Lucinda Brand ha raccontato spesso un pensiero che ha puntellato la sua mente mentre era in ricognizione sulle pietre della Paris-Roubaix. Ina Teutenberg e Steve de Jongh avevano procurato giusto qualche giorno prima le biciclette da utilizzare per la classica del Nord e quello era il giorno della ricognizione. Lucinda Brand viene da una “Piccola Venezia”, Dordrecht, nei Paesi Bassi, è questo in fondo. Una cittadina antichissima, costruita sull’acqua, con vicoli strettissimi e negozi che si intravedono da barche elettriche che percorrono il corso d’acqua. Tra porti antichi, ponti bui e case costruite sul fiume, tutto sembra scorrere lì, a pochi chilometri da Rotterdam. Sarà per questo che Brand sente così forte quella realtà tagliente tra Parigi e Roubaix e la descrive così bene, facendo filtrare parole dove prima non erano mai arrivate: «Come fa una bicicletta a non rompersi su queste pietre?».
E forse non c’è domanda migliore di questa per raccontare l’inferno del Nord. Pensiamo spesso che il problema siano le domande e la soluzione le risposte. Pensiamo che si racconti con le risposte e che le domande siano, al massimo, una richiesta di racconto. In realtà non è così o, per quanto, non è sempre così. Certe domande raccontano più di qualsiasi risposta. Le persone, molte volte, si possono capire meglio ponendo attenzione a quello che chiedono piuttosto che a quello che dicono. Sì, perché chiedere o chiedersi qualcosa è sempre più difficile, se non altro per le risposte che potresti darti.
Per esempio, lì, in mezzo alle pietre potresti risponderti che «no, la bicicletta non si rompe, ma tu sei già a pezzi e manca ancora troppo. Come arrivi al traguardo?». E, quando inizi a risponderti così, sei tu ad essere rotto in mille pezzi. Perché non è la domanda a bloccarti, è la risposta. La domanda avrebbe potuto darti la spinta che serviva. Quella spinta è nascosta nel sebbene. «Sebbene io sia distrutta, sebbene non sia forte come questo cavallo di metallo, arriverò al traguardo». Sono i nostri sebbene a renderci forti. In quel momento la tua realtà torna a scorrere: quando non hai paura di farti domande, puoi tornare a Venezia, a Dordrecht o su qualunque barca in un vecchio porto. Quella paura ti passa con gli anni e con le domande che ti arrivano tra capo e collo quando non te le aspetti. Quella paura ti passa anche grazie a chi non si preoccupa delle domande che farai ma delle risposte che saprai dare alle domande che ti verranno fatte. Per esempio grazie a un fratello. Quel fratello, per Lucinda, è Giancarlo. Il papà di Lucinda e Giancarlo era un ciclista professionista e Giancarlo vuole correre sin da bambino. Giancarlo inforca la bicicletta e corre. Eccome se corre. Lucinda lo vede e vuole imitarlo. Possiamo immaginarcela mentre chiede di poterlo seguire, di poter imparare. Succede tra fratelli e sorelle, un istinto di emulazione che è la più feroce dichiarazione d’amore: «Voglio assomigliarti».
Giancarlo fa sul serio, Lucinda inizialmente è più impacciata e, nei primi tempi, Giancarlo deve tornare indietro, deve aspettarla. Così, però, non è possibile proseguire. Giancarlo non può aspettarla sempre e Lucinda non vuole neppure chiederglielo. Il problema sono gli angoli, come sempre nella vita, il problema sono le curve. Non c’è molta scelta: se non vuoi frenare gli altri devi imparare a guardarli e avere il coraggio di credere che puoi seguire la loro scia. Avere la fantasia per immaginare tuo fratello che si volta e, vedendoti, ti dice: «Ah sei qui». Che è come dire: «Adesso possiamo davvero andare via assieme».
Giancarlo non si è chiesto cosa avrebbe potuto pensare Lucinda vedendolo andare via da solo, non ha avuto paura di quella domanda . Sapeva cosa avrebbe risposto alla sua domanda, al suo perché, e sapeva che Lucinda avrebbe capito, prima o poi. Bastava lasciar passare qualche curva e qualche brivido a mezz’aria sull’equilibrio. Vedete? Sono le domande che raccontano: il coraggio, la paura, le rincorse e anche le scivolate. Come quando Lucinda andò da papà e gli chiese di iniziare a gareggiare. Una domanda, una delle poche, fatte a cuor leggero, forse. Sì, perché c’è papà e le risposte di un padre non possono far male, no? No, le risposte di un padre non devono far male ed è appunto per questo che possono far male.
Un padre non deve preoccuparsi del male temporaneo, per quanto lo faccia soffrire, un padre deve preoccuparsi del male non guaribile, quello delle decisioni prese quando è ancora notte, quando non si vede abbastanza bene la strada, quando non è ancora tempo di decidere. Quelle decisioni, mascherate da felicità, sono terremoti dell’esistenza, te la distruggono. Per questo, quel giorno, papà disse no. «Se non ti alleni molto, non ti farò gareggiare». Lo disse per lei. Perché alle domande può anche esserci una risposta dolorosa e non è un dramma. Dopo aver chiesto saprai cosa fare e da lì dipenderà solo da te. Che fa paura, ma fa anche felici.
Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2020