Una grande classica a Parigi

È come una grande classica: i velocisti si fanno del male sulle montagne pur di arrivare qui e sfidarsi. Quando ascolti le loro interviste, e sono ancora ragazzi, ti dicono quasi sempre: «La corsa che vorrei vincere? Lo sprint sugli Champs-Élysées».
Basta poco, solo avere questo nel bagaglio tecnico: fibre da velocista, una potenza particolare da esprimere sui pedali, resistenza - ricordate le montagne di cui parlavamo prima o le medie folli di queste tre settimane? - e di conseguenza qualcosa rimasto nel serbatoio; per finire pelo sullo stomaco, tanto pelo sullo stomaco, per buttarsi in mezzo a tutto quel casino.
Guarda caso, le caratteristiche che riassumono al meglio Jasper Philipsen, a conti fatti il velocista numero uno di questo Tour. Si sente l'urlo della gente, a Parigi, tantissima gente. Su quei sanpietrini dove la bici balla, solo loro sanno come fanno a controllarla. Ci si consacra su quel rettilineo, sull'Avenue des Champs-Élysées, ma prima si brinda e si festeggia, una passerella e poi una lunga kermesse, fatta di strane idee, come quelle che hanno in testa alcuni corridori che vorrebbero rovinare la giornata a quei velocisti rimasti.
Bandiere danesi ovunque, a Parigi, gente appesa ovunque, a Parigi, per vederli passare, battaglia per la posizione e qualche fuori programma - ma nemmeno troppo. Van Aert che si concede la prima giornata libera di questo Tour e nessuno ci avrebbe scommesso, ma in queste settimane i colpi a sorpresa non sono mai mancati. Non sprinta per la maglia verde (vinta da giorni, ormai) e nemmeno all'arrivo, concedendosi il proscenio insieme ai suoi compagni di squadra, insieme a Vingegaard che, roba quasi da non crederci solo pochi mesi fa, vince il Tour de France.
L'attacco di Pogačar con Ganna a sei chilometri dall'arrivo serve solo a scaldare i cuori, a farci sussultare, la volata finale invece a stravolgerci l'umore. Vince Philipsen, oggi il miglior velocista del mondo, su un traguardo che vale una grande classica. Su un traguardo che chiude un Tour che non dimenticheremo mai.


Crediamo nel modo

Crediamo nel modo. Nel modo di fare le cose, qualunque sia il risultato, e lì, sul modo, ci soffermiamo. Anche guardando a Steven Kruijswijk a terra, dopo una caduta apparentemente innocua, che, invece, ha fatto male, così male da farlo restare sull'asfalto rovente, con una mano sulla spalla. Perché a pochi metri c'è Wout van Aert, che vorrebbe ripartire, ma lo guarda, cerca conferme, cerca un segnale, poi parte. Perché quando Kruijswijk viene trasportato in barella verso l'ambulanza il pubblico guarda e applaude. Un applauso nel silenzio, del silenzio: il gruppo è già altrove, certo, ma non è per quello il silenzio interrotto solo dal battere delle mani. Significa riconoscersi in un dolore e questa gente, quella che aspetta ore sotto il sole per un secondo di colore e di vento, sa cosa vuol dire.
Credere nel modo vuol dire guardare oltre a quello che si vede, vuol dire cercare oltre quello che si trova, vuol dire fare, talvolta, oltre quello che si può. Mentre scriviamo questo pezzo non sappiamo se Michael Mørkøv arriverà a Carcassonne, se lo farà entro il tempo massimo oppure no, però Mørkøv crede nel modo. Non abbiamo dubbi. Perché c'è modo e modo di non farcela. Insistere fa parte di questo modo. Qualcosa di simile vale per Benjamin Thomas: il suo modo è quello dei fuggitivi e chi fugge crede nel modo perché se credesse solo nel risultato non andrebbe in fuga, non soffrirebbe così per poi perdere tutto a pochi metri dal traguardo, col gruppo che lo inghiotte. Il risultato è importante ma credere nel modo fa la differenza perché c'è modo e modo di raggiungere lo stesso risultato e chi guarda capisce, chi guarda ama non per i numeri, ma per le modalità con cui avvengono le cose.
Wout van Aert prova ad andare in fuga, viene fermato, torna in gruppo, cade, aiuta Vingegaard e poi si lancia in volata. Non vince, arriva secondo ma volete mettere questo secondo e qualunque altro secondo posto? Poi si parla di tattica, di strategie, degli errori e di tutto il resto. Questo, però, colpisce e colpisce perché ha a che vedere col modo.
Come col modo ha a che vedere la volata di Jasper Philipsen: con il modo in cui se la guadagna, con il modo in cui sprinta, in cui non smette mai di pedalare, e anche col modo in cui parla dopo il traguardo. Col modo, ad esempio, in cui dice ad un intervistatore "sto per piangere", quasi ad avvertire di un momento di debolezza che è poi un momento di forza.
Ve lo dicevamo: crediamo nel modo. Da sempre, oggi ancor di più.