A settembre, Vittoria Bussi, dopo aver ottenuto quel 3’20”, durante la sua rincorsa al record del mondo dell’inseguimento individuale, aveva scritto: «Appenderò il cartello del record italiano sui 3 km accanto ai due record del mondo sull’ora, forse con ancora più orgoglio, per il coraggio, per accettare il dolore, per non aver rimpianti». Doveva essere quella la parola fine alla sua carriera, pur se amara, perché uno sportivo cerca sempre di lasciare che il sipario si chiuda all’apice della gloria, quando più di così non si può fare ed il futuro perderebbe comunque il confronto con il passato. Qualcosa che ha a che fare con il dramma, nel senso greco del termine, ovvero una forma letteraria, una rappresentazione con elementi significativi di conflitto. Sturm und drang, se volete chiamarlo in altro modo, tempesta ed impeto proprio mentre il sipario si chiude e la gente, i più, coloro che conoscono l’essere umano solo come atleta se ne vanno, perché non c’è più niente da vedere. Il resto è vita privata, è quotidianità più simile alla nostra di quanto si creda, a tratti noiosa: «Avevo bisogno di vivere quel mancato obiettivo, di assaporarlo, anche se il suo gusto non mi piaceva nemmeno un poco. Quando sbagli qualcosa a cui tieni, l’analisi può arrivare solo nel momento in cui ritrovi lucidità e questo momento giunge per ciascuno in tempi differenti. A quel punto, mettendo sul tavolo ciò che non ha funzionato, si capisce se riprovarci è possibile oppure è proprio la strada a non fare per te e intestardirsi non ha alcun senso, causa solo dolore, sofferenza, frustrazione. Quando ho scritto quelle parole, questa razionalizzazione non era ancora possibile per me, considerando come stavo, come mi sentivo». Spiega Bussi che il tarlo che perseguita ogni atleta di fronte alle sconfitte di qualsiasi tipo è: ho fatto veramente tutto ciò che mi era possibile fare per il traguardo che mi sono posto? Se la risposta è sì, la deduzione è la più naturale per uno sportivo: gli altri, i rivali, sono più forti ed a questo chi fa sport è sempre pronto ad inchinarsi. Il problema si manifesta quando, nonostante tutto, la risposta è no.

«A livello fisico, atletico, sapevo di essere serena con me stessa. Il dubbio era sulla parte di analisi scientifica, relativa all’aerodinamica in un’accelerazione fino a sessanta chilometri orari da ferma. Ricordo che, presso le strutture dello World Cycling Center, restavo a osservare queste partenze e facevo domande: il problema di applicazione, nel momento in cui i punti d’impatto visti in galleria del vento dovevano essere utilizzati nella pratica, era un fatto che riguardava solo me oppure tutti gli atleti fronteggiano questa questione? Se fosse così, in ottica futura sarebbe interessante fare chiarezza e credo che il dovere di un atleta, almeno per quanto concerne la mia visione di atleta, sarebbe quello di andare avanti, pur correndo il rischio di non farcela, per lo studio, la ricerca. Non siamo gladiatori nell’arena, vincere piace a tutti, ma lo spettacolo conta fino ad un certo punto, l’atleta dovrebbe avere un ruolo ben più importante nella società. Quando ho avuto chiaro di trovarmi in questa seconda situazione, ho capito che dovevo tornare in sella». A nulla sono servite le voci di chi, ad esempio suo marito Rocco, le diceva: «Il tuo messaggio l’hai già trasmesso: sei uscita dalla comfort zone, il risultato non è arrivato, ma ci hai provato. Hai trasmesso un ideale, un valore, hai sempre detto che a questo sono chiamati gli sportivi. Ora fermati». Per questo, ora può dirlo, ci sarà un altro record (almeno un tentativo). Forse due, perché se riuscirà nel record del mondo dell’inseguimento, vorrebbe chiudere, questa volta davvero, come ha iniziato, con un altro record dell’ora. «Ero stremata perché tenere i sessanta orari per tre minuti è sfinente per il fisico, ma quel che avevo fatto per “una vita” mi mancava troppo. Quando sono tornata a casa, mia madre si aspettava di trovarmi provata, invece ero stranamente più riposata che nei tentativi di record dell’ora. Il mio fisico aveva recuperato velocemente, mi ritrovavo con tanta energia e con la parola fine. La bicicletta, fedele alla promessa, l’avevo ritirata. Ero diventata nervosa, maggiormente “aggressiva” anche nella vita di tutti i giorni. Non mi piacevo più, trattavo male anche me stessa, quasi mi punissi». Bussi torna al velodromo, solo mezzo giro e un’esclamazione: «Come ho potuto pensare di rinunciare di colpo a tutto questo?».

Ci riproverà nel prossimo mese di maggio, perché non riprovarci vorrebbe dire lasciare un lavoro incompiuto: al primo tentativo di record nell’inseguimento individuale aveva applicato lo stesso metodo del record dell’ora. Dapprima l’altura e, successivamente, dopo una prova in cui era riuscita a scendere sotto i 3’20”, in Messico, la scelta di investire in una finitura aerodinamica di buon livello sull’attrezzatura, sul body e sul casco. A settembre anche un 3’18”, mai però il 3’15” a cui puntava perché il metodo, spiega, non era corretto in quanto «si creano delle turbolenze con l’accelerazione iniziale e l’aerodinamica non funziona come sul record dell’ora». Se l’inseguimento fosse rimasto sulla distanza dei tre chilometri, afferma, probabilmente, per quanto già detto, non ci avrebbe ritentato, ma i quattro chilometri sono un’opportunità che non vuole perdere, su uno sforzo differente, sui cinque minuti anziché sui tre, con una curva di potenza che varia: tra febbraio e marzo avrà modo di capire dove si posizionerà l’asticella del record e da lì gestirà la propria prestazione. La celebrazione potrebbe essere un ulteriore record dell’ora, su cui pende soprattutto un’incognita legata al riconoscimento UCI oppure no. Affinché questo avvenga sarà necessaria la presenza di cronometristi Tissot, allo stesso tempo, però, le nuove regole UCI implicano un significativo aumento dei costi per una prova che, in ogni caso, ha sempre richiesto fondi ingenti.
«La mia sconfitta è questa. Ho sempre ripetuto che il record dell’ora dovrebbe essere accessibile a chiunque abbia doti e meriti, tutte le persone con cui mi sono interfacciata mi hanno sempre detto di sì: ora ho scoperto che si sta percorrendo la direzione opposta, correndo il rischio che questa prova sia soprattutto un’occasione di business. Ho scritto una lettera ad Alessandra Cappellotto con cui ho sempre avuto ottimi rapporti spiegando che è un passo indietro per il ciclismo, non per Vittoria Bussi. La sconfitta è di tutti gli atleti che, a mio avviso, rischiano sempre più di essere gladiatori con l’unico compito di fare spettacolo e divertire, se non si inverte la rotta. Ho proposto che ci siano due punti di riferimento, diversi ma paralleli ed ugualmente da valorizzare: quello di Filippo Ganna, ovvero dell’estrema ricercatezza del materiale, di un ampio entourage a supporto, del professionismo. L’altra via è quella artigianale “à la Bussi”, per chi non fa parte di una squadra, per chi non avrà mai la diretta televisiva e sul volo per il Messico sale solo con una persona perché non può coprire più costi. I due modelli devono stare in piedi assieme. Basta che ne cada uno perché si crei una frattura, un vulnus. Perché il ciclismo si faccia male». La notte del 25 dicembre sarà “un’altra notte delle cose concesse”, come sono tutte le notti che portano a Natale e lo sarà proprio a causa di questa sconfitta, di questo ciclismo che va in direzione ostinata e contraria rispetto all’auspicio che tante volte ha fatto. Sarà una notte di magia per tutti, talvolta di nostalgia, e per Vittoria Bussi ancor di più perché si aprirà il crowdfunding a sostegno di questo nuovo record, come due anni fa: «Non sono mai stata capace di chiedere e, ancora oggi, penso che scegliere di farlo a Natale sia un modo per perdonarmi una cosa che non farei mai. Però da bambini a Babbo Natale abbiamo chiesto tutti qualcosa, anche i più timidi. Le persone mi hanno capita, anzi, mi hanno sentita come si sente ciò che ci assomiglia e, per lo scorso record dell’ora, ho raccolto ben più di quanto avessi chiesto. Non avrei voluto trovarmi nella stessa situazione e ho parlato ovunque affinché non capitasse. Ho raccontato le mie difficoltà a sostenere il record perché altri non dovessero passarle. Non è servito. Questa notte di Natale in cui il crowdfunding si aprirà nuovamente sarà anche una notte di denuncia, una luce su quel che non va, Un grido. L’ennesimo. Perché non è giusto».

L’approccio di Vittoria Bussi resta quello scientifico, del resto, lei viene dalla scienza: «Credo gli atleti debbano diventare sempre più consapevoli, studiare sempre di più, altrimenti le cose non cambieranno mai. Però deve essere uno studio sincero, interessato, non solo legato al risultato a breve termine. Altrettanto reale deve essere la curiosità: ci dicono che è meglio la forcella larga, si chieda sempre il perché, si scavi, non ci si accontenti di spiegazioni generiche. In Italia, a mio avviso manca la figura del Data Analyst, le università non sono coinvolte, ci sono dottorandi sull’intelligenza artificiale che potrebbero aiutarci e nessuno se ne occupa. Certe volte abbiamo anche dieci ore di dati da analizzare, queste professionalità potrebbero essere un supporto fondamentale. Credo che le atlete e gli atleti possano essere il più grande stimolo per il cambiamento». Per lo stesso motivo, Bussi partecipa a conferenze di scienziati presentando la possibilità che le due anime, atletica e scientifica, convivano nella stessa persona: lo racconta affinché anche la comunità scientifica si faccia sempre più parte di questo processo di consapevolezza e condivisione, di atleti ambasciatori di valori.
A maggio, dopo uno, forse due, record davvero tutto finirà. Sarà difficile, ma in misura inferiore rispetto a quest’anno, perché non sarà la prima volta e perché ora sa che è impossibile smettere all’improvviso e del tutto, per quella mancanza viscerale della bicicletta. Probabilmente inizierà a pedalare un giorno sì e due no, ma continuerà a correre. Smetterà gradualmente, dice così. «Sempre complicato familiarizzare con quel che finisce, anche se è il momento, anche se l’hai scelto, voluto, cercato. Io, però, non posso scordare di aver vissuto la mia carriera. Ho un’età in cui è legittimo scegliere di smettere, perché non si può essere ciclisti per sempre. Diverso è il caso di chi smette non volendo smettere, di chi smette per scelta altrui, per circostanze che nulla c’entrano con la propria volontà. Diverso è il caso di chi smette giovane, molto giovane. A vent’anni, magari. Le scelte forzate, purtroppo, non trovano mai pace, per quante storie ci si possa raccontare. A me è capitato quando ho smesso di fare atletica ed ero giovanissima: una fine violenta, ingiusta. Vorrei dire a chi si trova in questa condizione di non dimenticarsi di quel cassetto chiuso male. Non vi prometto che riuscirete a riprendere, non solo perché non posso saperlo, ma perché non sarebbe giusto e perché, spesso, non è vero, si dice solo per consolare. Però una cosa può accadere se salvaguardate quella passione e continuate a coltivarla: si ripresenterà sotto altre forme, in altri tempi ed in altri luoghi. Non sarà sprecata, non sarà più un cassetto chiuso male. Questo può succedere».