Il giorno meno atteso

Sono quasi le tre del pomeriggio quando Marc Soler parte. Eccolo: il solito Marc Soler, un po' filibustiere, che prova un attacco sgangherato tutto spalle che si muovono a ritmo di pedalata in salita, e faccia da vecchio ciclista catalano, di quelli già in pensione e che ritrovi in bici sulle strade il sabato mattina.

Il gruppo pare in rimonta, quelli davanti, tanti che sembrano troppi, filano che è una meraviglia, e in mezzo si mette lui. Sono quasi le tre del pomeriggio e all'apparenza è uno di quei giorni lì, quelli superflui per farne una sceneggiatura, quei giorni dove non sarebbe potuto accadere nulla di che e invece.

Davanti succede che un monegasco (!) va a conquistare punti su punti sui gran premi della montagna di cui è disseminata la tappa dei Paesi Baschi con arrivo a Bilbao; un ragazzo, Victor Langellotti, chiamato all'ultimo momento dalla sua Burgos-BH, utile per sostituire il capitano, Madrazo, che si è beccato il Covid alla vigilia della partenza della Vuelta da Utrecht.

Per non far nascere rimpianti, Langellotti fa quello che avrebbe fatto l'occhialuto compagno di squadra che oggi sarà stato davanti alla tv a soffrire tra una partita di playstation (la sua grande passione) e l'altra e un attacco di Marc Soler. A fine tappa Langellotti vestirà quella maglia che fu di Madrazo qualche stagione fa per un paio di settimane e sarebbe superfluo dire che mai nessun atleta del Principato di Monaco ne aveva vestita una.

Intanto Marc Soler rientra sul gruppo dei fuggitivi mentre da dietro quello dei migliori decide che oggi la fuga sarebbe potuta andare all'arrivo, dopo la polemica di ieri sulle moto che avrebbero favorito quelli dietro a discapito dei facinorosi davanti.

Marc Soler attacca di nuovo. Sono le 16.46. Marc Soler si materializza pochi minuti dopo alle spalle di Jake Stewart, veloce quanto un pilota di Formula Uno e sorprendentemente in avanscoperta in una tappa classificata di media montagna

Marc Soler riparte e resta solo. Sono passate da poco le 17. Scollina in testa con un vantaggio esiguo. Gestisce in discesa mentre da dietro sembrano farsi grandi così, talmente sono vicini. Agli occhi di Marc Soler, che si gira, e si gira, e si gira da farsi venire il torcicollo, saranno sembrati enormi.

L'ultimo chilometro lo viviamo con le stesse sensazioni di chi stava pedalando in quel momento con il numero 171 appicciato alla maglietta della UAE Team Emirates. Quello tra i protagonisti di un documentario sulla sua ex squadra, la Movistar; accusato di avere un carattere morbido, ma che poi aveva concluso una tappa del Tour de France con le ossa rotte e un'altra chiusa a decine di minuti dal gruppo, prima di ritirarsi, in preda al mal di pancia, solo qualche settimana fa.

Sembrano riprenderlo quelli dietro, quando mancano poco più di mille metri al traguardo che detta così sembra un'infinità; sembrano riprenderlo, alimentati dalla voglia irrefrenabile di distruggere il sogno altrui, ma poi rallentano in preda non si sa che e Marc Soler vince, con un numero che ne certifica il talento, riportando una vittoria in un Grand Tour in Spagna dopo 121 tappe consecutive. Non poteva esserci corridore più strano a interrompere la striscia.

Un gesto alla fine, anzi due. Prima il pollice in bocca con gli inseguitori sgranati dietro a giocarsi la volata per il secondo posto, e poi una sorta di liberazione.

Sui suoi gestacci passati e litigi, con annessi "vaffa" all'ammiraglia, sui suoi attacchi scriteriati, il suo carattere un po' così a detta di chi lo conosce bene, le sue vittorie e le sue debacle, ci si potrebbe aprire un capitolo intero, ma oggi è quel giorno lì, quello meno pensato, quello del nostro cavallo pazzo preferito, quello di Marc Soler, strano catalano.


Il coraggio del ritorno: intervista a Diego Ulissi

Se Diego Ulissi dovesse raccontare qualcosa del suo ritorno alle corse, dopo la miocardite riscontratagli a dicembre, partirebbe dal concetto di fatica. «Quando al Giro D'Italia capita la giornata in cui non stai bene e ti ritrovi in coda, magari in una tappa dolomitica, ti viene da chiederti perché fai tutta quella fatica, chi te lo fa fare, se non sia più semplice mollare tutto e tornare a casa. Sì, perché dopo due settimane di corsa ti manca anche l'uscio di casa tua. Te lo chiedi perché, fino a quando sei in salute, non immagini neppure che tutto questo potrebbe finire». Poi arriva il giorno in cui ti ritrovi a pensare a cose che fino ad un'ora prima sembravano assurde. «Io sono davvero arrivato a credere che non avrei più potuto riprendere a correre. Mi mancava anche solo l'idea di attaccare il numero alla schiena la mattina o il tirare fuori la bicicletta dal garage per l'allenamento. È normale che dopo un’esperienza così veda il ciclismo in un altro modo».

E quando la tua vita di sempre rischia di cambiare, se hai una famiglia, non devi solo accettarlo ma anche spiegarlo a chi hai accanto e sforzarti di fare in modo che questa situazione non sia troppo difficile da sopportare per chi ti vuole bene. «Certe volte mi assaliva lo sconforto, tendevo a chiudermi, vedevo tutto negativo. In quei momenti, quando perdi lucidità, devi essere capace di ascoltare quello che ti dicono i tuoi familiari e di fidarti. Non devi credere che lo facciano solo per consolarti, devi sapere che loro sono davvero convinti tu possa tornare».

Ed un conto è quando si parla di adulti, ma come è giusto fare con un bambino? Cosa è giusto dire? Diego Ulissi se lo è chiesto in uno dei suoi giorni più difficili. «Anna ha appena un anno e non poteva capire la situazione. Lia, invece, ha capito tutto. Un giorno, mentre ero sul divano a guardare una gara, si è avvicinata e mi ha detto: “Papà, ma tu non corri più?”. Avrei voluto dirle di stare tranquilla che papà sarebbe tornato, ma non potevo. Le avrei mentito perché nessuno poteva saperlo. Era giusto che anche lei fosse informata. Così le ho detto che non doveva preoccuparsi perché io stavo bene e che, se proprio non fossi più tornato in sella, avremmo avuto più tempo per stare vicini».

Ulissi ricorda bene il giorno in cui è tornato ad allenarsi dopo l'operazione, era il primo febbraio. «Credo si tratti di una questione di equilibrio. Sicuramente il mio è un lavoro totalizzante, tuttavia non può e non deve diventare l'unica ragione della tua vita. Altrimenti crolli. Quando sei a casa devi essere capace di staccare, di non pensare per qualche ora al fatto che sei un corridore». Il pensiero del cecinese va a Tom Dumoulin e ai ragazzi che hanno lasciato il ciclismo in quanto schiacciati dalle pressioni. «Sono convinto che alcune situazioni vadano vissute per poterle valutare. Di più. Sono certo che la sofferenza non vada mai giudicata. Dall'esterno posso dire che un poco di leggerezza, nel senso migliore del termine, aiuta. Anche semplicemente per affrontare una gara. Se non “sentissi la corsa”, per dirla in gergo ciclistico, saresti irresponsabile, ma devi controllare le pressioni, non devi permettergli di annientarti. Si può arrivare alla partenza già stanchi anche solo per un fatto mentale. La mente conta più delle gambe: è in grado di infliggerti sofferenze incredibili, solo che le sofferenze della mente non si vedono subito, per questo sono più pericolose».

Se non c'è una soluzione immediata per reagire di fronte a fatti simili, di sicuro resta un punto fermo. «Il ciclismo non è tutto nella vita. Ci tante cose belle per cui vale la pena vivere ed essere felici. Molte volte tendiamo a sminuire la normalità della vita, la sua routine, cercando sempre qualcosa in più. Sbagliamo. C'è valore anche in quella normalità. Da giovani, poi, credo si abbia il dovere di cambiare strada e ripartire se non si è tranquilli, se non si è felici. Buttarsi via è l'errore peggiore».

Il corridore della UAE Team Emirates racconta che consiglia volentieri i più giovani. Con qualcuno, però, chiosa sorridendo “non serve molto”. Parliamo di Tadej Pogačar. «A parte gli scherzi, non è un ragazzo che ha bisogno di molti consigli, va talmente forte. Non solo. Riesce a conciliare doti straordinarie e capacità di restare il ragazzo di sempre, umile, con i piedi per terra. Nonostante i successi non è cambiato per nulla». Che nello sloveno ci fosse qualcosa di straordinario, in realtà, Ulissi lo ha capito sin dal primo ritiro. «Quando un giovane arriva in mezzo a corridori di esperienza, di solito è sempre un poco intimorito. Lui no. Sin dai primi allenamenti ci scattava in faccia senza alcuna remora.. Pensa che io ho fatto con lui i suoi primi allenamenti e la sua prima gara. In quel Tour Down Under avrei dovuto essere il capitano della squadra. Ad un certo punto, mi sono avvicinato all'ammiraglia dei direttori e, indicandolo, ho detto: “Guardate che, se questo pedala così, sono io a dovermi mettere al suo servizio, non il contrario”. In effetti poi è successo proprio questo».

Diego Ulissi scherza anche quando gli parliamo del prossimo Giro D'Italia. L'anno scorso, ad ottobre, ottenne due successi sulle strade italiane ed il pensiero di tornare ad inventarsi qualcosa c'è. «Certo che penso al Giro però serve responsabilità. Ho ripreso a pedalare da soli due mesi e la fatica, pur se piacevole, c'è. Bisognerà valutare la condizione fisica, ma se starò bene non mi tirerò certo indietro. In questi mesi ho ripensato anche alla sensazione di gioia dopo una vittoria. Non so spiegarla, non assomiglia a nessun'altra felicità. Voglio solo riprovarla».

Foto: Ilario Biondi / BettiniPhoto © 2020