La Colombia e la fuga: intervista a Simon Pellaud

Il 15 ottobre 2020, la dodicesima tappa del Giro d'Italia parte e arriva a Cesenatico. Il cielo è plumbeo, fa freddo, in alcuni tratti pioviggina, i primi rigori dell'autunno si fanno sentire. Simon Pellaud, Androni Giocattoli Sidermec, è in fuga dal primo mattino, ad un certo punto alla sua mente ritorna la Colombia e il sapore del boccadillo, un gel zuccherino alla frutta. Ne cerca una bustina nelle tasche posteriori della maglia ma non c'è. Alla sera, al ritorno in hotel, visibilmente provato dal freddo, chiederà al suo massaggiatore di mettergliene diverse bustine in tasca: il giorno dopo, verso Monselice, tornerà a scattare.

«In quella fuga c'era un ragazzo colombiano dell'Astana. In un tratto tranquillo mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto se gli mancasse la Colombia. Mi ha detto di sì, me lo ha detto in un modo particolare, mi ha chiamato “fratello”. Ho preso una di quelle bustine e gliel'ho passata: "Assaggia questa, ti sentirai a casa". Appena ha sentito quel sapore, ha fatto un sorriso a trentadue denti. La Colombia era tutta lì». Per Simon Pellaud l'avventura è la libertà di un viaggio ed il suo viaggio in libertà è il ciclismo. «Grazie al ciclismo ho imparato cinque lingue, sono stato in venti diverse nazioni, l'ultima è il Venezuela, ho conosciuto tante persone e ho imparato l'umiltà. Ho abitato in Svizzera, lì c'è tutto, di più, c'è il meglio di tutto: io sono andato via per andare a vivere in Colombia, in una casetta senza il gas, con una stufa e quel poco di acqua calda che serviva per lavarsi. In una casa con solo un tetto e poco altro». Eppure lì Pellaud è felice.

Ad essere felice, Simon aveva imparato qualche anno prima. «Correvo con la IAM Cycling ed avevo un futuro assicurato. Eppure terminavo le gare, arrivavo ventesimo, e sentivo che se quella mattina non avessi preso il via sarebbe stato lo stesso. Quando ho rescisso il contratto, sono stato diversi mesi senza lavoro, non dormivo la notte e mi era anche passata la fame». Simon Pellaud riparte con il Team illuminate, una squadra brasiliana che si sostiene grazie a una raccolta di fondi ed oggi racconta che da quel giorno per lui è iniziata un'altra vita. «In Colombia dicono che è merito “dell'aiuto de Dios”. Io questo non posso saperlo, io so che in quei mesi sono andato a vivere in montagna, lontano da tutto e da tutti, con accanto solo le persone che amavo. Stando da solo ho capito che potevo ripartire e diventare l'uomo che avrei voluto essere».

La parole chiave è una: fuga. «Ognuno di noi ha una chiave per diventare qualcuno. Io non sono un campione, difficilmente vincerò molte gare in vita mia, ma non è questo a spaventarmi. A me spaventa l'idea di essere anonimo, di restare fermo, di non fare nulla ed aspettare lo scorrere del tempo e con questo la fine della carriera. Per questo esco dal gruppo, mi faccio vedere, mi sento vivo. Magari vincerò una sola gara o forse neanche quella, ma esserci non sarà stato inutile».

Simon Pellaud sostiene che il bello della conoscenza sia il fatto che «puoi prendere qualunque cosa e farla tua, utilizzarla per la tua vita, per stare meglio, perché non c'è un diritto privato della conoscenza». Ma, per conoscere, è necessario uscire dalla propria galassia, anche temporaneamente, anche solo per un attimo. «Nessuno conoscerebbe bene il proprio pianeta se non lo vedesse dallo spazio, dall'esterno. Viaggiare è importante perché ti consente di vedere da fuori una realtà che altrimenti rischia di anestetizzarti». Pellaud se ne è accorto a Monselice, sì, proprio nel giorno in cui è sceso di sella mentre il gruppo lo riassorbiva e ha iniziato ad applaudire i suoi compagni.

«Il mio è stato istinto puro, non sapevo nemmeno che ci fosse una telecamera. Sono sceso di sella per permettere al gruppo di passare su una rampa molto ripida e ho applaudito perché mi è venuto spontaneo. Mi sono sentito come mi sentivo quindici anni fa quando i miei genitori mi portavano alle corse, con la stessa forma di entusiasmo. Quando sono tornato a pedalare ero staccato, sfinito e dovevo andare all'arrivo da solo. Non mi interessava, ero contento».

Foto: Luigi Sestili


Quando sogna Simon Pellaud è un genio

Il destino di Simon Pellaud è racchiuso in due parole: Chemin Dessus, “Sentiero di Sopra” letteralmente, un paesino della Svizzera posto a milleduecento metri d'altitudine, perché è da lì che arriva e poi perché viene naturale tradurlo, visto che oltre ad andare forte in bici, Pellaud parla cinque lingue.
Il destino di Simon Pellaud è proprio quel cammino che lo porta in fuga, perché lì sa stare meglio, trova il suo habitat, un animale che si mimetizza tra le fronde: «All'inizio andavo in fuga perché non avevo le qualità per stare davanti fino alla fine con i migliori, poi è diventata un'abitudine: mi emozionava “tentare el golpe” - provare a fare il colpo - giocando con il gruppo che ti insegue. E poi volete mettere? Il senso di libertà che ti dà andare in fuga, poter vedere la strada davanti ai tuoi occhi lontano dallo stress dello stare in mezzo al plotone. Un gusto impagabile», ci racconta, alternando con estrema brillantezza italiano, spagnolo e francese.

Il cammino di Simon Pellaud, ventotto anni, svizzero, è quello che lo porta fino in Colombia, dove ha costruito una casa e dove vive diversi mesi all'anno; una scelta di cuore, di amore a prima vista, come una carezza che ti fa ribollire il sangue. «Tutti mi chiedono perché ho scelto la Colombia e il perché lo trovo guardando le strade, conoscendo le persone, mangiando la frutta – ha un sapore incredibile che non trovi da nessuna parte! Apprezzando clima e paesaggi. Ho trovato un'energia che altrove non esiste: le persone sono sempre felici pur avendo poco. La Colombia è luminosa, mentre in Europa ci sono i soldi ma il colore che domina è il grigio. E poi, come dicono loro, c'è tanta “alegría” e la gente ha cambiato il mio modo di vedere la vita. Hanno poco e gli va bene così, in Svizzera hanno tutto e si può avere tutto, però ci si lamenta troppo spesso».

Ha scelto il ciclismo perché lo sente scorrere nelle vene: «Mio nonno era ciclista e probabilmente mi ha trasmesso l'amore per la libertà. Per me uscire in bici anche solo a fare un giro vuol dire essere “libre”, per me vuol dire avere la possibilità di viaggiare dappertutto» . Una conoscenza del mondo che gli ha insegnato a vivere. «È nata come passione è diventata scuola di vita», concetto che può suonare banale, ma dal quale non si sfugge quando pedalare non è solo il tuo mestiere, non è solo gonfiare i polpacci o eseguire un gesto meccanico, ma la tua ragione di vita. Ciò che ti fa salire le pulsazioni anche al solo pensiero. «Corro sempre con il cuore, perché mi piace davvero tanto fare ciclismo».

Il cammino di Simon Pellaud più di una volta ha trovato ostacoli complicati da superare: nel 2016 correva nel World Tour, ma la sua squadra, la IAM, chiuse, e lui si ritrovò a rifare tutto da capo. «Scendere in una squadra Continental è stata dura per me. Un po' perché pensavo di fare il capitano e mi sono ritrovato ad aiutare Avila, un po' perché dal World Tour è proprio un altro mondo: come organizzazione, come programmi. A volte sapevamo all'ultimo dove saremmo andati», un'esperienza dal quale trova insegnamenti, nella quale matura e che lo ha riportato in questo 2020 tra i professionisti con la maglia dell'Androni, squadra che sposa perfettamente la sua indole fugaiola.

La prima corsa dopo il lockdown, infatti, è subito in avanscoperta: di nuovo mimetizzato tra asfalto e cielo all'orizzonte, perché prima di salire in sella Pellaud già aveva in mente l'evasione come risposta alle sue domande. E poi «quando mi riprendono la mente corre subito di nuovo alla prossima volta che mi lancerò all'attacco».
Simon Pellaud lungo il suo cammino prova a fuggire alla pressione: «La soffro più quando si corre vicino casa, in Svizzera, che quando sono al via di una corsa importante come al Giro di Lombardia» e pochi giorni dopo la Monumento prende parte anche al Giro dell'Emilia dove si immagina in fuga e invece arriva, lungo quel sentiero, un altro intoppo. La sua bici all'improvviso smette di frenare: «La peggiore paura di un ciclista? Trovarsi senza freni in piena discesa. I freni a disco sono il top a parte quando non frenano», racconta, visibilmente ferito, sui suoi canali social.

Il cammino di Simon Pellaud è incastrato nel presente, non può pensare al futuro, oscuro, brillante, non importa, non è possibile nemmeno immaginarselo perché non sa cosa riserva a un corridore come lui: «Firmando di anno in anno per me è impossibile programmare dove sarò domani o l'anno prossimo o nemmeno fra dieci» e quindi lastrica il suo sentiero, sognando la Milano-Sanremo. «Io mi immagino lì, in fuga, in Via Roma a giocarmi il successo. So che rimarrà un sogno, ma a me piace così».

D'altronde, sosteneva Kurosawa: «I sogni sono la rivelazione dei desideri inconfessati, delle paure segrete che l' uomo nasconde nel profondo di se stesso. I sogni sono delle cristallizzazioni di questi desideri puri e disperati, li esprimono in una forma fantastica e totalmente libera. L'uomo, quando sogna, è un genio; è coraggioso e audace come un genio». E questo Simon Pellaud, lo sa bene.

Foto: Simon Pellaud, Twitter