Fuori auto parcheggiate in battuta di sole. Caldo soffocante. Dentro una bici blu che poi è un bolide. Qualche sedia e un buffet. Si suda: naturale quando è il primo giorno d’estate, anche se c’è un leggero accenno di aria condizionata. Arriva Ganna e l’attesa diventa entusiasmo. Domande e foto. Verrebbe da definirlo teso, ma forse è calma, e intanto lui, qualsiasi cosa sia quella sensazione, la smorza sorridendo e lasciandosi andare a qualche battuta.
Verrebbe da definirlo tirato a lucido ma dice di non essere al massimo: «Dopo il Giro ho staccato un po’. È necessario per stare sempre sul pezzo» ci racconta.
Faccia da studente universitario fuori corso, lui più che studente potrebbe salire in cattedra, ma non diteglielo, spegnerebbe subito quell’idea soffiando sul fuoco. «C’è gente che arriva e si afferma subito. Poi però le loro carriere durano un attimo. Io non sono un pacco Prime: devo lavorare sodo per vincere. Sono cresciuto gradualmente in questi cinque anni per rincorrere i miei sogni, le mie vittorie».
A Tokyo non ci pensa, dice, non è il momento. È fatto così, anche se in gruppo lo vedi grande e grosso come non avesse timore di nulla, quando ce lo hai vicino è un ragazzo con occhiali da vista, un po’ di barba di quella che cresce sui volti dei più giovani. È in maglietta e pantaloncini. «Sto ancora sudando dalla gara di ieri del campionato italiano. Deluso per la crono? Nemmeno un po’. Sapevo che quello era il mio attuale livello: ho fatto un lavoro di carico per essere pronto più avanti».
Più avanti, ma quando? Tokyo è l’obiettivo, la maglia azzurra un prestigio, pensare alle medaglie un privilegio. Ogni volta che si corre per la nazionale è una spinta in più. Un senso a tutti i sacrifici. Ogni volta come la prima volta, anche se hai conquistato cinque titoli mondiali. «La maglia azzurra che indosseremo a Tokyo ce l’ho già a casa, la volevo in anteprima. Per me è il significato di una carriera: curata nei minimi particolari, la cerniera col tricolore, la scritta in oro».
Diplomatico, dice di non dare troppo peso, al momento, a quel che sarà in Giappone: «Se stessi qui a pensare a ogni gara l’attesa mi mangerebbe e invece così gestisco le pressioni. Vado a Tokyo pensando che sarà una gara come un’altra. Certo, mica per portare un numero sulla maglia, ma consapevole di aver programmato tutto per il meglio. Magari solo alla partenza mi renderò conto di dove sono e di cosa potrò realizzare».
Quando racconti un corridore con l’attitudine alla vittoria, ti ritrovi a esaltare il gesto e magari a dare per scontato i suoi successi, ma ai Giochi Ganna avrà di che lottare. Con se stesso: dovrà resettarsi dalla cronometro all’inseguimento a squadre. Il tempo sarà amico-nemico. «I miei compagni dell’inseguimento vanno forte – racconta con un sorriso – mi hanno messo in difficoltà: sono io a dovermi adattare a loro. Alla medaglia non ci penso, intanto rompiamo il ghiaccio con la cronometro: mentalmente e atleticamente non è semplice passare da un tipo di sforzo all’altro. Anche dal punto di vista ambientale: due situazioni completamente differenti da gestire. Su strada hai il paesaggio che muta continuamente e la gente intorno, su pista hai gli spettatori, lo sguardo a terra e vedi legno su legno».
Contro gli altri: favoriti nel velodromo che ospiterà la gara olimpica «le furie rosse danesi», mentre non vuole fare nomi per la crono. «Van Aert, Evenepoel, Dennis, Dumoulin? Tutti quelli che partono sono in corsa per le medaglie».
Spiega come non ci sia un vero segreto per il successo al Giro, ma semmai ha ben chiaro qual è stato il suo ruolo: «Il mio vero obiettivo non erano le cronometro. Lo scopo di tutto era tenere alto il morale. Negli anni, maturando, mi sono accorto di avere grande capacità di fare gruppo. L’importante era stare vicini a Bernal in ogni situazione per smorzare la tensione: immaginatevi le difficoltà nell’essere sul pezzo tre settimane e giocarsi un Giro».
E la chiosa, leggera, arriva proprio sui suoi capitani: «Thomas mi ha scritto dopo la partita con il Galles: “D’altra parte, l’Italia ha stile”. Bernal invece è come un fratellino più piccolo, anche se poi alla fine vince sempre lui».
Filippo ora appare più disteso, finite le interviste, il sole fuori resta alto e le auto sembrano prendere fuoco. La sua bici, in esposizione, viene portata via. Sul tavolo qualche bottiglietta d’acqua. Firma un paio di autografi, si cambia la maglietta per una foto di gruppo, ancora sorridente, allentando la pressione di una giornata dedicata a media e sponsor. Sale in auto e si allontana. Mentre Tokyo, a migliaia di chilometri da qui, ogni giorno è sempre più vicina.
Foto: Paolo Penni Martelli
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