Le terre dell'abbondanza

Dannato, benedetto ciclismo. Pazzesca, fangosa domenica. È successo di tutto. Proprio letteralmente. Dall'attacco di Trentin, quando mancavano 250 km all'arrivo, abbiamo capito che nulla sarebbe stato normale in una giornata così epica per il ciclismo che a un certo punto anche i telecronisti si sono dovuti arrendere: «"Epica Parigi-Roubaix" e scusateci se stiamo abusando di questo termine».

Di tutto, davvero. Da avere male ovunque pure noi. Da dover fermarsi, prendere fiato e ragionare per mettere ordine alle idee. Da far rallentare il cuore, che batteva all'impazzata, come quel momento in cui, per una frazione di secondo, i corridori entrano nel velodromo di Roubaix e c'è silenzio che si tramuta in fracasso.
E poi quell'urlo: "Sonny Colbrelli!", il sorpasso su Florian Vermeersch sulla linea d'arrivo, la bici tirata su in aria come il bilanciere di un pesista. La bici: unica grande protagonista di una giornata da leggenda.

E che Sonny stesse bene bastava vedere il cielo stamane per capirlo, ma avremmo dovuto guardarlo negli occhi, leggere nella sua anima e analizzare gambe e testa: come si poteva solo pensare che un debuttante potesse vincere una Roubaix? Eppure i primi tre all'arrivo non l'avevano mai disputata. Il ciclismo ribalta, la Roubaix distrugge.
E come pensare che Sonny apparisse, sin dalla prima pietra attraversata, dopo 96 km, sempre davanti in controllo sulle ruote giuste? Oggi era quella di van der Poel ancora più di quella di van Aert.

La primavera è stata trascinata direttamente dentro l'autunno e all'inferno oggi pioveva. E poi c'era nebbia e vento. E poi il pavé che non sembrava nemmeno pavé perché nascosto da fango e pozzanghere. E poi il sole a illuminare un arrivo che ci ha fatto letteralmente impazzire.

Abbondanza: troppo di tutto. Di superlativi, emozioni, citazioni, nomi di corridori che non entreranno in queste righe perché meriterebbero di essere nominati uno per uno. Abbondanza: nonostante Roubaix qualche anno fa risultasse la città più povera di Francia.

I corridori mummie di fango: viene in mente "stravolti", ma non rende giustizia. E poi la lotta per le posizioni, che se sei dietro anche a 200 km dall'arrivo, per te è già finita. Una corsa dove la selezione non si fa da dietro, ma davanti, in mezzo, ovunque. I corridori che nei settori tracciati dalle pietre sbandano come impazziti.
E non c'è stata mai tregua. Da averne abbastanza a un certo punto. A 130 km dall'arrivo è già un testa a testa tra tutti, nessuno escluso. A 55 km dall'arrivo Moscon partiva e si pensava che la Roubaix oggi fosse sua. A 26 km il punto di rottura: la corsa, maledetta, lo respingeva. Forava, Moscon, poi cadeva, poi si piantava e veniva sorpassato da quei tre: un dramma. Troppo di tutto. E allora la sceneggiatura prendeva fuoco.

Il mais, poco prima del finale, è alto oltre due metri, inusuale agli occhi di chi ha mai visto una Parigi-Roubaix. Colbrelli, van der Poel, Vermeersch tre esordienti qui, gli passano di fianco come schegge intinte nella melma, come se appartenessero da secoli alla povera Roubaix.

Vermeersch che pesa 80 chili in tutto, oggi qualcosa in più con tutto quel fango addosso; van der Poel che rende il ciclismo un lungo viaggio verso la meraviglia e ci fa dire cose come "oggi ci si diverte", "oggi non mi perdo la corsa per nessun motivo al mondo". E poi Colbrelli che l'ha fatta grossa, e chi se l'aspettava.

Una giornata in cui, fossimo masochisti, avremmo voluto pedalare insieme al gruppo o a ciò che restava di quell'essere metaforico sgretolato a ogni metro di corsa.
"L'unico rimpianto - scrisse un giorno qualcuno a proposito del gruppo che transitava sui Campi Elisi - è stato non essermi visto passare".
Oggi quella frase calza a meraviglia: che bellezza il ciclismo, cresciuto come un frutto nella terra dell'abbondanza. Grazie epica Roubaix, grazie meraviglioso ciclismo, grazie Colbrelli. Grazie a tutti pazzi, in senso positivo, corridori.

Foto: ASO/Pauline Ballet


Sopra Trento e poi brindare - TRENTINO 2021 - DAY 6

Sopra Trento c'è questo paesino, Povo, che ci arrivi a piedi uscendo dal centro storico. Si sale ed è facile all'apparenza anche a farlo in bici, eppure, giro dopo giro, mette a nudo forma e difetti dei corridori in gara. I margini, poi, sono accecanti: tifosi ovunque come una di quelle feste che ti aspetti in Belgio e che invece ritrovi in un paesino sopra Trento.
In cima, una decina di minuti prima del passaggio della corsa, arriva un bimbo vestito da piccolo ciclista. Spinge un rapportino, mulina le gambe e tutta quelle gente in festa lo acclama come una gradinata esultante: siamo sul punto più alto e «dopo la curva spiana». Mai modo di dire fu appropriato.

È il tratto più duro, dove Evenepoel cercherà in tutti i modi senza riuscirci di staccare Colbrelli, e lì è parcheggiato da un po' di giorni un camper con una bandiera rossocrociata.
Appartiene ad amici e parenti di Gino Mäder, ma quando passa il gruppo è un colpo al cuore per mamma e sorella: lui è già staccato. Fa nulla, la corsa è esplosa, la corsa è folle, la corsa è corsa. Mäder fa segno "tutto ok" con la mano ai suoi tifosi. Pochi chilometri dopo si ritirerà.

La gente acclama chiunque e comunque. Fan club si sprecano: Sagan, Aleotti, un gettonatissimo Moscon, Colbrelli. Ci sono anche i tifosi di Covi con parrucche tricolori che mi raccontano di seguire tutte le edizioni del Mondiale di ciclismo dagli anni '80. «Tranne quelle che disputano oltre oceano» specificano. E in una di queste gare è nato pure un gemellaggio con un fan club norvegese.

Oggi Covi non è presente, è riserva, ma sperano di vederlo al Mondiale, la forma c'è mi dicono: nei giorni scorsi ha battuto il suo record personale su una salita test vicino casa. Loro comunque in Belgio, Covi o non Covi, ci saranno, ci tengono a precisare sorseggiando una birra in lattina: «Perché Taino è sempre presente».

Un signore con la maglia della nazionale di rugby australiana mi racconta di aver preso le ferie per venire a godersi lo spettacolo di oggi. Sua moglie lo raggiungerà domani e si fermeranno una settimana da queste parti. È belga, figlio di immigrati, dice di essere di origini della Val di Cembra, e secondo lui l'atmosfera che si respira qui oggi è come quella della Freccia o della Liegi.
Pogačar, quando passa, fa una boccaccia verso telefoni che lo filmano come fossero occhi usciti da un racconto di fantascienza; il giro successivo proverà un allungo portando via una fuga che si rivelerà quasi decisiva. Gli islandesi chiudono la corsa, ma non solo. Dopo qualche passaggio seguiranno il camion scopa salendo insieme ad alcune ragazze della loro squadra. Sorrisi, borracce distribuite, foto con i tifosi: il ciclismo è pure questo.

Il ciclismo è tavolini imbanditi di ogni sorta di cibo: ci sono insalate di riso, panini, salsiccia, patatine, ma soprattutto birra e vino. Tendoni con impianti stereo: alcuni mettono musica, altri sparano la Rai a tutto volume e si sente la voce di Ballan che racconta quello che sta succedendo in gara.

In mattinata invece c'è silenzio in zona pullman, un po' di tensione nell'aria. Sonny appare nervoso, me lo rivela un membro del suo fan club. È suo papà, che quando lo vede passare spiega: «lo vedo tirato, forse un po' troppo teso». Poche ore dopo, quando la corsa prenderà la piega giusta per lui, scaricherà quell'impressione di tensione dominando la volata a due con Remco. Diventa campione europeo accompagnato dal boato di tutta Piazza del Duomo.

Alla partenza, invece, un tifoso ferma Trentin e gli dice: «oggi si brinda», in barba alla scaramanzia. Trentin risponde, sorridendo: «brindiamo due volte, stamattina, ok. Ma l'importante sarà farlo stasera».

Foto: Bettini


Il morso del Cobra

Lasciatecelo dire: vedere Sonny Colbrelli correre come ha corso oggi, a pochi giorni dagli Europei in Trentino, lascia spazio all'immaginazione. E poco conta che si tratti soltanto del Benelux Tour, dovremmo tornare a entusiasmarci senza fare le pulci a ogni emozione.

Sonny Colbrelli solletica l'immaginazione come ogni ciclista che parte da solo in fuga quando al traguardo mancano ancora molti chilometri e gli altri si stanno studiando. Come ogni "uomo da solo al comando". La sua maglia è verde, bianca e rossa, avrebbe detto molti anni fa Mario Ferretti. Noi lo abbiamo pensato, ve lo diciamo.

Il Cobra che parte ai cinquanta chilometri dall'arrivo di Houffalize insieme al compagno Mohorič e allo svizzero Hirschi e forse potrebbe anche starsene tranquillo e sfruttare la superiorità numerica per portare a casa il risultato. Invece no, si volta verso il compagno di squadra e gli dice: "Uno scatto per uno e lo stacchiamo". Gioco di logoramento.

Lo svizzero non riesce a reggere la frustata di Colbrelli che, ai venticinque dal traguardo, sceglie la solitudine e saluta la compagnia. Hirschi subisce il gioco di Mohorič, un perfetto alleato del fuggiasco: dapprima rallenta il ritmo, provoca, innervosisce, poi, al rientro del gruppetto guidato da Tom Dumoulin rompe i cambi e favorisce l'assolo. Un assolo sudato, senza un attimo di tregua, col cuore in gola, perché dopo venticinque chilometri di fuga vuoi vincere.

"Non avevo mai fatto qualcosa di simile in vita mia. Me lo ricorderò sempre. Spero solo di recuperare per domani". Fra meno di ventiquattro ore avremo la risposta, ma non è ciò che più ci interessa. Già, perché quando Colbrelli decide di inventare non si ferma molto facilmente e giornate così possono solo contribuire ad accrescere l'immaginazione.
La sua e la nostra, perché tra pochi giorni c'è l'Europeo. Non dimentichiamolo.


Sonny Colbrelli: «Di ritorno dal lavoro, a tavola con papà»

A Sonny Colbrelli non è mai piaciuto studiare. Lo ammette candidamente, sorridendo e ripensando ai momenti fra i banchi. Non gli piaceva studiare, sì, ma la determinazione e la voglia di fare non gli sono mai mancate, sin da ragazzo: «I miei genitori mi hanno sempre detto che avrei dovuto darmi da fare: non potevo stare a far nulla o a rigirarmi i pollici. Se non volevo proseguire la scuola, dovevo iniziare a lavorare. Probabilmente questa cosa ha sempre fatto parte di me, l’ho assimilata: in estate, da ragazzino, andavo ad aiutare mio papà al lavoro. Al mattino stavo con lui, mi piaceva. Difficilmente mi avresti visto a perdere tempo». La bicicletta arriva per caso e, questa volta, parliamo proprio del mezzo meccanico, non del ciclismo come sport: «Era una bicicletta comprata con la raccolta punti della spesa. Non immaginarti chissà cosa. Del resto, sino a quel momento, avevo giocato a calcio e sciato: sciare mi piaceva ed ero anche abbastanza bravo. Nel tempo libero andavo a pesca». Succede che in provincia di Brescia c’è una gara di mountain bike, una gara di paese, nulla di che, e Colbrelli partecipa. Nessuno se lo aspetta e forse nessuno attribuisce un gran significato alla cosa, ma Colbrelli vince. Il primo incredulo, a ripensarci, è proprio lui: «Era una boutade. Un gioco nato per caso e che pensavo finisse nel giro di qualche domenica. Da ragazzino ero davvero goloso, avevo diversi chili di troppo, ero ”tozzo” a livello di corporatura. Non si era mai visto un ciclista così». La domenica dopo torna e fa bene in una gara dalle condizioni atmosferiche decisamente avverse: «Pensa che stavano per sospenderla per brutto tempo». In televisione guarda le imprese di Marco Pantani e qualcosa gli frulla per la testa: «Perché non provare a correre su strada?». La prima gara su strada è una cronoscalata, con la maglia della squadra della famiglia Frapporti: «Sì, tecnicamente era una cronoscalata. In realtà si trattava di un tracciato di un chilometro, tutto all’insù. Niente di particolare ma, tra il serio e il faceto, ho vinto anche lì».


Il ragazzo cresce, il ciclismo gli piace, ma la famiglia Colbrelli è una famiglia dai principi sani e radicati. Così lo sport è un divertimento però bisogna andare a lavorare: «Ho iniziato a lavorare in fabbrica. Facevo la mattina, dalle sei a mezzogiorno. Portavo a casa qualche soldino ed ero anche contento». Certo ma quella bicicletta prende sempre un poco di spazio in più e Sonny continua a pensarci. Fino a quando, un mezzogiorno, torna a casa dal lavoro e si siede a tavola con papà: «Avevo in mano entrambe le divise: quella del lavoro e quella della squadra di ciclismo. Guardai mio padre e gli dissi: “Quale scegli? Se scegli questa, vado a lavorare, altrimenti provo a fare lo sportivo“». Vedendo come sono andate le cose, la scelta di papà Colbrelli è abbastanza chiara: «Ma sai, tutti i genitori desiderano il bene dei loro figli ed io ero felice di correre in bicicletta. Poi papà e mammà sognano sempre in grande e ti immaginano campione. Certe volte restano sogni, non siamo tutti campioni. Il problema non è quello. Il fatto importante è mantenere i piedi ben saldi a terra. Restare quello che si è e valutarsi realisticamente». In fondo, è questo il consiglio di Colbrelli per i giovani, per chi inizia oggi: «Ho il timore che in certi casi si esageri. Tanto con le pressioni, quanto con le aspettative. I conti, però, nella vita si fanno sempre alla fine e se ti “bruci” troppo da giovane, rischi di buttare tutto all’aria». La storia di Sonny Colbrelli, invece, è una di quelle storie in cui nessun filo della trama manca. Una storia cresciuta con la pazienza del domani: «Sono contento di essere passato professionista con la famiglia Bardiani. Forse avrei anche potuto approdare un anno prima nel World-Tour, ma va bene così. Loro mi hanno dato il tempo di crescere serenamente. Mi hanno lasciato andare quando hanno capito che ero pronto per prendere la mia strada. Non tutte le squadre World-Tour hanno questo approccio con i giovani, per questo credo sia un bene che i giovani inizino dai nostri team Professional. In Bahrain mi sono trovato bene sin dall’inizio e, ora che sono quasi cinque anni che sono qui, devo dire che c’è una condivisione totale. Loro hanno capito qual è il mio spazio ed io, per contro, sono contento del programma che la squadra ha. Vivo con entusiasmo i nostri traguardi». La maturità di Colbrelli risulta ancor più evidente quando il discorso prende una piega personale: «Non è che ci siano momenti difficili particolari, localizzabili in questo o in un altro anno. Ogni anno ha dei momenti difficili, questo vale per tutti. Non è importante che i momenti difficili non ci siano, è importante capire come fare per superarli. Capire come affrontarli per continuare la tua strada. Per ripartire. Le difficoltà sono naturali».

Tra le vittorie che ricorda con maggior piacere, c’è il primo successo da professionista perché «lì ho capito chi ero e che qualcosa di buono potevo fare», e ci sono le vittorie alla Parigi-Nizza e al Giro di Svizzera. «Ogni successo è un passo in più verso la consapevolezza. Per esempio, capisci che tipo di atleta sei. Io non sono un velocista puro, se faccio una volata con velocisti puri, arrivo sesto, settimo, quarto, se va bene. L’ho capito gareggiando, provando e riprovando. Che poi è l’unico modo per capire». Il suo sogno è la vittoria di una classica, l’ideale sarebbe il Giro delle Fiandre. Forse proprio per questo ha sempre avuto ammirazione per Tom Boonen. Adesso che ha due figli piccoli, vede il ciclismo in maniera diversa e ammette che partire gli spiace: «La mia compagna mi sostiene molto e questa è una grossa fortuna. Noi ciclisti facciamo una vita nomade e tante cose sono più difficili. I miei figli sono ancora piccoli ma iniziano a capire. Chiedono: “Dove vai papà? Dov’è papà?”. Spiace. Io gli dico di guardare la televisione che papà possono vederlo lì. E spero la guardino quando sono in testa al gruppo. Tra l’altro, sono abbastanza paranoico e mi preoccupo molto, anche per piccole cose. Quando sento più la nostalgia di casa, mi ripeto che, in fondo, lo sto facendo anche per loro. Per il nostro futuro che in realtà è il loro futuro».
Tra tutti i fatti che la memoria conserva, uno Sonny Colbrelli non riesce proprio dimenticarlo e, forse, è un bene: «Quando da allievo sono passato juniores, a casa mia sono venuti i rappresentanti di tante squadre. Come era giusto che fosse: è sempre un bene ascoltare tutti. Erano interessati a me. Ci hanno offerto cifre davvero significative, cifre che certe volte fatichi a mettere insieme anche nei primi anni da professionista. Da giovane l’idea di guadagnare qualcosa ti attrae anche, fai tanti progetti e quei soldi potrebbero servirti. I miei genitori, invece, mi hanno sempre tenuto con i piedi per terra: l’importante era crescere, migliorare, e nessun ambiente sarebbe stato meglio della squadra in cui correvo, con la famiglia Frapporti. Ho continuato la mia strada, a zero euro, e oggi devo ringraziarli perché, in quello che sono, quella scelta ha pesato molto. In positivo. Tanti altri ragazzi, sicuramente più bravi di me, hanno fatto considerazioni diverse all’epoca ma oggi, purtroppo, non sono più ciclisti». Perché Sonny Colbrelli è questo: un padre, un uomo, un ciclista ma, prima di tutto, un ragazzo con i piedi per terra. E questa sarà sempre la sua salvezza.

Crediti foto: Claudio Bergamaschi