Tim Merlier cresce all’ombra di van der Poel e di van Aert. Non ha il talento del primo, né la tenacia del secondo, eppure, che sia strada oppure cross, da un po’ di tempo il suo nome inizia a farsi sentire sempre più forte. Era un sibilo inizialmente. Un discorso da bar tra appassionati di ciclismo, qualche messaggio scambiato sui forum, poi arrivano i primi piazzamenti, le prime vittorie pesanti, come il tricolore belga del 2019 che da quelle parti ha un fascino a volte difficile da comprendere.
Pochi giorni fa il successo in una irriconoscibile Bruxelles che con tutta quella pioggia sembrava un villaggio di gnomi fatto di cera e sciolto nel fondo di una bottiglia. Passa qualche giorno e vince a Senigallia, alla Tirreno-Adriatico, città altrettanto interessante, e di sicuro più luminosa, e Merlier, che arriva dal solito monotono paesello delle Fiandre orientali tutto grano e pavé, si guarda indietro continuamente sparato a settanta chilometri orari, sgrana gli occhi, e lascia il segno. Come abbiamo sgranato gli occhi noi per quanto bella è stata la sua progressione in volata.
Tim Merlier viene dal fango. Probabilmente preferisce mettersi una bici sulle spalle saltando barriere, ma il mestiere su strada lo sa fare egregiamente – e quanto volte glielo ha ripetuto Mario De Clercq, suo compaesano e leggenda del ciclocross. Merlier darebbe la vita per gli altri e si sente frustrato quando un capitano non vince: tempo fa raccontava dell’imbarazzo vissuto nel cross serale di Diegem quando van Aert gli cadde davanti e lui non riuscì ad evitarlo. Lo aspettò per aiutarlo: «Mai avuto un compagno di squadra così in gamba» disse van Aert.
A inizio carriera correvano assieme: i due hanno subito legato. «Sì posso dire che siamo migliori amici» sosteneva tempo fa van Aert, eppure, vittima dell’assurdo, Merlier indossa oggi la stessa maglia di club di van der Poel – si fa per dire la stessa maglia, l’olandese veste quella da campione nazionale, ma queste sono sottigliezze – il più grande dei rivali del suo amico. Forse qualcosa più di rivali: lo yin e lo yang del ciclismo contemporaneo, guerra e pace, uomo e donna. Agli antipodi, ma assolutamente necessari. Due che se potessero farebbero a meno anche di incrociare gli sguardi.
E lui sta in mezzo a prendere qualcosa dell’uno e dell’altro come un fedele rampollo, anche se poi è van Aert a invidiare una caratteristica fondamentale del carattere dell’amico: «La tranquillità che irradia. Sembra che se ne freghi, ma invece è semplicemente fatto così. È sempre in ritardo, ma è la sua forza: non subisce la pressione. A maggio del 2019 si allenava con una maglia nera perché era senza squadra. Pensate che la cosa lo abbia scalfito in qualche maniera? Un mese dopo ha vinto il campionato belga!».
E poi c’è quella sua capacità di stupirsi, che ha qualcosa di fiabesco. Dopo essersi laureato campione belga (su strada), due mesi dopo ancora non se ne rendeva conto. Tirava fuori la maglia dalla lavatrice e sorrideva. La stendeva e pensava non fosse nemmeno la sua. Usciva per l’allenamento: casco, occhiali, maglia tricolore e si ritrovava a guardare il suo riflesso nella finestra per capire se era vero quello che gli stava succedendo. «Semplicemente non ci si abitua, questo è ciò che lo rende così divertente. Io campione del Belgio: immagina. Per anni ho pensato che un giorno avrei potuto diventarlo nel ciclocross. Ma questo… questo batte davvero tutto».
Tim Merlier è un figlio del fango, non un Golem, forse un sassolino, un pezzo di terra che rotola, e in breve tempo diventa strada. Da anni gli dicono «faresti meglio a fare ciclismo su strada, sei più tagliato per quello» e lui risponde: «Io ho due biciclette. Una per il cross e una per la strada. Mi piacciono entrambe, mi diverto: non vedo perché dovrei cambiarle». E chi siamo noi per convincerlo del contrario?
Da un po’ di tempo Merlier divide la sua vita con Cameron, la figlia di Frank Vandenbroucke, troppo talentuoso, troppo veloce ad andarsene. «Grazie a lei ho imparato a puntare la sveglia presto la mattina». Quando invece torna a casa, Tim Merlier aiuta sua madre nel bar di famiglia a Wortegem-Petegem, nella piazza vicino la chiesa, a un tiro dal traguardo di Oudenaarde che caratterizza il Giro delle Fiandre. Serve caffè e frittelle nonostante lo status di corridore che da quelle parti equivale a essere una star. «Quando ho vinto il campionato belga hanno iniziato a chiedermi interviste, a dedicarmi prime pagine sulle gazzette, ma io sono rimasto sempre quel ragazzo tranquillo che ama versare il caffè nel bar di sua madre». Quella madre alla quale, poco dopo il lockdown, chiese di organizzare una corsa nel suo paese: «Ho corso così poco con questa maglia che mi sembrava una buona idea» racconta placido a una televisione belga. Se van der Poel è genio e van Aert carisma, Tim Merlier è il ritratto della tranquillità.
Foto: Bettini
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