La prima puntata del nostro podcast è dedicata al ciclismo sloveno. In realtà è un’analisi ad ampio raggio per capire come sia possibile che da una nazione di due milioni di abitanti, con relativa tradizione sulle due ruote, possano essere usciti nel 2020 il corridore numero uno e due nella classifica mondiale.
Di seguito il testo completo di ‘The Slovenian affair’.

Testo: Alessandro Autieri
Con il prezioso contributo di Sergio Tavcar.

Si dice che il boato che accompagna una giocata di Luka Dončić all’interno dell’American Airlines Center di Dallas si possa sentire lungo le pareti del Triglav. Come una scossa di terremoto che smuove le passioni, scende dal Monte Tricorno, passa per i laghi di Bled e Bohinj, specchi d’acqua misteriosi e incontaminati, per arrivare fino alle vie di Lubiana.

La Ljubljanica è il fiume che bagna la capitale slovena, e l’eco che arriva dai palazzetti dell’NBA si amplifica lungo il suo cammino, vibra, arrivando fino a quelle botteghe artigiane sempre in fermento, tra le bancherelle del mercato centrale, nelle splendide strade cittadine che fioriscono in mezzo all’architettura classica ma allo stesso tempo all’avanguardia creata da Jože Plečnik, artista capace di dare un tocco di genio visionario a un capoluogo con tratti più mitteleuropei che balcanici.

Lubiana, oggi, è una città aperta, più viva che mai, ricca di influenze ma dalla forte identità e che trasuda l’operosità e l’eleganza slovena e la sua voglia di farsi conoscere nel mondo.

Un numero fatto col pallone a spicchi da Goran Dragić, in maglia Miami Heat, echeggia negli occhi di un ragazzo appollaiato davanti alla televisione.
Quello stesso ragazzo che sogna nel campetto sotto casa, mentre imita i movimenti dei suoi idoli, asciugandosi il sudore che scende dalla fronte e bagna la canotta da basket della nazionale slovena, squadra tutt’ora campione europea in carica dopo il titolo conquistato in Turchia nel 2017.
Sempre quel ragazzo, o forse uno qualsiasi dei suoi coetanei, si esalta facendo pratica con i tiri da tre in quel centro polifunzionale all’avanguardia sia dal punto di vista architettonico che delle sue funzionalità e che sorge subito fuori Lubiana.

Un luogo che permette di unire l’estro slavo alla disciplina e al duro lavoro che caratterizza da secoli il DNA di questo popolo. Completato nel 2010, l’impianto è una delle tante tessere di un puzzle di segreti, mosse indovinate, semplice divenire delle cose, che rendono grande la Slovenia sportiva.

Pare che una giocata di Ilicic, stavolta con il pallone tra i piedi, provochi godimento. Estasi. Quella palla te la nasconde, lui, figlio di una tradizione slava che col pallone ha sempre mostrato di avere una marcia in più.

Slavi, uomini che hanno preferito dilettarsi nei giochi di squadra e in particolare con sfere di ogni peso e dimensione: calcio, pallacanestro, pallavolo, pallamano e pallanuoto.
Dentro di loro, si fa strada una linfa definita nadmudriti, un atteggiamento all’apparenza denigratorio che letteralmente significa irridere l’avversario, come scriveva Sergio Tavčar nel suo libro sul basket jugoslavo.
E così Ilicic prova a scacciare i pensieri negativi con quel suo sinistro che pare irreale, con una veronica, una punizione intrisa di magico realismo che si infila nel sette. A volte c’è riuscito, altre è piombato nel male oscuro della depressione che lui ha provato a mandare via attraverso lo sport – c’è riuscito, almeno in parte, o almeno così vogliono le maledette apparenze.

Eccoli i pensieri negativi!
Come quelli che girano nella testa di un ragazzo che guarda ammirato l’imponente struttura di Planizza che ospiterà nel 2023 i mondiali di sci nordico.

Quel ragazzo si prepara, sci ai piedi, a lanciarsi da un trampolino che solo a misurarlo vengono le vertigini. È un trampolino e quindi un’opportunità. E lì non puoi avere pensieri negativi, né vertigini. Perché se guardi giù, da quella striscia in pendenza ricoperta dal ghiaccio, puoi solo avere la convinzione di essere il migliore. Magari non il migliore tra tutti gli uomini, o per meglio dire, tra tutti i ragazzi, ma il migliore contro la natura, come quando la carne sfida il vento che fende schiaffi.
Ti batti contro di lei prima ancora che contro te stesso. Ora puoi solo fidarti, farti cullare e ipnotizzare dal senso delle lamine che impongono forza e attrito su quella neve mista ghiaccio che fa un rumore che sembra polistirolo sgranocchiato.

Primož Roglič è quel ragazzo o forse è solo emblema di una generazione di sportivi che arrivano dalla Slovenia per dominare il mondo nei rispettivi sport.
Primož Roglič i pensieri negativi li ha scacciati e li ha schiacciati.
Non come un cestista di tradizione slava, ma come uno sciatore di tradizione slovena che sfrutta l’impeto e lo slancio della multidisciplinarietà, per diventare, nel giro di qualche anno, il ciclista numero uno al mondo.
Multidisciplinarietà: un’altra chiave del successo, un’altra tessera del puzzle – tenetelo a mente.
Primož Roglič ha mandato via le nubi nere che si addensavano davanti ai suoi occhi e che provavano a tempestare il suo cammino. Lo ha fatto più di una volta quando sciava. O meglio, quando balzava in alto, apparentemente nel vuoto, con gli sci.
Ha iniziato così. Ha fatto pratica così. Come fanno tutti da quelle parti.

Perché se lo sci ha la sua importanza vitale, il Salto con gli Sci è una specie di rito di iniziazione.

Tra le Alpi Giulie ogni impianto ha il suo trampolino. Ogni ragazzo parte così. È una sfida, quasi un modo di essere. È radicato, diventa la base di ogni sport.
In passato, quando esisteva la Jugoslavia, nelle scuole era d’obbligo partecipare alla settimana bianca. Ora le abitudini sono cambiate, è vero, recentemente, alcuni test fisici e attitudinali che hanno fatto sui ragazzi sloveni a scuola, dimostrano come i giovani non sanno più arrampicarsi, non hanno sviluppato il sistema muscolare delle spalle e della schiena.
Cresce lo standard, la gente si imborghesisce: d’altra parte con la fine della Jugoslavia la nazione è emersa in fretta, più delle sue ex sorellastre e hanno iniziato a girare soldi e affari: ci sono aspetti negativi figli di quest’epoca e che spesso vanno di pari passo con quelli positivi.
Ma nonostante qualche cenno avverso, questo è il momento dello sport sloveno in cima al mondo.
Gira denaro e lo si sfrutta bene, e lo sport è spesso cartina tornasole dello stato di salute di una nazione: in Friuli tra i primi dieci migliori clienti nel settore turismo, quattro sono sci club sloveni.

A Portorose, paese sul mare di quasi tremila abitanti: gran parte di loro è iscritta a uno sci club.
Nello sloveno scorre ghiaccio nelle vene. Piste da sci si fanno spazio tra le arterie; paletti, trampolini, anelli, poligoni sono cellule e atomi. È una lunga tradizione che li accompagna.

«State zitti, voi, che siete un popolo di sciatori».
Per decenni gli sloveni venivano derisi così dagli altri popoli della ex Jugoslavia.

E così, Primož Roglič inizia, come fan tutti.
Arriva da un piccolo borgo vicino a Kisovec, tra Troblje e Krastnik, zona di miniere di carbone, e nel suo sangue scorre l’etica del lavoro.
Ha tredici anni. Non c’è alcuna derisione per quello che fa, né lui accampa mai scuse né alibi che diverranno tratti distintivi che lo porteranno al vertice del ciclismo mondiale.
In questo momento della storia ha solo un paio di sci larghi e piatti ai piedi. Una tuta che richiede una ricerca spasmodica dell’aerodinamica. Ci sono investimenti importanti, test nelle gallerie del vento come fossero automobili.
È sempre l’uomo contro il vento anche se viene soffiato da macchine costruite per l’occasione.

Roglič con gli sci ai piedi sapeva vincere! Poi un giorno cadde. Ed eccoli i cattivi pensieri.
Siamo a Planìzza, si diceva. Test di allenamento per le gare di volo con gli sci che dovete immaginarvela come una versione ancora più estrema di uno sport già estremo di suo.

Siamo in mezzo alle Alpi Giulie al confine con l’Italia, in una terra verde, ma così verde che quel colore è anche simbolo nazionale e si calcola come circa il sessanta percento dell’intero territorio sloveno sia ricoperto di boschi. Lubiana stessa è stata insignita nel 2016 del titolo di “capitale verde d’Europa”.

Quasi metà del territorio sloveno è considerato protetto, sono circa quindicimila i siti con lo status di luogo di interesse naturalistico e il centro storico di Lubiana è interamente pedonale. Un posto verde dove ovunque ti giri trovi parchi, montagne a delimitarne la cornice, fiumi, laghi.
Una varietà di territorio che sorprende e colpisce considerando una superficie grande più o meno come una regione italiana e la bandiera che sventola non mente: in mezzo al tricolore sloveno c’è disegnato il Triglav.
Anche così gli sloveni fanno conoscere il loro rispetto per la natura, e si preparano tutti i giorni per essere al vertice dello sport. Qualunque sia!

E le tute degli appartenenti alle nazionali dei vari sport?
Fateci caso: sono verdi, come questa terra, e bianche, come la neve. E proprio su quella neve Primož Roglič finisce per sbatterci sopra con violenza. È un salto andato male, capita purtroppo.
Capita che nel momento esatto in cui ti lasci alle spalle il trampolino, puoi sbagliare il timing nella fase di stacco, puoi prendere una folata e ti scomponi in volo, quei gesti ripetuti a memoria vanno a farsi benedire, ti sbilanci e finisci a terra.
Capita che mentre sei in alto puoi ritrovarti ancora a vedere la città sullo sfondo, l’orizzonte, un tramonto di settembre con i suoi colori sfumati dal blu al rosso, poi chiudi gli occhi e ti ritrovi a terra.
È un attimo. Sbatte la testa, Roglič, sviene e viene trasportato d’urgenza in ospedale: contusioni multiple ma nessuna frattura. Riprenderà a saltare, vincerà persino un titolo mondiale tra gli juniores e crescerà fino a gareggiare in Coppa del Mondo.

Ma Roglič ha il fuoco dentro.
Non vuole essere uno dei tanti, è arguto, vuole essere il migliore, e capisce che nel salto con gli sci non ci riuscirà.

In Slovenia, la scuola pone un accento fondamentale all’educazione sportiva. Questo è un richiamo di quello che è sempre stato alla base in Yugoslavia dove lo sport vive al centro di tutto.
Si gioca a palla principalmente, “uno sport logico per gente intelligente” scrive sempre Tavčar nel suo libro. Ma quando ci si sposta dal mare e ci si avvicina alle montagne, lasciandosi dietro l’eco di un pallone che rimbalza tra palestre e campi sportivi, oltre allo sci si scopre la bicicletta.

La bici in Slovenia ha sempre avuto una certa funzione sia dal punto di vista agonistico che sociale.
Per dire: le proteste contro il governo in Slovenia le facevano, fino all’avvento del maledetto Covid, ogni venerdì, con una grande parata ciclistica in centro città.

Se giri per Lubiana trovi di continuo persone in bicicletta: la capitale slovena è attraversata da un anello verde di ben trentaquattro chilometri da percorrere in bici: il “Sentiero della rimembranza e della fratellanza”, lungo il quale sorgono più di settemila alberi.

E Il ciclismo? Come tutti gli sport di fatica è radicato nel “Na sončni strani Alp”, ovvero il “versante soleggiato delle Alpi” come recitava lo slogan di promozione turistica della Slovenia.
Il ciclismo, sport di fatica, di polmoni, di muscoli tirati fino a mettere continuamente sotto stress ogni fibra, si addice a una società che è sempre stata sotto il dominio altrui.
Il ciclismo è costante nella pratica quotidiana e questo si riflette poi nello sport. In Slovenia si è sempre pedalato. Certo, prima c’era la cortina di ferro e non era possibile esportare talenti, ma basti pensare ai pionieri come Agustin Prosenik, nato a Obrezje, un tempo parte dell’impero austro-ungarico, oggi Slovenia.
Prosenik vinse la primissima edizione della Course de la Paix, gara che fino agli anni 2000 è stata un punto di riferimento per il mondo dilettantistico e vinta nella sua penultima edizione da Michele Scarponi.
Eravamo negli anni in mezzo ai due conflitti mondiali e Prosenik aveva un grande rivale: Janez Peternel. Quest’ultimo proveniva dalla Alta Carniola –  zona di montagna da dove arrivano molti dei corridori sloveni conosciuti oggi. Peternel era considerato il più forte ciclista jugoslavo della sua epoca, ma la sua carriera fu pesantemente condizionata dal conflitto mondiale.

Durante la seconda guerra mondiale, Peternel combatterà di fianco ai partigiani, ma fu catturato, deportato e imprigionato nel campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, un posto dove si andavano a infrangere i sogni, la vita, le speranze e realizzato nel 1941 dal regime fascista.
Al suo interno venivano internati tutti i civili rastrellati nei territori occupati dall’esercito italiano in Jugoslavia. Peternel riuscì a scappare ma lo aspettavano i fucili che gli vomitarono la morte addosso.
Aveva solo 30 anni.

Da Prosenik a Peternel, passando per Valjavec, Hauptmann, Hvastija, Murn, Stàngelj e Klemencic, fino a Roglič e Pogačar. Da una corsa per dilettanti, passando per buoni risultati al Giro e al Tour fino alla cima del mondo del ciclismo. Primož Roglič non trova il ciclismo per caso, forse più per un incidente di percorso.

Dopo quella caduta scopre che andare in bici gli piace. Qualche anno più tardi inizia a pedalare come cicloamatore. Partecipa a diverse Gran Fondo, ma mentre lui arrivava al traguardo, gli altri erano ancora a metà percorso, ci racconta Sergio Tavcar.
L’Adria Mobil, storica squadra Professional di Novo Mesto, venne a conoscenza dei prodigi di questo ragazzo che non era nemmeno dilettante. Lo chiamano per farlo correre per loro e gli fanno fare tutti i vari test; rapporto peso potenza, capacità polmonare: tutto il necessario per capire la struttura e le risposte fisiche del ragazzo. Dopo quei test contattano Martin Hvastija il commissario tecnico della nazionale slovena di ciclismo su strada. «Tu cerchi qualcuno per la nazionale. Vero? Ti mandiamo un cicloamatore». Sembra uno scherzo telefonico. «Mi state prendendo in giro?” Risponde il ct. «Un cicloamatore per correre con la nazionale?» Una volta visti i risultati dei test, cambia repentinamente idea. «Una roba simile noi non l’abbiamo mai vista», afferma sgranando gli occhi e a bocca spalancata.

Non c’è un vero segreto perché la Slovenia sia in cima al mondo, quanto un insieme di tasselli al posto giusto nel momento giusto. È disciplina, è fame di vittoria e senso del dovere, è tradizione, sono soldi ben investiti, è cultura sportiva e del lavoro: ma trovarsi con due fuoriclasse come Roglič e Pogačar, nati a nove anni di distanza l’uno dall’altro, è anche fortuna. Perché i corridori buoni ci sono sempre stati e sempre ci saranno: ma i campioni non si possono programmare.

Sono congiunzioni astrali, non è solo frutto di quello che si impara a scuola, o dell’importanza che viene data allo sport e alle ore di educazione fisica. Fino a qualche anno fa nelle scuole slovene c’erano cinque ore obbligatorie a settimana di educazione fisica, ora sono diventate tre. Uno dei vantaggi della struttura scolastica slovena è quella di avere il corso delle scuole primarie frequentata da ragazzi che vanno dai sette ai quindici anni di età. Questo significa meno scuole, ma strutture di qualità. Sono scuole dotate tutte di una palestra polifunzionale nelle quali si pratica sport nel vero senso della parola.

Molti paesi, in Slovenia, all’interno della propria palestra scolastica, vedono giocare le proprie squadre anche di livello professionistico: pallamano, pallavolo, basket. Lo standard è alto. Ci sono tribune, c’è una preparazione altissima: il sistema delle infrastrutture è radicato sin dai tempi della Jugoslavia e ha trovato nella crescita slovena un terreno florido nel quale affondare le mani ed estrarre talento e successo. Lo sport fa parte della loro cultura, del loro DNA. E i professori di ginnastica sono qualificati e fanno svolgere attività fisica vera e propria che sta alla base di tutti i successi sportivi che gli sloveni hanno ottenuto fino a oggi. Non basta? Lo sloveno è popolo di contadini, di minatori, di grandi lavoratori, si è sempre spaccato la schiena: la sofferenza è scritta nei geni e quando loro praticano lo sport non hanno problemi a soffrire.

Un segnale per capire quello che è lo sloveno è il fatto stesso che oltre agli sport più conosciuti, in Slovenia c’è una grande tradizione di ultra maratoneti che si dilettano a fare gare da costa a costa in America, o gare a piedi che durano ventiquattro ore. In Slovenia tutti vanno matti per il Triathlon, per l’Iron Man: c’è sempre stata questa tendenza a soffrire quando si fa sport.
Lo sloveno soffre e ama soffrire. E Pogačar soffre in bicicletta e fa soffrire gli avversari.

A ventidue anni vince il Tour, secondo corridore più giovane della storia a conquistare uno degli eventi sportivi più importanti e conosciuti del pianeta. Lo fa ribaltando quel suo fratello maggiore in gruppo, Primož Roglič, lasciandolo affondare tra i fantasmi, lungo le rampe che portavano i corridori a La Planches de Belles Filles, il penultimo giorno del Tour. Ed è una storia di fratelli quella che caratterizza Pogačar.
Arriva da una famiglia numerosa tutta casa e chiesa in un posto vicino Kranj, chiamato Komenda.
Un villaggio di poco più di cinquemila abitanti.

Dovete sapere come in Slovenia, in tutte le scuole, le varie società dei più svariati sport fanno dei test per vedere se qualcuno degli studenti potrebbe intraprendere la loro disciplina.

Un giorno andarono nella scuola frequentata da (Pogàciar) Pogačar, a Lubiana, gli emissari della Rog-Lubliana, l’altra storica squadra di club di livello internazionale e dove Rog non è altro che il marchio delle biciclette in voga già ai tempi della Jugoslavia. Trovarono questo ragazzo molto dotato, ma non era Tadej, era Tilen Pogačiar. Il fratello grande – “Ta vel’ki Poghi”. «Ci sembri adatto al ciclismo, vuoi venire?». «Certo, però guardate. Io vi darei un consiglio, se prendete me, prendete anche il mio fratellino. Mi batte sempre quando corriamo in bicicletta». Si unì anche “il piccolo Tadej” – “Ta Mau Poghi”, come lo chiamano tutti ancora oggi tanto che è pure il suo hashtag nei profili Social.
Vuol dire “il piccolo” e quel piccolo iniziò a gareggiare, a bruciare le tappe: bastano pochi anni per vincere il Tour de France. Pogačiar è stato anche campione sloveno di ciclocross e d’inverno pratica sci di fondo: cosa abbiamo detto? Multidisciplianerietà, un termine che a qualcuno spesso ancora non va giù. Sergio Tavcar definisce Pogačar “l’ultimo prototipo dello sloveno 3.0. Quelli che da eterni piagnoni perdenti sono diventati vincenti nati”.

La Slovenia ha poco più di due milioni di abitanti, ma negli anni è stata, e continua a essere, fucina di grandi interpreti dello sport mondiale: Maze, StuheZ e KranjeZ nello Sci Alpino, Lampich nel Fondo, Prevc nel Salto con gli Sci, Dragic e Doncic nel basket, Ilicic, Handanovic e Oblak nel calcio.
Nella pallamano sono stati bronzo mondiale nel 2017, nella pallavolo due volte consecutivamente vice campioni d’Europa nelle ultime due edizioni. Hanno preso parte alle ultime due olimpiadi nell’Hockey su Ghiaccio, Ianja Garnbret a 17 anni ha iniziato a dominare la Coppa del Mondo di arrampicata sportiva, vanno forti nel kayak e nella canoa. Nel 2016, 2019 e nel 2020 conquistano i titoli mondiali nella classe regina del motocross con Tim Gajser, fenomeno della specialità, uno che ha inchiodato Tony Cairoli, impedendogli di vincere il tanto agognato decimo titolo. Gajser è un eroe che emerge da un’incredibile tragedia familiare. Suo padre Bogomir correva nel motocross e si portava in giro alle manifestazioni suo figlio Zan. Il padre correva e quel figlio scorrazzava spesso a bordo pista. Non era incoscienza era attrattiva, era sangue, è sempre quel DNA che torna e fa capolino nelle storie di sport, di arte e mestiere e che si tramanda di generazione in generazione. Bogomir spicca il volo con la sua Honda e quando atterra, atterra addosso al suo ragazzo che si era gettato in pista. Il bambino muore. «Sono tornato a correre nel motocross poco dopo. Mi dicevano che ero un mostro, un pazzo. Ma cosa avrei dovuto fare? Arrendermi? Uccidermi? Ubriacarmi? Quando ho iniziato a fare questo sport non avevo soldi. Mia madre vendeva uova e latte. Vidi una gara di motocross e iniziai a sognare motociclette». Oggi Bogomir è manager, allenatore, psicologo dell’altro figlio, Tim, che esalta la Slovenia in motocross. Salta con la moto, invece che con gli sci, ma l’adrenalina e la velocità è simile solo che al posto dell’odore della neve c’è la puzza di benzina. «Prima di salire in moto ho fatto judo e e altri sport. E tutto quello che ho imparato lo trasmetto a mio figlio in modo che sia sempre preparato fisicamente».

Nel 2019 la Slovenia ha vinto la Vuelta con Roglič, terzo è arrivato Pogačiar al suo esordio assoluto in un Grande Giro. Nel 2020 Roglič e Pogačar chiudono il ranking mondiale individuale al primo e secondo posto e la Slovenia si piazza alle spalle della sola Francia in quello per nazioni.
In due hanno vinto Tour, Vuelta e Liegi Bastogne Liegi.

L’ultima volta che all’Italia successe una cosa simile era il 1998 con la doppietta Giro-Tour di Pantani e la vittoria alla Liegi di Bartoli.

Nella classica belga, sul rettilineo finale, dietro una transenna sventola profeticamente una bandiera slovena e tra i cinque a giocarsi il successo ci sono proprio tre sloveni. Vince Roglič, terzo Pogačar, quarto è Mohoric. Mohoric è stato il primo e fin’ora unico corridore nella storia del ciclismo a conquistare il titolo mondiale juniores su strada e l’anno dopo quello tra gli Under 23. Ma Mohoric oltre a essere una speranza luminosa del ciclismo sloveno è anche uno studente modello. Al liceo, un anno, è stato tra i cento migliori allievi di tutta la Slovenia venendo anche premiato dalle massime autorità statali. Forte in bici, bravo a scuola: sloveno modello. Ha 26 anni, solo quattro più di Pogačar, sembrava l’astro nascente del suo paese e al momento viene oscurato – ma senza quei due verrebbe considerato ugualmente un autentico campione. Quale forse diventerà.

La Slovenia in questa stagione ha conquistato anche una tappa al Giro d’Italia con Ian Tratnik. Siamo a San Daniele del Friuli, città del prosciutto, è vero, ma circondata anche da meravigliose colline e da tanto di quel verde da avere affinità con la Slovenia. Tratnik arriva da Idrija, a un centinaio di chilometri da San Daniele. Idrija è un paesino di montagna dell’Alta Carniola dove ha sede la seconda miniera di mercurio più grande del mondo, ma ormai chiusa da tempo. Non solo la miniera, ma caratteristici del luogo sono anche i meravigliosi lavori ad uncinetto, e gli “žlikrofi”, cappelletti dal ripieno speciale ottimi sia con il ragù di selvaggina che in brodo. Sergio Tavcar ci racconta anche che, secondo vulgata popolare, l’acqua del fiume Idrijca, contaminata nei secoli dal mercurio, ha reso tutti i suoi abitanti notevolmente pazzerelloni, per non dire un po’ “fuori”. In campo sportivo esistono solo due sport, il basket e il ciclismo dopo che si è persa la grande tradizione sciistica che c’era prima della seconda guerra mondiale – quando Idria faceva parte dell’Italia. Idrija in Slovenia è sinonimo di manicomio, in quanto il massimo centro di cure mentali in Slovenia è proprio lì. “È bello pronto per Idrija” si dice. Tratnik, che prima di andare in bici ha iniziato col basket, è in fuga quel giorno, vuole lasciare il segno distintivo da sloveno in questo 2020, avrà pensato anche lui di unirsi a questa incredibile baraonda. Attacca a inizio tappa, prima con una ventina di corridori, poi da solo. Successivamente, nell’ombrosa quanto ripida salita che porta in cima al Monte di Ragogna, viene ripreso dall’australiano O’Connor che lo stacca. «Ho trovato la forza per vincere quando ho visto la mia ragazza che mi incitava sull’ultima salita» racconterà a fine tappa. Tratnik, in Slovenia, è detto “il fratello dell’ubriacatore di Nachbar” e la sua storia è emblematica per capire come sono fatti gli slavi. Arriva da una famiglia di sportivi, è noto per essere un burlone, un tipo scherzoso sempre pronto alla battuta. Suo fratello Igor gioca a basket a buon livello, in passato ha militato anche nella Olimpia Lubiana. Quando era giovane, durante un camp di selezione dei migliori talenti sloveni del basket, Igor viene chiamato, insieme ad altri, a sfidare nell’uno contro uno Bostjan Nachbar, stella slovena dell’NBA, con un passato tra Houston Rockets, New Jersey Nets e New Orleans Pelicans. Igor lo canzona, a tratti lo umilia con il pallone tra le mani. Da lì diventerà per tutti “l’ubriacatore di Nachbar”.”

Ora si sente di nuovo un’eco che arriva dalla strada. Si diffonde tra Pirenei e Alpi e diventa poesia.
Si fonde con il sibilo silenzioso di una catena, con quell’ impercettibile clic del cambio, con l’odore di vino e cevapcici e si confonde tra le bandiere bianco, rosso e blu dei centinaia di tifosi che hanno sfidato la pandemia e si sono riversati sulle strade del Tour e della Vuelta, nonostante tutto. Sarà magari solo un momento di passaggio, lo vedremo, ma se conta ancora quello che succede oggi, beh, la Slovenia è in cima al mondo e per qualche anno ha intenzione di restarci saldamente.