Il divertimento per De Marchi

Che a De Marchi venga bene vincere con la pioggia è un dato di fatto. Pioveva (anche) qualche anno fa al Giro dell'Emilia. Pioveva a dirotto ieri sul traguardo - e per la verità su tutto il tracciato - della Tre Valli Varesine quando nella volata a due con Formolo («Beh volata è un parolone. Più che altro una moviola degli ultimi 200m» ci dirà scherzosamente) l'ha spuntata lui, il "Rosso di Buja", il "Capitano" come lo chiamano orgogliosi i ragazzi del Cycling Team Friuli, la squadra che lo ha lanciato, la squadra dove De Marchi resta simbolo e punto di riferimento, per carisma e dedizione, trasparenza e sensibilità, per il suo spirito di appartenenza.
Ha vinto poco in carriera (6 successi da professionista), ma benissimo: tappa al Delfinato, 3 tappe alla Vuelta e poi, per l'appunto, Giro dell'Emilia (era il 2018) e Tre Valli Varesine, ieri. Sta vivendo un finale di stagione dove, nonostante il brutto incidente al Giro d'Italia, sta correndo come meglio sa fare: da protagonista. Con la sua squadra di club e con la nazionale. Serio e affidabile, come direbbe lui: un agonista.
Su #Alvento16 lo avevamo intervistato. Un'intervista densa e ricca di spunti che ci ha dato la possibilità di far conoscere l'umanità di questo ragazzo classe '86 che raccoglie risultati importanti quando corre, ma che una volta sceso dalla bici ha tante, tantissime cose da raccontare, arguto e mai banale. E questa che riportiamo è davvero soltanto una minima parte:
«Ci si diverte di meno nel ciclismo? Dipende. Uno può continuare a divertirsi anche se le regole cambiano. Forse abbiamo perso la capacità di essere liberi nel modo di interpretare una corsa. Quando le tappe sono noiose, la responsabilità è nostra: siamo noi corridori a renderle così. I tempi sono cambiati, mi sta bene, ma dovremmo arrivare al punto in cui siamo noi a dirci chi se ne frega oggi corro anche per fare terzo. Quest'anno al Tour of the Alps mi sono trovato in fuga con Nicolas Roche: mancava talmente poco che avremmo potuto tranquillamente mollare, alla fine un secondo o un terzo posto a me e a lui cambia assolutamente niente, però abbiamo deciso di farci inseguire dal gruppo e divertirci, e credo che abbiamo anche fatto divertire. Siamo arrivati che eravamo emozionati come se avessimo vinto».


Lo sguardo dei ciclisti

Le gocce d’acqua che, cadendo per terra, rimbalzano e rimbombano sulla salita del Montello, spostate dal vento, sono come spilli che trafiggono. Gli ombrelli che si trovano dal lato opposto della strada, quello esposto alle raffiche, incassano le frustate d’aria, si gonfiano da sotto e vengono divelti. È proprio una strana estate. La gente resta lì. Non sono poi così tante persone, è vero. La situazione attuale lo impedisce. Lo sanno. Un ragazzo dice alla sorella (crediamo): «Guarda che stavolta devi gridare anche tu al passaggio. Devono sentirci». Lei ammette di non conoscere nessuno. Probabilmente è lì solo perché lo voleva lui. Succede, no? La risposta è franca: «Tu grida! Fai rumore. Fatti sentire. È imbarazzante questo silenzio». E la ragazza lo ascolta. Appena vede i fuggitivi sbucare dalla semicurva si lancia in un “alé” che toglie un poco di fiato anche a noi. All’arrivo del gruppo batte le mani e incita. Perché, alla fine, quando qualcuno ha bisogno di aiuto, fosse anche solo di una parola, è importante fare qualcosa, senza stare a sofisticare troppo sul cosa. Quella ragazza lo ha capito.
Non è l’unica. Qualche proprietario delle case lungo la salita esce, sotto la stretta pensilina dell’abitazione, ad applaudire. Altri se la sono fatta a piedi e ora si chiedono come scenderanno con questa bufera. Un signore avanti con l’età ci confessa: «Andavo anche io in bicicletta. Mi piaceva. Eccome se mi piaceva. Poi ho avuto qualche problema di salute e sono stato in ospedale. Quando sono tornato a casa, mia moglie aveva regalato la bicicletta a mio figlio perché temeva potessi farmi male. Al compleanno successivo, quando mio figlio mi ha chiesto cosa volessi di regalo, glielo ho detto: “Regalami la mia bicicletta. Per favore». Ci ha fatto tenerezza, simpatia.

Ognuno racconta quel che può e poi prova ad incitare i ciclisti. La salita impone un’andatura lenta e gli atleti hanno modo di sentire le parole degli appassionati. Non solo. Ogni tanto li cercano con gli occhi. Sì, basta una frazione di secondo e guardano negli occhi chi li incita dicendo che ormai è quasi finita. Qualcuno ghigna. Come dicesse: «Ma se siamo solo al primo giro? Cosa vai raccontando?». Il lavoro del ciclista, come scriveva qualcuno, non consente menzogne. Lo sa, lo sa che gli stanno mentendo spudoratamente ma apprezza il tentativo. Sa che chi gli urla così ci crede davvero. Altrimenti non starebbe lì con delle maniche di camicia che a strizzarle sarebbero come appena uscite dalla lavatrice, senza centrifuga.
Sul nostro stesso treno una ragazza sfinita si accovaccia sul sedile, facendosi da cuscino con un sacco di zaini che teneva in spalla. Sul braccio ha diverse scritte. Non riusciamo a leggere bene. Sembra latino. Eccolo: amor vincit omnia. Chissà, forse era anche lei lì, sul Montello. Non la abbiamo vista ma per come è stanca e con i capelli fradici di pioggia potrebbe essere. Magari era davvero lì. E se non fosse così non importa. Perché avrebbe potuto esserci. Perché se per caso leggesse questo racconto, capirebbe al volo ciò che intendiamo. Questo è certo.

Foto: Claudio Bergamaschi