Sveglia presto, ricordi ed epiloghi azzurri
Mentirei se dicessi di avere un ricordo nitido e preciso della prima edizione dei Giochi vista: Seul '88. Chiudo gli occhi e vedo Gelindo Bordin che taglia il traguardo con il fisico come in preda a degli spasmi di fatica, si china, con una faccia che sembra un santo, e bacia per terra. Era mattina prestissimo, era la maratona. Gelindo Bordin che poi, scherzo del (mio) destino da appassionato, è cugino di Marco Canola vincitore di una tappa al Giro nel 2014.
Mi faccio più serio se ripenso invece al ciclismo olimpico: Barcelona '92, ricordo vivissimo di quel 2 agosto e della vittoria di Fabio Casartelli, così come è impossibile dimenticare Richard, Ullrich, Bettini, Sanchez, Vinokurov, Van Avermaet: ogni vittoria ben caratterizzata dai percorsi, dall'atmosfera, e dal fascino della frittura globale e totale dei Giochi.
Fascino. Ecco forse la parola che racchiude le settimane olimpiche e che stanotte (o mattina dipende dall'orologio biologico di ognuno) ci spingerà alla sveglia presto per vedere la prova in linea. Fascino dei Giochi: dove contano le medaglie, persino un terzo posto verrebbe accolto con entusiasmo. Fascino di un percorso che sale verso il Monte Fuji, roba da cartolina, poi sale verso il Mikuni Pass, roba da spaccarti le gambe, e arriva in autodromo. Fascino nel vestire la maglia della propria nazionale. Di sapere di avere a casa gente che magari non sa nemmeno chi sei, ma per una volta fa il tifo anche per te.
Imprevedibilità è il tormentone. Una corsa impossibile da leggere: farà caldo, ma soprattutto umido, ma è prevista anche pioggia e forse vento. Il percorso è duro, e nel ciclismo del 2021 non è che premia gli scalatori, premia corridori completi, da grandi giri (Pogačar e Roglič nomi ricorrenti), oppure quel fuoriclasse che è van Aert, che è un po' tutto. Ho provato a mettere assieme qualche nome e ne verrebbero fuori una trentina: sloveni, belgi, olandesi, francesi, spagnoli, canadesi, svizzeri, danesi, tedeschi, polacchi, sudamericani. Scegliete voi chi vi aggrada di più.
E mentiremmo tutti se dicessimo di non essere emozionati al pensiero della gara di domani. Sveglia puntata alle 4, e via. Colazione olimpica. Una volta ogni tanto si può, si deve, come quella volta a Seul, magari con un epilogo (azzurro) stile Barcelona o Atene.
Un bolide in attesa: intervista a Filippo Ganna
Fuori auto parcheggiate in battuta di sole. Caldo soffocante. Dentro una bici blu che poi è un bolide. Qualche sedia e un buffet. Si suda: naturale quando è il primo giorno d'estate, anche se c'è un leggero accenno di aria condizionata. Arriva Ganna e l'attesa diventa entusiasmo. Domande e foto. Verrebbe da definirlo teso, ma forse è calma, e intanto lui, qualsiasi cosa sia quella sensazione, la smorza sorridendo e lasciandosi andare a qualche battuta.
Verrebbe da definirlo tirato a lucido ma dice di non essere al massimo: «Dopo il Giro ho staccato un po'. È necessario per stare sempre sul pezzo» ci racconta.
Faccia da studente universitario fuori corso, lui più che studente potrebbe salire in cattedra, ma non diteglielo, spegnerebbe subito quell'idea soffiando sul fuoco. «C'è gente che arriva e si afferma subito. Poi però le loro carriere durano un attimo. Io non sono un pacco Prime: devo lavorare sodo per vincere. Sono cresciuto gradualmente in questi cinque anni per rincorrere i miei sogni, le mie vittorie».
A Tokyo non ci pensa, dice, non è il momento. È fatto così, anche se in gruppo lo vedi grande e grosso come non avesse timore di nulla, quando ce lo hai vicino è un ragazzo con occhiali da vista, un po' di barba di quella che cresce sui volti dei più giovani. È in maglietta e pantaloncini. «Sto ancora sudando dalla gara di ieri del campionato italiano. Deluso per la crono? Nemmeno un po'. Sapevo che quello era il mio attuale livello: ho fatto un lavoro di carico per essere pronto più avanti».
Più avanti, ma quando? Tokyo è l'obiettivo, la maglia azzurra un prestigio, pensare alle medaglie un privilegio. Ogni volta che si corre per la nazionale è una spinta in più. Un senso a tutti i sacrifici. Ogni volta come la prima volta, anche se hai conquistato cinque titoli mondiali. «La maglia azzurra che indosseremo a Tokyo ce l'ho già a casa, la volevo in anteprima. Per me è il significato di una carriera: curata nei minimi particolari, la cerniera col tricolore, la scritta in oro».
Diplomatico, dice di non dare troppo peso, al momento, a quel che sarà in Giappone: «Se stessi qui a pensare a ogni gara l'attesa mi mangerebbe e invece così gestisco le pressioni. Vado a Tokyo pensando che sarà una gara come un'altra. Certo, mica per portare un numero sulla maglia, ma consapevole di aver programmato tutto per il meglio. Magari solo alla partenza mi renderò conto di dove sono e di cosa potrò realizzare».
Quando racconti un corridore con l'attitudine alla vittoria, ti ritrovi a esaltare il gesto e magari a dare per scontato i suoi successi, ma ai Giochi Ganna avrà di che lottare. Con se stesso: dovrà resettarsi dalla cronometro all'inseguimento a squadre. Il tempo sarà amico-nemico. «I miei compagni dell'inseguimento vanno forte – racconta con un sorriso – mi hanno messo in difficoltà: sono io a dovermi adattare a loro. Alla medaglia non ci penso, intanto rompiamo il ghiaccio con la cronometro: mentalmente e atleticamente non è semplice passare da un tipo di sforzo all'altro. Anche dal punto di vista ambientale: due situazioni completamente differenti da gestire. Su strada hai il paesaggio che muta continuamente e la gente intorno, su pista hai gli spettatori, lo sguardo a terra e vedi legno su legno».
Contro gli altri: favoriti nel velodromo che ospiterà la gara olimpica «le furie rosse danesi», mentre non vuole fare nomi per la crono. «Van Aert, Evenepoel, Dennis, Dumoulin? Tutti quelli che partono sono in corsa per le medaglie».
Spiega come non ci sia un vero segreto per il successo al Giro, ma semmai ha ben chiaro qual è stato il suo ruolo: «Il mio vero obiettivo non erano le cronometro. Lo scopo di tutto era tenere alto il morale. Negli anni, maturando, mi sono accorto di avere grande capacità di fare gruppo. L'importante era stare vicini a Bernal in ogni situazione per smorzare la tensione: immaginatevi le difficoltà nell'essere sul pezzo tre settimane e giocarsi un Giro».
E la chiosa, leggera, arriva proprio sui suoi capitani: «Thomas mi ha scritto dopo la partita con il Galles: “D'altra parte, l'Italia ha stile”. Bernal invece è come un fratellino più piccolo, anche se poi alla fine vince sempre lui».
Filippo ora appare più disteso, finite le interviste, il sole fuori resta alto e le auto sembrano prendere fuoco. La sua bici, in esposizione, viene portata via. Sul tavolo qualche bottiglietta d'acqua. Firma un paio di autografi, si cambia la maglietta per una foto di gruppo, ancora sorridente, allentando la pressione di una giornata dedicata a media e sponsor. Sale in auto e si allontana. Mentre Tokyo, a migliaia di chilometri da qui, ogni giorno è sempre più vicina.
Foto: Paolo Penni Martelli
Essere se stessi in pista: intervista a Elisa Balsamo
L'intervista con Elisa Balsamo parte da uno sguardo. Elisa fissa le compagne che girano all'interno del velodromo di Montichiari e cerca un'idea per rispondere alla nostra domanda. «La verità è che non riesco ancora a immaginare la mia Olimpiade a Tokyo. Sarà perché ci ho pensato spesso e ci tengo davvero molto, sarà perché manca ancora un po' di tempo e non ho la certezza di esserci, ma ad oggi mi sembra ancora qualcosa di irreale, di troppo bello per essere vero e non voglio illudermi». Le parole tornano a fluire libere quando si parla di orgoglio e questa ragazza, timida, che ancora abbassa lo sguardo quando ti incrocia, alza quasi spontaneamente il tono della voce, quasi a sottolineare il valore di ciò che è avvenuto. «Il ciclismo non è come l'atletica. Noi non qualifichiamo le singole atlete, noi qualifichiamo la nazione. È una responsabilità: quando ti avvii alle qualificazioni il problema non è se Elisa Balsamo parteciperà a quella manifestazione specifica, il problema è se l'Italia lo farà. Fa un poco paura, non lo nego».
Accanto a Elisa, su un tavolino, c'è un fumetto, Diabolik. Ci racconta che in realtà non è appassionata di fumetti, ma questo è un caso particolare. «Da bambina, nonno aveva sempre in casa diverse copie di Diabolik. Io amavo già leggere, così lo prendevo e lo sfogliavo. Non ho mai letto Topolino, per esempio. Però, appena capito in una stazione o in un'edicola e trovo Diabolik lo compro. Prima di arrivare a Montichiari ne ho comprate tre copie e ora mi manca solo questa da ultimare». L'altro volto dell'introversione, quello che ama il racconto, scritto se possibile perché la carta fa sentire sicuri. Balsamo spiega che un domani vorrebbe diventare giornalista, ancora prima però vorrebbe scrivere un libro e a questo pensa da quando era bambina. «Credo sia importante raccontare ciò che ci succede. Non possiamo sapere cosa stanno vivendo le altre persone, magari la tua storia le aiuta ad oltrepassare un momento difficile. Cerco spesso libri che raccontino storie vere, perché, alla fine, diventano il tuo esempio e ti fai forte ricordandoti ciò che hai letto. Sì, bisogna raccontare e prendersi tutto lo spazio che serve».
Non occorrono domande, perché è lei stessa ad aggiungere una parte di quella storia che tanto vuole raccontare. «Sono una perfezionista, ma, nonostante questo, non sono quasi mai contenta di me. Sarà un fatto caratteriale. Io dico sempre che la componente più importante del ciclismo sono le compagne e non è retorica. Per come sono fatta, senza loro al mio fianco, probabilmente avrei già smesso. Di sicuro non avrei ottenuto tutti i risultati di cui parliamo. Sento la necessità di qualcuno che mi sproni, che mi faccia capire che devo crederci, che quello che immagino può succedere». Così è accaduto al mondiale su pista, nel 2019, quando Balsamo non è stata all'altezza dell'atleta che avrebbe voluto essere. «Avevo sbagliato preparazione e sono arrivata stanca, così ho fallito l'obiettivo. Io penso molto, rimugino molto e quella delusione mi ha lasciato a terra per settimane. Poi è tornato l'entusiasmo, è tornata la voglia di provarci».
Elisa Balsamo racconta che in gara cerca spesso con lo sguardo Chiara Consonni. «Ci conosciamo da tanti anni e siamo completamente diverse ma c'è una chimica particolare fra noi. In corsa ci capiamo alla perfezione, siamo sintonizzate. Quando sono io a vincere, le prime braccia ad alzarsi al cielo sono le sue, poco dietro di me. Succede dai mondiali di Doha».
Per raccontarci meglio la corsa in pista, Balsamo ci mostra i suoi scarpini. «Vedi? Nelle discipline di gruppo, quando osservi le scarpe a fine corsa le vedi striate, sfrisate. È il contatto fra noi a renderle così. L'adrenalina non te ne fa rendere conto ma sfiori ogni manubrio. Molti mi chiedono se non mi fa paura l'idea di essere senza freni. Bene, se avessimo freni ci faremmo molto male perché ad ogni contatto l'istinto sarebbe quello di frenare. Invece sappiamo che per accelerare si scende nel lato basso dell'anello e per frenare si sale».
Sostiene che la nostra nazionale ha come punto a proprio vantaggio il fatto di praticare anche strada perché molti meccanismi si ereditano da lì. «Non a caso facciamo molto bene nell'omnium da quando non ci sono più prove individuali. Credo ci sia da lavorare sul quartetto e sulla madison. In quest'ultima serve molto la tecnica oltre alle gambe e questa si acquisisce col tempo. Un buono spunto può venire dalle atlete inglesi che sono molto brave in questo campo».
In fondo, Elisa Balsamo si sente sicura in ogni velodromo e trova la forza per fare anche ciò che, per insicurezza o timore, non farebbe nella vita di tutti i giorni. Questo è il suo segreto. «La prima volta che sono stata in un velodromo a Torino, dimenticandomi di non avere i freni, sono caduta, una brutta caduta. Mi faceva male dappertutto, ma sai qual è la prima cosa che ho fatto? Mi sono sistemata in fretta perché dopo pochi minuti sarebbe partita un'altra gara e non potevo perdermela nonostante tutte le sbucciature. Ci ho pensato parecchio e ho capito che, nonostante tutto, io sono proprio quella ragazza lì».
Foto: Paolo Penni Martelli
Quel sogno chiamato Olimpiade: intervista a Martina Alzini
Martina Alzini ha iniziato a vincere sin da quando era bambina. Aveva solo sette anni quando, nel 2004, al termine di una gara, un giornalista le chiese quale sarebbe stato il suo sogno. «Risposi di getto che da grande avrei voluto partecipare alle Olimpiadi. Mia madre non la prese molto bene. La sera, in disparte, mi disse: “Si tratta di umiltà, Martina. È come se, appena iniziato a lavorare, dicessi che sogni la pensione”. Insomma, da quel giorno non lo dissi più, ma se penso anche solo alla possibilità di essere a Tokyo, mi si rompe la voce e mi viene la pelle d’oca».
Con mamma, Martina non ha più parlato di quel giorno ed oggi, ridendo, ammette: «Sto aspettando il momento giusto per ricordarglielo. Se le cose vanno come spero, potrebbe non essere lontano». Parole da cui trapela felicità, perché, prima di tutto, Martina Alzini è una ragazza felice. Sarà perché, come dice lei, fa un lavoro che la fa sempre sentire a casa, in famiglia, perché la bicicletta è di famiglia. «A tre anni ho voluto che i miei nonni mi togliessero le rotelle dalla bicicletta e solo quel cortile sa quante ne ho combinate. Quando succede così, poi, ogni volta che riprendi in mano la bici, anche a centinaia di chilometri di distanza, la mente torna lì e tu ti senti ancora quella bambina».
La forza dei ricordi e le radici che hai piantato ti tengono stretta, anche se le cose, inevitabilmente, cambiano. «Si inizia per gioco ed è giusto così. Guai a togliere ai più piccoli le domeniche spensierate nei parchi o in gara. Se quando penseranno al ciclismo, penseranno a quei tempi, avranno sempre un bel ricordo e non lasceranno mai la bicicletta. A volte la detesteranno, come accade a me, ma torneranno sempre in sella. Quei giorni gli daranno la forza per andare oltre».
Ed è proprio negli istanti di odio verso il proprio sport che nasce la consapevolezza. «Non è facile arrivare nel gruppo delle élite. Devi confrontarti con delle campionesse, con ragazze molto più grandi di te, a volte con mamme. Devi riconoscere i tuoi limiti, altrimenti la vita te li sbatte in faccia. Certo non è semplice ammettere che non sei portata per una certa gara o che quello che hai sempre sognato in realtà non è realizzabile, tuttavia, se non hai il coraggio di dirti la verità, non cresci». Crescere, per Alzini, vuol anche dire essere coraggiosi, imparare ad accogliere le critiche ed i consigli in maniera costruttiva. «Ho avuto la fortuna di crescere “sportivamente” con Marta Bastianelli. Lei è madre, non so come fosse prima della nascita di Clarissa, so com’è oggi ed è per questo che la chiamo “mamma Marta”. Sa insegnare con una cura rara, se hai voglia di imparare, solo guardandola diventi grande».
Crescere è faticoso, ti impone arbitrarie verità ma anche nuove possibilità. «Da giovanissimi si desidera tutto ed i sogni sono una sorta di massa informe, da adulti, forse, se ne hanno meno e molte ambizioni si lasciano per strada, ma i sogni che restano hanno una forma ben chiara, diventano progetti ed inizi a lavorarci». Lo zio di Martina gestisce una squadra di paraciclisti in handbike e lei ha imparato a lavorare in un certo modo proprio osservando loro. «Ho iniziato a conoscerli quando avevo solo pochi anni e a forza di vederli ho fatto mio un poco del loro modo di essere. Io dico che hanno una voglia incredibile di raggiungere dei traguardi. Ecco, a noi ogni tanto questo manca. Così passiamo il tempo a lamentarci, senza averne alcun diritto, perché siamo fortunati, solo che non lo vediamo».
Il suo lavoro è iniziato dalla pista, da un velodromo di Busto Garolfo, per poi transitare da Montichiari. Forse sarà proprio la pista a portarla a Tokyo, ma non è questo il motivo per cui Alzini la consiglia a tutti i genitori. «Io ho iniziato a girare in pista perché potevo pedalare tranquillamente senza la presenza delle auto. L’insicurezza stradale porta molti ad allontanarsi dal ciclismo. Perché non torniamo nei velodromi o nei boschi in mountain bike? Quando si prende confidenza con il mezzo, si va anche in strada».
L’Olimpiade, in ogni caso, sarà un tassello importante ma non un punto di arrivo. Martina è chiara: «Sarà una base per continuare a costruire con più convinzione, non un motivo per sedersi sugli allori. Non fa parte del mio carattere». Qui l’affondo: “Io non sono solo la ragazza che vedete sui pedali. La mia realtà quotidiana è ricca di sfumature, come il mio carattere. In bici sembriamo tutte forti, grintose, senza paure. Non lo siamo ed è bene ricordarselo e ricordarlo».
Fin dai tempi delle superiori Martina Alzini amava lo studio delle lingue e si immaginava viaggiatrice, una volta adulta. Oggi, che grazie al ciclismo ha viaggiato e continua a viaggiare, sa qualcosa in più. «Quando sei abituata a viaggiare, perdi la brutta abitudine, che spesso si ha, di giudicare “normali” o “corretti” solo i comportamenti che sei abituata a conoscere. Ti rendi conto che molte volte noi stessi sembriamo strani agli altri e capisci quanto si possa soffrire a essere considerati diversi. Viaggiare è una delle più grandi possibilità di comprensione della realtà che l’uomo ha».
Foto: Paolo Penni Martelli
Verso Tokyo e oltre: intervista a Dino Salvoldi
L’esplosione della pandemia da Sars-Cov2, la scorsa primavera, ha scombussolato anche i piani della nazionale italiana femminile su pista, il tutto alla vigilia delle Olimpiadi di Tokyo, poi slittate al 2021. Non appena è stato possibile tornare ad allenarsi a Montichiari, Dino Salvoldi, C.T. della nazionale, ed il suo staff, hanno avuto subito chiara la necessità di variare l’intensità degli allenamenti. Ed è proprio da qui che siamo partiti, quando, durante il raduno del 24 febbraio al velodromo di Montichiari, il C.T. ha approfondito con noi lo stato dell’arte della pista femminile, in questa stagione divenuta per cause di forza maggiore, anno olimpico. «In questo periodo tutto ciò che si programma deve tenere presente un calendario in continua modificazione. Se è vero che l’Olimpiade è il traguardo finale, è altrettanto vero che gli step per raggiungerla nella miglior condizione possibile passano tanto attraverso gli allenamenti quanto attraverso le competizioni ed entrambi sono essenziali per mantenere alto sia il livello tecnico-tattico che quello più prettamente prestazionale».
Per quanto concerne il primo punto, Salvoldi si ritiene soddisfatto degli accordi raggiunti con le squadre delle ragazze: durante la settimana i team danno piena disponibilità alla federazione per i raduni, di durata più breve, e durante il fine settimana la federazione si impegna a favorire lo svolgimento delle gare con i club di appartenenza.
«Si tratta di un fattore storico, nessuna invidia per l’erba del vicino ma le situazioni sono differenti. Nazioni come Stati Uniti, Canada e Australia, le potenze della pista, hanno una squadra che lavora tutto l’anno insieme e che dà priorità alla pista. Da noi questo non è possibile in quanto la prevalenza della strada si fa sentire. Bisogna accettare questa situazione e lavorare con più intensità dove necessario. Soprattutto, dopo che durante il primo lockdown, con l’uso e talvolta l’abuso di cicloergometri e rulli si sono verificati importanti squilibri fra chi si era allenato troppo e chi si era allenato troppo poco». Questa intensità Salvoldi la traduce tanto in un aumento del numero di raduni, quanto in una spiccata attenzione ai dettagli tecnici che possa, almeno momentaneamente, supplire al secondo punto, ovvero al calendario scarno. «Stiamo lavorando sul quartetto, con allenamenti di squadra che potenzino la resistenza. Nel mentre simuliamo anche frazioni di gara, per valutare la forma fisica, compatibilmente con il periodo dell’anno in cui ci troviamo. Dall’altra parte, invece, ci concentriamo sulle qualità aerobiche e sul gesto tattico. La nostra squadra ha un livello molto elevato e la simulazione di una gara internazionale in velodromo non si disgiunge molto dalla realtà». Il calendario ha già fatto segnare i primi rinvii: i campionati europei su pista previsti per febbraio saranno a giugno, mentre le prove di Nation Cup previste, una al mese, da aprile a giugno sono ancora incerte. In più mancano tutte le gare di Madison che si sarebbero dovute tenere in Europa e che subiscono cancellazioni quasi quotidianamente.
«Questo per noi è un grosso problema. Il talento qui abbonda ed i risultati parlano per noi, a scarseggiare è l’esperienza. Si tratta di un gruppo molto giovane ed in questi casi non c’è nulla come la specificità e la ripetitività di ogni singolo meccanismo per imparare. Più un’atleta è abituata ad un frangente di gara, più riesce a economizzare sul gesto tecnico, a risparmiare energie e nel contempo ad acquisire quell’occhio e quell’istinto che al cospetto delle eccellenze mondiali fanno la differenza. L’esperienza si acquisisce con lo scorrere del tempo e con gli errori, bisogna solo aspettare e non allentare l’attenzione». Nonostante questo, Dino Salvoldi lo dice in maniera chiara e schietta: non sono ammessi alibi ed è necessario farsi trovare pronti a qualunque situazione. «Non siamo gli unici ad essere in questa condizione, la pandemia ha colpito tutti. Per questo bisogna continuare a credere nel lavoro quotidiano insieme, dandosi dei traguardi a breve e a lungo termine. Il bicchiere lo vedo mezzo pieno e credo tutti abbiano questo dovere. Per assurdo questo rinvio delle Olimpiadi potrebbe non essere un male: in questo anno il gruppo si è ampliato, sono arrivate ragazze nuove che stanno crescendo con noi. Per fare dei nomi: atlete come Chiara Consonni e Silvia Zanardi, che un anno fa non avrebbero avuto alcuna possibilità di convocazione, oggi sono fra le papabili azzurre olimpiche».
Questo, però, continua Salvoldi non deve indurre in un errore comunque grave. «Quando mi chiedono cosa mi aspetto dalla Olimpiadi di Tokyo rispondo sempre che per noi devono essere un passaggio chiave in vista di Parigi. Non sappiamo neanche noi cosa possiamo fare esattamente. Nel quartetto credo che si sia indietro rispetto ad altre nazioni. Per quanto concerne invece Madison e Omnium il livello è già pienamente soddisfacente. Il punto cruciale sono le altre discipline veloci che al momento, stante il regolamento in vigore, non ci permettono di avere atlete al via. Questi allenamenti servono anche a potenziare quegli aspetti e a far vedere quanto possiamo dare. La giovane età si fa sentire anche in questo frangente». Il gruppo ha un’età media molto bassa, basti pensare che la ragazza con più esperienza è Maria Giulia Confalonieri che ha appena ventotto anni, ma si conosce e lavora assieme da molto tempo, per Salvoldi questo è un punto a favore delle azzurre.
«L’età similare consente a queste ragazze di attraversare fasi di vita quasi identiche, per questo si capiscono in pista ma, ancor prima, condividono aspetti di vita quotidiana. In ambito internazionale questa conoscenza agevola molto il lavoro». Non solo la conoscenza è affinata fra le ragazze stesse, ma anche con Salvoldi, ormai, si è stabilito un rapporto professionale consolidato. «Alcune di loro le conosco da quando avevano quindici anni. Le squadre cambiano, le compagne cambiano, la nazionale è sempre rimasta un punto fermo. Siamo cambiati assieme e forse per questo ci capiamo meglio. La chiave di tutto risiede nell’estrema franchezza nel dire le cose». Dino Salvoldi non si nasconde, il momento che ancora oggi lo spaventa maggiormente è quello delle convocazioni, le notti prima dell’ufficializzazione delle scelte il sonno fatica a venire. «Le decisioni le comunico singolarmente e cerco di apportare motivazioni che possano farle comprendere se non accettare. Certe volte ci si muove su un filo sottilissimo e la differenza è fatta da sensazioni e possibili svolgimenti di gara, per cui è anche più difficile spiegare. La consapevolezza è indispensabile: la ragazza che non viene scelta sa che la decisione è stata presa secondo criteri di correttezza ma sa anche che in qualsiasi altra nazionale non solo sarebbe stata scelta, ma probabilmente anche medagliata. L’esclusione non si accetta mai pienamente, ma così si rende sopportabile». Il C.T. spiega sempre alle atlete che l’esclusione non è personale o irrimediabile, riguarda solo l’appuntamento specifico. «Cerco di convincerle a focalizzarsi su altri traguardi e le sfido a farmi cambiare idea».
C’è un’altra parola chiave che Dino Salvoldi utilizza in vista delle Olimpiadi: rischio accettato. «Per i discorsi fatti sino ad ora, si potrebbe essere indotti a credere che, visto il livello alto, saranno sempre scelte le migliori in assoluto. Se fosse così, correrebbero sempre le stesse atlete. Ogni commissario tecnico sa che, se vuole far crescere la squadra, ha il dovere di correre alcuni rischi calcolati per permettere a tutte le atlete di gareggiare. Altrimenti si potenziano solo i risultati delle eccellenze e non si aiutano le altre a migliorare. Dobbiamo anche pensare che per queste ragazze la nazionale vuol dire visibilità ed i successi ottenuti con la nazionale sono quelli che consentono i maggiori salti di livello anche nelle squadre di club. Se avranno pazienza e continueranno a migliorare, tutte queste atlete sono destinate a grandi traguardi».
In questa comunicazione, l’esperienza è la base. «Io vengo dagli anni di Antonella Bellutti, un’atleta straordinaria, con numeri assurdi. Per questo, almeno all’inizio, ero portato a scegliere molto sulla base dei numeri. Negli anni ho capito che quei tempi non erano più replicabili e che le scelte avrebbero dovuto sempre prendere in considerazione il lato umano e motivazionale. Ci sono caratteristiche caratteriali personali simili in ragazze e ragazzi. Poi ci sono caratteristiche che pertengono specificamente alla sensibilità femminile: gli errori vanno comunicati con maggiore tatto, con vicinanza e soprattutto con un linguaggio diverso, altrimenti i danni sono irreparabili». Salvoldi dà un rapido sguardo alle ragazze che nel frattempo si sono preparate per continuare l’allenamento, ci saluta, si alza, va al tavolo predisposto al centro del velodromo ed inizia a spiegare la prossima fase della preparazione: venerdì 23 luglio 2021, il giorno di inizio dell’Olimpiade, si avvicina sempre più e non c’è tempo da perdere.
Foto: Paolo Penni Martelli