La mattina di San Benedetto del Tronto è tutto uno scorrere di valigie sul lungomare. Per alcuni è il giorno in cui si torna a casa, per molti solo quello in cui si cambia corsa, senza nemmeno passare da casa. E, quando ci si saluta, si aggiunge sempre dove si andrà, si sa mai che ci si ritrovi. Ma anche se non dovesse essere così, sembra importante sapere dove saranno le persone che ti hanno aperto una transenna o indicato una strada. C’è chi parte subito e chi aspetta. Fra questi, chi trasporta le transenne che vanno a costruire i villaggi di arrivo, alcuni fra loro a San Benedetto sono arrivati ieri sera, dopo le undici. Chissà dove avranno cenato, chissà quante ore avranno dormito, visto che sin dal mattino presto quelle transenne sono legate ben salde a cambiare forma alla città.
“Se togli tutto questo da una piazza che hai visto solo così, farai fatica a riconoscerla” ci dice un vecchio suiveur. Sarà, sta di fatto che stasera forse anche loro finiranno presto e se qualcuno non abita molto lontano a casa arriverà prima.
Ma la casa di un ciclista non è solo quella che raggiungerà stasera o quella cui penserà su un altro volo. I ciclisti sono spesso lontani da quella casa, ma hanno radici profonde. Pensate che una domande a cui rispondono più volentieri è proprio quella relativa al loro paese, a quello che faranno quando torneranno lì. E talvolta sembra che a loro basti parlarne per tornare a casa.
Così, lontano, la casa di un ciclista è il luogo in cui si sente totalmente se stesso, che spesso più che un luogo è un modo di fare. Se è un luogo è in realtà l’attraversamento di un luogo, lo spostamento. La casa di un Tonelli, Boaro e Arcas è, in realtà, l’andare via di casa, dove casa è il plotone, la pancia del gruppo che protegge, che contiene. Per chi è bravo a limare, la casa è in uno spazio talmente stretto che ai più sembra invivibile. Ma non è lo spazio, è la capacità di starci dentro, di conoscerlo e gestirlo. Non a caso chi guarda la preparazione della volata dal traguardo ha continuamente la percezione di una caduta, come se ogni minimo sbandamento fosse un contatto. Chi è fuori, non conosce quello spazio, quella casa.
Casa è fatica, quella fatta per imparare a viverci, quella fatta per continuare a costruirla, a trovarsi bene come nei tempi migliori. Quella di Damiano Caruso che è un uomo al servizio sempre, oggi per Phil Bauhaus. E chi ha casa nella fatica ha un modo particolare di viverla, con dignità, col sorriso, anche se non ce la fa più.
Phil Bauhaus ha casa anche nel cognome. Un eco di qualcosa di lontano. L’ha nello sprint e in quella capacità di vivere la velocità come uno sprinter. La volata è l’apoteosi del concetto, è una casa che dura poche frazioni di secondo, un sentirsi a proprio agio che svanisce in qualche frazione di tempo. Perché non si fa il velocista, si è velocisti ed è questo essere a fare casa. Vale lo stesso per Tadej Pogacar che ha scherzato (chissà poi quanto) sulla possibilità di inventarsi qualcosa sulla Cipressa alla Milano-Sanremo. La sua casa è fantasia, qualcosa di bizzarro come il ciuffo che esce dal casco, quasi una ribellione agli spazi fermi, calmi.
Le valigie hanno lasciato posto ai primi camion che ora si spostano lentamente lungo l’arrivo. Si torna a casa. Ovunque sia, qualunque sia.