I fantasmi cartesiani di Miguel Ángel López
Miguel Ángel López è quello che è e che non è mai stato. Miguel Ángel López è essenza e metafisica, non è boria né vanità. È presenza costante, ma spesso deficitaria. Miguel Ángel López è uno degli scalatori più forti e che allo stesso tempo hanno dato più delusioni negli ultimi anni; un dato di fatto come i turbamenti di chi lo tifa o le parole sempre pronte a tagliare di chi lo critica. Tante volte, López è stato atteso, scalpitando, dietro a una curva, sul tratto più duro della salita, mentre dentro le orecchie si rimarcava l’urlo immaginario dei commentatori colombiani di RCN Radio. Quelli che nelle telecronache degli anni ’90 a volte si sentivano strepitare persino attraverso i microfoni degli inviati Rai.
López è quell’urlo. Una montagna russa di emozioni. È scalare pareti in bicicletta ricordandosi le sue origini da ragazzo montanaro. È pedalare all’aria rarefatta in punti della terra così alti che si sorpassano le nubi. Uno stretto telaio di metallo, acciaio o carbonio – dipende – e poi abituare muscoli già di loro segnati in maniera definita dal DNA e da quell’esercizio carnale, muscolare, fatto di ossigenazione che è il ciclismo.
López è dritto, ma pedala curvo, si fa attendere e lo attendiamo e lo abbiamo sempre atteso così tanto da ridurre il landismo a puro esercizio di stile narrativo. Landismo che suona bene, Lópezismo che è brutto anche solo da pensare.
LE ORIGINI ALL’ARIA RAREFATTA
Le origini di López vanno ricercate nel Dipartimento di Boyacá, nel paese di Pesca, un nome proprio così: fiabesco. E non è un caso, anzi fa sorridere, vederlo in diverse foto su Instagram intento a portare avanti il suo hobby preferito: la pesca, per l’appunto, alle trote perlopiù, delle quali va matto da sempre. Anche se in realtà “Pesca” in questo caso significa tutt’altro, deriva da un termine chibcha, la lingua che parlavano le popolazioni precolombiane, qualcosa come “chiuso ermeticamente”. López nasce a 2600 metri di altitudine – pare pure persino qualcosa in più. Un posto circondato dalle vette e così alto dove nemmeno le aquile oserebbero. Lui che del regno animale, come ogni colombiano in bicicletta, è uno stambecco.
Del dipartimento di Boyacà, sullo sfondo di questo tracconto, ne avete sentito parlare chissà quante volte e chissà quante volte ancora ne sentirete parlare. È terra di ciclisti. Un territorio non troppo vario, prevalentemente caratterizzato da montagna a tratti verde a tratti arida, e da valli scavate dal Rio Bogotà.
Le origini di Miguel Ángel López non sfuggono all’immaginario classico del ragazzo colombiano, piccolino, forte in bici, un viso pragmatico, un po’ sgrammaticato e leggermente rugoso; origini umili, lavoratore serio. Di quelli che tutti i giorni percorrono la strada per andare a scuola in bicicletta. Accade così anche con i corridori belgi: diventa ormai leggenda la storia di tale ragazzo che percorreva tale muro delle Fiandre o côte della Liegi per andare fino a scuola e che grazie a quell’esercizio costante, quotidiano, ha plasmato muscoli e volontà e la sua carne è diventata ferro.
Fino a quando lo sguardo, solitamente grossi occhi a palla da adolescente e che sembrano uscire dalle orbite, è riuscito a incrociare l’orizzonte che delinea il ciclismo dei professionisti.
Miguel Ángel López ha quegli occhi a palla, lo sguardo severo, furbo, deciso. Tutti i giorni percorreva la strada chiamata Pesca-Sogamoso per raggiungere la scuola Institucion Educativa Indalecio Vasquez di Pesca e lo faceva chiaramente in bicicletta. Attraversando strade, sentieri e un corso d’acqua, il Rio Pesca, circondato da quelle montagne verde chiaro che facevano da cornice al suo paesino. Strade strette e polverose di un grigio chiaro struggente, un noioso esercizio di su e giù in mezzo a campi e fattorie delimitate da pali e filo spinato e zeppe di felici vacche normanne stese al sole. Case di mattoni e fichi d’india, contadini con il sombrero vueltiao sulla testa nei giorni di festa.
Andava bene a scuola, raccontava suo padre anni fa, ed è uno dei motivi per i quali nel 2011 gli regalarono la sua prima bici. «Prima ne usava una mezza scassata appartenente ai fratelli, gliene regalammo una più nuova pagata poco più di un milione di pesos». Ma in realtà Santiago López e Marlene Moreno non volevano che il loro Miguel Ángel diventasse un ciclista. Troppi sacrifici, poco in cambio. Tanto allenamento, troppe lacrime versate per sbucciature e cadute. C’è una fattoria a cui badare, ci sono i campi su cui lavorare e se questo figlio, quarto di sette fratelli, non fosse mai diventato un ciclista professionista? E poi sempre quelle ferite. Tutte quelle volte che questo bambino – che sembra più piccolo di quello che poi in realtà è – tornava a casa malconcio, una volta col polso fratturato: immaginatevi, a proposito di occhi, quelli di un genitore a vedere certe scene. Poi sono subentrati i problemi al ginocchio sempre a causa di una caduta che gli aveva messo fuori uso i legamenti, era il 2013 e López, giovanissimo, nato nel 1994, era già lanciato per diventare qualcuno. E invece arrivò a tanto così dallo smettere.
SUPERUOMO O CAVALLINO?
Iniziamo a chiederci qual è il suo vero nome. Quello che faceva il giro tra gli scout di diverse squadre importanti a livello mondiale, non più locale, anche se per la verità lo si attendeva alle prime corse europee per capire meglio con cosa si aveva a che fare.
Una gemma da intagliare: aveva iniziato a correre da pochissimo e questa sua scarsa esperienza e fiducia nel mezzo si rifletterà poi nel mondo del professionismo nella scarsa abilità di guida e in reazioni umane, troppo umane ma non adatte agli occhi del sistema. Come quella volta in cui – nemmeno troppo tempo fa, è il Giro del 2019 – un tifoso lo fa cadere e lui, divorato dall’adrenalina ed esageratamente coinvolto dal momento, lo prende a schiaffi. Gesto non giustificabile, ma comprensibile in realtà. Si attendeva questo ragazzo che ancora doveva divincolarsi tra gli spettri che attendono anch’essi, come aquile in cima alle Ande, quei corridori che arrivano annunciati da sirene spiegate. Pronti a gettarsi veraci sulle carcasse, magari muniti di penna e taccuino e bava alla bocca. Pronti a distruggere carriere, in attesa del prossimo da divorare.
Il suo nome circolava, il suo nome che da un certo punto in avanti non è stato più soltanto Miguel Ángel López, ma è diventato Superman. Era il 2011, aveva da poco iniziato a correre in bicicletta e lo faceva agli ordini di Rafael Acevedo che, come vedremo, sarà una delle figure più importanti non solo della sua carriera, ma anche della sua vita privata.
Si stava allontanando proprio da casa di “Don Rafael” come lo chiamano con orgoglio e una punta di reverenza i genitori di López. Era in sella alla mountain bike che gli aveva regalato il padre. Incrociò due ladri che lo aggredirono accoltellandolo a una gamba, una-due volte, ma – almeno così leggenda vuole – Miguel Ángel López si divincolò riuscendo a strappare di mano il coltello agli avventori e facendoli fuggire.
Piccolo sì, ma con una forza d’animo che gli permetteva di fare tutto: persino di mettere in fuga ladri affamati e agguerriti e di salire in bici pochi giorni dopo, e vincere. Lui, affamato e cos’ agguerrito. Da lì il nome di Superman; ma se tutti lo conosciamo così, c’è qualcuno che lo chiama diversamente. “Ciavalìn” è il soprannome che gli affibbia Oscar Pellicioli.
IL SOL DELL’AVVENIRE
Miguel Ángel López è pronto. Un salto temporale narrativo che giustifica il passaggio dal 2011 al 2014. Per noi balzo temporale, per lui sono gli anni vissuti intensamente in quanto quelli della formazione, dei duri allenamenti agli ordini di Rafael Acevedo, ex corridore professionista che diventerà suo suocero: López sposerà sua figlia e sarà uno dei “segreti” della sua carriera. «Essere sposato con la figlia di un corridore è un passo fondamentale per la sua crescita. Perché vuol dire avere una persona vicina e abituata a vivere nel ciclismo e che ti sa dare tranquillità» ci racconta Giuseppe Martinelli per sei anni direttore sportivo di López all’Astana. «López è quello che vedete, un ragazzo tranquillo, fatto per il ciclismo, senza grilli per la testa» – nonostante da fuori le cose possano sembrare differenti.
Quando lo vedi perdersi tra alti e bassi, quando quei fantasmi vengono partoriti dalla sua testa. Perché López rappresenta quella categoria di corridori che li aspetti, aspetti, aspetti e poi *puf* si diradano in una nuvoletta di speranze svanite. «Perché ci sono corridori che quando arrivano a un valore che poniamo e definiamo con un numero: 100, riescono a dare qualcosa in più. Quelli sono i campioni assoluti. López è un gran corridore, un campioncino, ma gli mancherà sempre qualcosa per fare quell’ultimo passetto in avanti», ci rivela nuovamente Martinelli.
Ma torniamo alla sua di rivelazione. Al 2014, quando López ha appena vent’anni e conquista la Vuelta de la Juventud (il Giro di Colombia Under 23): un lasciapassare che gli schiude le porte dell’Europa, prima con un viaggio in Europa con la sua nazionale, poi con il contratto con la squadra di Vinokourov.
Al Tour de l’Avenir, Miguel Ángel López è guidato, in seno alla nazionale colombiana, da un team di tecnici italiani agli ordini di Carlos Mario Jaramillo e tra i quali spicca Oscar Pellicioli, quello che, quando lo incontra lo chiama “ Ciavalìn”. «Così lui si volta e sa che sono io: non c’è nessun altro che lo chiama in questa maniera. Perché Ciavalìn? Perché mi ricorda un cavallino. Perché fisicamente è un po’ come ero io e per questo motivo mi sono affezionato a lui. Piccolo, forte in salita. Certo, io andavo bene in salita, ma mai forte come va lui» sono le parole di Pellicioli scalatore, protagonista tra i professionisti a metà degli anni ’90, uno capace di chiudere al sedicesimo posto il leggendario mondiale disputato proprio in Colombia a Duitama e raggiunto telefonicamente per farci raccontare il Tour de l’Avenir del 2014.
E a quel Tour dei giovani il fuoco divampa dentro López. «Lo dovevamo tenere a freno. Perché lui è così. Umile, ma istintivo».
Per prendere confidenza con le corse europee, un mondo distante da quello a cui López era abituato nella sua Colombia, López, prima dell’Avenir disputa alcune corse del calendario italiano. A Capodarco rimedia un ritiro. «Il ritmo nelle corse europee è spaventoso. Totalmente differente», ricorda López del suo primo approccio all’Europa. Nei giorni successivi Pellicioli si occupa proprio della ricognizione in Francia pronto a lanciare il giovane colombiano in quelle ultime tre tappe di montagna che lo consacreranno in vetta al Tour dei giovani. «L’ultimo giorno è stato davvero duro» ricorda ancora oggi l’ex corridore bergamasco. «Dovevamo difendere la maglia gialla di López, ma avevamo in gruppo un solo compagno di squadra: Brayan Ramirez. Vervaeke (che vinse quella tappa verso La Toussiere e chiuse quinto in classifica generale, classifica che tra l’altro vide Geoghegan Hart al decimo posto N.d.A.) andò via sulla salita precedente a quella finale e López, agitato, fremeva».
Non c’erano radioline e quando prepari una corsa nella riunione del mattino spesso i piani si ribaltano. «Con l’ammiraglia abbiamo affiancato il gruppo. Abbiamo cercato di tranquillizzarlo perché lui voleva partire subito per inseguire il belga. A un certo punto, a circa dieci chilometri dall’arrivo, il vantaggio dei battistrada diminuiva e López partì riguadagnando il tempo necessario per vincere la classifica finale di quella corsa».
E a casa come reagirono? Beh a casa non riuscivamo ad avere notizie immediate: niente immagini in Colombia. In quei giorni non riuscirono nemmeno a comunicare con lui per telefono, racconta L’Espectador, e tutto ciò che scoprirono lo scoprirono grazie alle notizie recuperate su internet dai fratelli di Miguel Ángel. E l’attesa per la sua partenza era enorme: «Ci riunimmo nella nostra fattoria a Pesca il giorno prima della partenza cucinando per lui “pollo sudado (piatto tipico colombiano), verdure e spremuta di frutta». Così come importante è il richiamo di quei successi. Appena Miguel Ángel López tornò dall’Europa viene decorato con il titolo di Ufficiale dell’ordine della libertà da parte del governatore di Boyacá.
PROFESSIONISTA
A qualsiasi persona, addetto ai lavori, tecnico, domandi: «ma che tipo è Miguel Ángel López?» la risposta è unanime: «Un bravissimo ragazzo. Umile, simpatico, un perfetto compagno di squadra». Quando arrivò all’Astana sembrava poco più di un adolescente: con quelle fossette e il sorriso sempre in tiro. «Nonostante quei risultati al Tour de l’Avenir pensavamo di tenerlo monitorato un’altra stagione, ma su di lui si scatenò l’interesse di altre squadre e così decidemmo di farlo firmare». Il talento c’era ma Martinelli si sorprese «Quando arrivò era una bambino che arrivava da una realtà totalmente differente, ma si integrò subito in una squadra con diversi campioni come Nibali, Scarponi, Aru. Veniva da un infortunio al ginocchio che lo tormentava eppure i risultati arrivarono subito». Anche se pure lui si portava dietro il fardello di tutti quei ragazzi provenienti dalla Colombia. La nostalgia di casa è sempre stato il suo punto debole, anche se magari lo ha sempre sofferto meno degli altri grazie alla vicinanza della moglie e agli anni vissuti in Spagna a casa di Vicente Belda, ex corridore e suo primo procuratore. «Quando ci si radunava a inizio stagione chiedeva sempre: ma quando posso tornare a casa? Quanti giorni devo stare qui? Ed è un po’ la storia di tutti i colombiani questa: sono molto legati alla loro terra e quando devono stare qui in Europa soffrono di nostalgia. Non sono come i nordici o soprattutto i russi che vengono in Italia e si stabiliscono. Loro hanno nel cuore la loro terra e strappare le radici dalla loro Colombia è impossibile. Una cosa, però», puntualizza Martinelli, «A differenza di altri corridori non si è mai presentato in sovrappeso, nonostante quando quei ragazzi tornano nel loro paese è facile mollino un po’».
A fare un elenco statistico di quello che López ha ottenuto in questi anni di professionismo si finirebbe per intaccare il senso o persino rovinare il ritmo di questa storia.
Vittorie parziali e podi nei grandi giri arrivano con la stessa facilità con la quale ne riuscirà a buttare via altrettanti. Su otto Grandi Giri disputati a parte due ritiri, sei volte su sei finisce nei primi otto in classifica generale con due terzi posti uno al Giro e uno alla Vuelta. Cade spesso, forse troppo, anzi senza il forse. Non solo non è un drago a guidare la bicicletta, ma la sensazione è che se esistesse una magia sovrannaturale lui ne sarebbe vittima.
Capitomboli, ruzzoloni, in maglia di leader oppure semplicemente a inseguire un sogno scappando da quegli spettri che si pongono davanti alla vita di ognuno. In fuga un po’ per paura, un po’ per vocazione visto che, appena la strada si impenna, sono pochi a potergli stare dietro o a poter rispondere a quelle infide rasoiate.
L’ultima caduta in ordine di tempo arriva al Giro 2020 nella prima tappa. Prende una buca, perde il controllo della bici da cronometro e si schianta contro le transenne. Di nuovo a chiacchierare in corsa con quei fantasmi – reali o irreali sempre fantasmi sono.
Qualche settimana prima al Tour aveva vinto la tappa più bella e spettacolare dell’edizione 2020 nello scenario del Col de la Loze, staccando Roglič e Pogačar. Poi sul più bello, quando è in lotta per il podio, il penultimo giorno a cronometro è di nuovo il López che soffre e che lotta contro quella sensazione che più che sensazione è un dato certo: è un ottimo corridore, ma forse non sarà mai un campione.
Il 2021, quando cambierà maglia e vestirà quella della Movistar, ci dirà davvero chi è Miguel Ángel López e capiremo, o forse lo capirà lui prima di tutti, se finalmente sarà riuscito a liberarsi dai suoi fantasmi.
Foto in evidenza: A.S.O./Angel Gomez ©PHOTOGOMEZSPORT2019
Tornerai, Miguel
Per Miguel Ángel López è crollato tutto dopo 9'38'' dall'inizio del Giro d'Italia. Lo ha spiegato lui stesso, ieri sera, in albergo, parlando con i suoi compagni: «Mentre appoggiavo le mani sulla protesi, ho sentito la bici scivolarmi via. Era impossibile trattenerla: si è ribaltata sotto di me. Qualcosa di incredibile». Il referto medico ha escluso fratture evidenziando solo una profonda ferita nei pressi dall'arteria iliaca, recupererà nelle prossime settimane, insomma. L'uomo è un impasto più complesso, l'uomo non può fermarsi al dato di fatto degli esami clinici, la sua mente non glielo permette. Come quando la scienza sentenzia: «Lei sta bene. Non ha nulla». E tu non riesci a spiegarti come sia possibile, tanto fa male. Forse il viso di Lopez, appoggiato alla testata del letto, con gli occhi rivolti verso l'alto, vuole dire proprio questo. Cenghialta, suo direttore sportivo, lo ha detto mentre lo attendeva in ospedale: «Ora si è tranquillizzato, ora è più calmo. Dobbiamo solo aspettare». Quel sorriso dissimulato, rivolto ai compagni, sottintendeva questo: «Sono più tranquillo, va tutto bene. Se non c'è niente di rotto va bene, come dire il contrario?». In realtà non va bene niente e, prima di tutto, non va bene aspettare. Aspettare ancora. L’attesa ha senso quando c’è la possibilità di riempirla di significato con ciò che verrà. Quando ti strappano via da ciò che hai atteso, come non fosse ancora il tuo turno, come non fosse lì per te, come tu non fossi la persona giusta, dell’attesa proprio non vuoi sentire parlare.
Non abbiamo mai corso un Giro d’Italia in bicicletta ma lo abbiamo percorso in auto, per raccontarvelo. Sappiamo cosa significhi l'attesa di un evento del genere che è poi simile ad ogni altra attesa cercata, voluta. Abbiamo vissuto l'immaginazione che ti traghetta lì, al tuo primo Giro d'Italia o al ventesimo ma poco cambia o dovrebbe cambiare. Se smetti di aspettare ciò che vuoi vivere che senso dai al tuo essere qui? Quando aspetti ciò che vuoi, le ore che si dilatano sono direttamente proporzionali alle paure che ti assalgono. Vuoi essere parte di questo qualcosa in maniera così forte che vedi tutti gli ostacoli che potrebbero impedirtelo e speri solo non si manifestino. Non è tanto questione di ottimismo e pessimismo, accade quando ci tieni. Come quando hai un appuntamento per una sgambata e dieci minuti prima squilla il telefono, la mente corre: «Dimmi che non rimandiamo». Come quando aspettate la vostra gara per tanto tempo. Accade come è accaduto per i tanti eventi in bilico in questo periodo di norme anticovid. Come è accaduto anche per questo Giro d'Italia, ad ogni risalita dei numeri dei contagi. Per gli appassionati, per noi che lo raccontiamo e gli vogliamo bene, e per tutti gli atleti che, su questo Giro, hanno scommesso mesi. Mesi duri, difficili, senza certezze, chiusi in casa, in un vortice di dubbi. Poi i giorni si avvicinano e il Giro parte. Tu sei lì e te lo dici: «Ci siamo. Ho immaginato bene, sono qui. Ora si va, via». E magari sei come Miguel Ángel López ieri e non lo sai. Non sai che dovrai gustarti quella manciata di chilometri e basta. Perché la "bicicletta ti si ribalterà sotto" e non potrai fare nulla. Ti caricheranno su una barella, ti porteranno in ospedale e, fatti tutti gli esami, ti indicheranno una prognosi. Un numero che ti dirà fino a quando dovrai aspettare per poterci nuovamente sperare.
Ma qui le ore saranno ancora più lunghe, i mesi più difficili, le stagioni interminabili. Sì, perché quando ti strappano via dal tuo momento poi sembra impossibile un ritorno. E se torni e poi succede ancora? Se torni e non accade nulla di quello che desideri? In certi momenti ti dici anche che è inutile tornare, ti chiedi il senso del ritorno. Di lavorare tutti quei mesi e poi chissà. Quanto può essere cattiva la vita? Non serve chiederselo. Serve riprendere in mano quella bici e andare. Tirando qualche pugno sul manubrio, imprecando, magari anche sbattendola contro qualche muro in qualche momento no: ma poi riprendendola in mano e controllando che sia a posto. E, magari, quella stessa vita ti farà trovare sul cammino qualcosa di così inatteso, ma bello questa volta, per cui valga la pena. Più verosimilmente non sarà qualcuno a darti una ragione per aspettare e tenere duro ma sarai tu stesso a doverla cercare. Perché lo sai bene ormai: chi aspetta può essere deluso ma chi smette di aspettare è disilluso. E questo è ben più grave. Un ciclista non può permetterselo, un uomo non può permetterselo. Ricordiamocelo quando aspettare stanca.
Foto: Bettini