rivedere quel Marocco "vero" di cui ha parlato, per pedalare e anche per vincere perché, su quelle montagne, Mattia vuole vincere.
The Traka: Morton e De Marchi, uomini e idee in fuga
Fa quasi effetto dirlo, eppure sabato l'abbiamo ripetuto più volte: "Lachlan Morton e Mattia De Marchi soli in testa a The Traka". Chi era sulle strade di Girona, l'ha vista questa fuga, questo coraggio nell'andare via, lontano dagli altri, che è poi ciò che nel ciclismo si cerca sempre. Questo staccarsi dal gruppo, dalle sue abitudini, dalla sua "pancia", dalla sua protezione, dal sentirsi sicuri, che prima ricerchi e poi, con l'anima del ciclista, respingi per ciò che ancora non conosci.
Due uomini, in realtà due idee, perché le idee assomigliano ai ciclisti e a tutti i loro chilometri, anche a questi 360 tra strade gravel, single track, salite, discese, curve e tratti tecnici. Le idee che nascono in un luogo chiuso, protetto, isolato, e che hanno questa spinta ad uscire fuori, a partire in fuga, anche se le ributti indietro, per volontà tua o di altri.
Lachlan Morton, Mattia De Marchi e i loro sguardi che cercano punti diversi da guardare per andare avanti, mentre il sudore appesantisce capelli e barbe e imprime il segno del casco. Da soli, davanti a tutti, in questo caso. Due idee che sono poi la stessa idea: un essere umano che parte in viaggio su una bicicletta è più vero che mai. Perde ogni maschera, molto pudore, non nasconde la fatica, il dolore, la felicità, non nasconde se stesso aspettando chissà cosa.
Pensiamo all'acqua che hanno bevuto, a quella che si sono spruzzati addosso, per il caldo o per levarsi di dosso la colla naturale che il sudore e la polvere costituiscono per intrappolarti. Al cibo che hanno mangiato, al pranzo dei ciclisti, a come le mani stringono quel cibo, alla pasta, al sugo, al ragù, a quel sapore che devi essere "finito" per tornare a sentire come la prima volta dopo esserti abituato. Alla fatica, alle smorfie, a qualche imprecazione: a quelle di Morton quando ha visto De Marchi andare via e si è ritrovato bloccato da un incidente meccanico. Tutto fuori, tutto allo scoperto.
È la loro idea: di De Marchi che vince per la seconda volta a "The Traka" e in tredici ore macina tutti quei chilometri, di Morton che arriva secondo e di tutti quelli dietro di loro. È l'idea dei ciclisti, un'idea in fuga come tante altre, per cercare qualcosa. Può essere un prato dove buttarsi, un getto d'acqua più forte per prendere a sberle la fatica o tutto quello che pensate vi serva. A loro serviva tutto questo e sono andati a prenderselo.