Quel che si è visto a Montalcino

Vedo pochi spezzoni di corsa di questa Perugia-Montalcino attesa dal mondo da 11 anni, da quando arrivò Cadel Evans in maglia iridata a nobilitarla. Sono concentrato su un intervento che mi preme fare in diretta Rai; cose da dire su questo territorio, sul suo giacimento di strade bianche che non si sono salvate per caso. Apprendo che L'Équipe scrive di chissà quali strati di cemento sotto, come se da queste parti si fosse forzata la natura per fare delle piste ad uso ciclismo con polvere.

Ciò che intravedo tra una postazione e l'altra, gelataio compreso, mi basta. Conosco queste immagini, questi luoghi magici dai nomi fantastici. Passo del Lume Spento sembra scritto da Collodi, incrocio di Gatto, Volpe ed Assassini tutti insieme. Al mondo trasmettiamo l'idea di un reame di sogni, di colori, della natura trionfante in simbiosi con l'opera dell'uomo, per una volta persino capace di migliorarla. In più ho appena scorso, anche in foto, ciò che vidi domenica con l'Eroica Juniores, per gli ultimi 30 chilometri sullo stesso tracciato e per gli altri 80 su bellezze altrettanto degne: facce mirabili di ragazzi pieni di sorrisi e schizzi di fango, visi da affiggere fuori da ogni pub in cui molti pari età esagerano con gli spritz.

La corsa? Abituato alla sincerità devo dirla anche stavolta; certo che è la mia, ci mancherebbe, ma mi urge dentro, poco opportuna.

Un appuntamento del genere, in questa arena fatata, doveva essere onorato meglio. Lo stesso Egan Bernal, degna maglia rosa, aveva cerchiato la tappa, considerandola quella da vincere, quella di cui si sarebbe ricordato da vecchio. Come, appunto, Cadel Evans, che in settimana aveva definito quella Carrara-Montalcino 2010 lorda di fango come la sua vittoria più bella.

Si parla di uno che aveva in bacheca Tour e Mondiale mica del nostro Eros Poli e del suo Mont Ventoux, con tutto il rispetto una saetta su un palo. La Ineos, signora e padrona, ha lasciato quasi un quarto d'ora a una fuga numerosa, i tecnici iper preparati, scienziati con bilancini e computer, tabelle e teoremi, hanno fatto i conti che il più vicino in classifica stava a oltre mezzora. Di epica ed eroismo nemmeno parlarne, del mondo ciclistico tutto che avrebbe gradito l'impresa in diretta, del fatto che quella tappa Montalcino 2010 sia stata la più vista nei siti internet planetari importato una mazza. Gli altri una scusa l'avevano: Bernal viaggiava ad altro passo, visto a Campo Felice. Quindi si è messo in scena il copione delle frazioni di complemento, le tappette di contorno: libera uscita per reclute e caporali.

Occasione persa per consolidare la nuova posizione che questo ciclismo sta conquistando nel cuore della gente; Strade Bianche magistrali con van der Poel, Alaphilippe e tutti i più grandi davanti, stavolta uno sprint a due fra giovani dal sicuro avvenire. Ma non era traguardo da Schmid e Covi, l'avrebbe capito qualsiasi alle prime lezioni di marketing.

Fatto è che, forse, trattasi di un Giro d'Italia che paga un cast assortito con quanto il Tour lascia a disposizione, un po' poco. Sulla carta Bernal, terza punta nello scacchiere degli inglesi, è partito senza rivali veri, con Evenepoel fermo da 9 mesi, il buon Vlasov ancora tenero, un gemello Yates che non sai mai se è quello giusto e Vincenzo Nibali, già grande a prendere il via col fardello dell'infortunio e degli anni. Italiani? Tenui, bravo Damiano Caruso ma lui da anni fa il gregario di lusso; e i due migliori, Ganna e Moscon, sono a fare i Grenadiers, gli operai specializzati. È un Giro che quando perde Caleb Ewan, direzione Tour, si infuria persino Merckx; ed oggi se n'è andato a casa anche Tim Merlier, sprinter belga a segno nella seconda tappa.

Eppure a Montalcino si è visto tanto lo stesso, l'idea di un grande ciclismo di ritorno si è avuta ugualmente; Bernal ha attaccato, Evenepoel  ha pagato ma in modo tale da confermare che sarà un prossimo grande. Qualcuno si è perso, sono arrivati così alla spicciolata che un quartetto sembrava un plotone. E comunque sia queste contrade di grandi vini, bella gente e tante strade magnifiche senza asfalto hanno confermato che il ciclismo eroico parla in diretta con l'anima della sua gente. Presto lo capiranno anche certi scienziati; e magari cominceranno a divertirsi anche loro.

Foto: Luigi Sestili


Giancarlo Brocci e le strade polverose

«Gaiole ha tanti pregi, ma anche un limite: il telefono prende male. Che è un limite ma pure una risorsa».

Giancarlo Brocci risponde così alla nostra telefonata nella serata della tappa dello sterrato, del suo sterrato. Basta questo aneddoto per descrivere Brocci, anima e ideatore dell’Eroica.
Lui, testa bassa, come si direbbe in gergo ciclistico, inizia subito a parlare. «Intanto, forse, abbiamo capito che lo sterrato è un valore. Per molto tempo non lo si era considerato così, ogni tornata elettorale era quella giusta per promettere di asfaltare strade polverose. Più in generale credo sia anche un fatto di mentalità: se qualcuno viene a chiedermi una mia bicicletta per correre L'Eroica, gliela cedo volentieri. Torna impolverata, sporca? Certo, qual è il problema? Le cose vanno adoperate e nell'uso si sporcano o si rompono. Mi sembra così normale, così bello».

Quel “forse” porta la mente di Brocci indietro di undici anni, al Giro del 2010, a Gianni Mura.
«Era ospite fisso del Processo alla tappa, poi accendeva il sigaro ed iniziava a scrivere. Quella sera, a Montalcino, dopo la vittoria di Evans, mi disse: “Avevi ragione, Giancarlo. Il ciclismo ha bisogno di tornare al passato per guardare al futuro”. La redazione di Repubblica gli aveva appena chiesto di raddoppiare le battute del pezzo. Alle persone questo ciclismo piace. Sapete a chi non piace? Ai maniaci della programmazione, dei watt, delle tabelle e dei numeri. A loro non piace e non piacerà mai, perché questo ciclismo le costringe a cambiare. Ma il vecchio ciclismo continuerà ad esistere e ad entusiasmare, non possono farci nulla, se non accettarlo».

Così Brocci è rammaricato per l'esito della tappa di ieri. «Il rispetto va in maniera indiscriminata a tutti, però la mia sincerità mi impone di dire che me l'ero immaginata diversa. Per questo mi sono emozionato di più domenica, coi giovani che hanno corso l’Eroica juniores. Perché lì non ci sono stati calcoli, lì si è dato tutto ciò che si aveva con la voglia di arrivare al traguardo, di vincere o anche solo di concludere. Si tratta di rispetto di quello che è il ciclismo, della fatica. Quando ti disinteressi della fuga e la lasci naufragare a minuti e minuti, forse non stai dando alla strada il rispetto che merita».

Il primo ricordo che Brocci ha del Giro lo riporta agli anni di Vittorio Adorni ed alla sua attesa di ragazzo per sentire alla radio le prime notizie riguardanti la tappa del giorno. Sostiene che, negli anni, il Giro lo ha deluso, ma allo stesso tempo confessa di non aver mai smesso di seguirlo. Per questo ieri era a Montalcino. «Perché c'è la fatica e, dove c'è fatica, c'è la parte buona dell'uomo. Noi, adesso, tendiamo ad anestetizzarla in ogni modo: non conosciamo più il vero senso della fame, della sete, della stanchezza. Questi giovani hanno scelto la fatica in un mondo che fa di tutto per cancellarla. Qualcosa vorrà pur dire».
E parlando di sterrati, di campi e di Giro, si parla di Alfredo Martini. «Mi diceva: “Noi uscivamo al mattino presto a pedalare e nei campi c'erano i contadini. Facevamo molti chilometri, poi tornavamo, e nei campi c'erano ancora i contadini. Noi eravamo fortunati, almeno eravamo riusciti a fermarci in trattoria a mangiare. Loro no”. Capisci? Si sentivano fortunati per poter fare tutta quella fatica».


Tramonto e Polvere

È successo talmente tanto tra le 15.14 e le 17.15 di oggi, su quelle strade grigie che poi diventavano bianche, che a un certo punto eravamo a metà tra il dire basta e chiederne ancora.

Schmid vinceva la sua prima corsa tra i professionisti a 21 anni, nel giorno meno indicato. Si fa presto a dimenticare: ahilùi l'attenzione era tutta a quello che succedeva poco dietro, a qualche chilometro di distanza, dove la strada cambiava effetto da asfalto a sterro come fosse un gioco perverso. Dove la classifica cambiava a ogni metro, a ogni curva, a ogni grida di tifoso, a ogni ombra riflessa da ulivi e cipressi a bordo strada.

A una certa non ne avevamo abbastanza. Avremmo chiesto persino di più a Bernal, Ganna e Moscon: padrone, dinamitardo e perfido manovratore di questo Giro.
Avremmo mai chiesto di più a Buchmann? Anticipava l'attacco della maglia rosa arrivando - più o meno - assieme a lui, e riaccendendosi in un Giro fin qui passato nell'ombra, passato soffrendo il gelo.

Avremmo voluto dire "basta, ti prego" guardando la volata di Covi che stringeva i denti. Gli occhi sembravano fuoriuscirgli dalle orbite, pareva potesse superare Schmid, ma poi si incartava: di più non poteva. Così come gli altri della fuga, con Kluge che attaccava e si staccava, De Bondt che voleva essere il primo campione nazionale belga a vincere al Giro dai tempi di Maertens, Vanhoucke che avrebbe voluto conquistare una corsa e dedicarla al suo amico Lambrecht che purtroppo non c'è più.

Oppure quel Gavazzi che non è un ragazzino, sa che il tempo sfugge e allora si rende ogni giorno protagonista. Cosa avremmo potuto chiedergli di più?
Avremmo potuto mai chiedere di più a Bettiol vedendolo andare così forte, su ogni terreno, come non succedeva da tempo? E a Nibali che guidava il gruppo sugli sterrati nonostante qualche settimana fa si sia rotto un polso?

Avremmo voluto spingere Ciccone mentre si staccava per la prima volta al Giro, abbiamo detto basta vedendo la sofferenza di Evenepoel, sudato, umano, tenero nella sua difficoltà; gli avremmo dato una pacca sulla spalla e avremmo voluto dire ad Almeida di fermarsi un po' prima per aiutarlo. Avremmo voluto captare il segnale radio per sentire cosa si sono detti tra ammiraglia e corridori in quel momento.

Ci siamo esaltati nel vedere Caruso rimontare dopo essere rimasto dietro nel primo settore sterrato, per poi emergere col baffo impolverato ogni qualvolta la strada s'impennava.

Abbiamo avuto male alle gambe per loro, in quelle due ore in cui tutto si ribaltava tranne Bernal. Dove Vlasov resta l'osso più duro, Yates cresce e Carthy si conferma. Avremmo voluto essere nell'espressione di Foss e Bennett che provavano ad attaccare, ma dietro Moscon, con gambe di bronzo e cosparse di terra, li respingeva.

Avremmo voluto essere in Carboni che per qualche minuto ha pedalato con Evenepoel in salita. Avremmo chiesto “pietà, per favore”, per Bardet che era davanti, persino bellino da vedere, se solo avessimo visto l'attimo in cui scompariva.
Abbiamo visto sprofondare Formolo e ci siamo immaginati saltare Martin. Abbiamo visto calare Valter e imprecare Taaramae.

Abbiamo visto il sole nascondersi tra le nuvole per poi riapparire e illuminare la polvere. E poi tramontare su una giornata entusiasmante, di un Giro entusiasmante, che non dimenticheremo presto. Forse mai.

Foto: Luigi Sestili