«Forse, dall’esterno, non si è capito molto quanto abbia sofferto nell’ultimo anno. Non è facile comprenderlo fino in fondo e non è nemmeno facile spiegarlo». Il telefono di Elisa Longo Borghini squilla nella stanza di un albergo vicino a Waregem: è quel periodo dell’anno in cui le strade delle cicliste e dei ciclisti sono quelle di freddo, pietre, muri, vento e inverno del Nord, che, anche a fine marzo, fatica a mollare la presa. Un viaggio, alla fine questo è il ciclismo nelle sue trasferte e nei suoi bagagli. La trentaduenne di Ornavasso parla di questo viaggio e lo assimila ad un altro che ha mappe e cartine differenti: «Il ritorno a quella che ero è stato un viaggio interiore che pareva non finire mai, una meta che non arrivava nonostante la cercassi. Non ero preparata a tutta questa sofferenza: stop forzati, infortuni, malattie e al Tour de France quella setticemia di cui, ancora oggi, mi chiedo le cause. Tutte volte in cui provavo a prepararmi, in cui pensavo di farcela, il mio corpo mi diceva un no secco. Non era pronto agli sforzi che una carriera professionistica comporta, non era mai pronto. Ad un certo punto, ho dovuto lasciare la bicicletta completamente da parte».
I pensieri si riannodano, sembra un flusso di coscienza in cui ogni passaggio costruisce il passaggio successivo, come quando si riflette molto su ciò che accade, cercando di riordinarlo e di dargli un senso affinché non sia inutile. Elisa Longo Borghini lo ha fatto anche con le esperienze più piccole di quei giorni lontana dalla bicicletta: quella mattinata in cui suo padre aveva avuto un piccola indisposizione e lei e suo fratello Paolo, nella stalla, l’avevano aiutato a mungere una mucca e a prendersi cura del vitellino. Aveva pensato che la vita vera fosse un’altra, che «quando ti alzi al mattino e sai di dover spalare letame tutto il giorno è dura», eppure era stata felice con tutto quel dolore che sembrava essersi quietato, nascosto in qualche angolo, meno ingombrante in quegli istanti in cui condivideva un gesto semplice con il fratello. Sì, il 2023 è stato un anno difficile, ma, allo stesso tempo, fuori dal ciclismo, pieno di cose belle, importanti: il matrimonio con Jacopo Mosca, essere diventata moglie, poter chiamare Jacopo “marito”, quel giorno, le energie buone che ha dedicato a quel pensiero, la quotidianità e tutto quel che ne deriva. Ed ancora le ore ed i giorni con i suoi nipoti, come fanno le zie, come spesso una ciclista non può fare. Tutti i pensieri sono necessari per salvare e custodire il bello, per riconoscerselo ed esserne fieri, pur nelle difficoltà.
Poi arrivava il giorno in cui risaliva in bicicletta, magari dopo aver parlato con Paolo Slongo, il suo preparatore: «Mi raccomandava di pedalare tranquilla, di guardarmi intorno, di tornare a godermi anche il paesaggio e di avere pazienza. Io, dopo qualche chilometro in sella, gli telefonavo: “Paolo, sto facendo come dici tu, ma non può funzionare. Vado troppo piano, non riuscirò mai a tornare quella di prima, è impossibile” . Allora, lui riprendeva a tranquillizzarmi: “Non avere fretta, cerca di volere bene al tuo corpo, ai tuoi muscoli. Se lo farai, tornerai anche meglio di prima”. L’allenamento era diventato una sorta di religione: io dovevo credere a quel che facevo, anche se al momento non ne vedevo i risultati. Difficile, ma necessario». Racconta Longo Borghini che se è riuscita a rientrare alle corse è soprattutto grazie alla sua famiglia e a Paolo Slongo. Ma anche un episodio accaduto al Giro di Romandia, quasi casualmente, l’ha aiutata ad aggiungere qualche consapevolezza. Quel giorno è Marlen Reusser ad affiancarla: «Tu sai che sei fortunata, Elisa?». La risposta di Longo Borghini è pronta: «Sì, indubbiamente, Marlen, sono una donna fortunata, per molti aspetti». Reusser non le lascia il tempo di dire altro: «Sai che se ti fosse successa la stessa cosa quarant’anni fa non saresti qui con noi? L’hai pensato? Te lo dico io, ricordalo». Inizialmente quello di Elisa Longo Borghini è un “grazie” amaro, scherzoso, poi la riflessione, dopo la gara, chiarisce tutto.
«Siamo giovani e siamo atleti. Già il primo dato basta, talvolta, per farci sentire potenti e sin troppo sicuri della nostra forza, della nostra salute, come se niente potesse toccarci, sfiorarci, buttarci a terra. L’essere atleti accresce questa sensazione, perché sfidi la fatica, torni in bici anche con il male alle gambe, anche dopo esserti sentito sfinito, finito. Quante volte ci diciamo: “Ora mi riposo e domani esco, anche se mi fa male tutto”? Non è scontato che il giorno dopo ci trovi in salute, non è naturale questo stare bene, questo poter fare. Lo si capisce quando, pur giovane, pur atleta, non puoi più, sei fermo, bloccato. Quando si ha la sensazione che tutto sia finito». Invece un nuovo inizio si stava costruendo: l’UAE Tour per un accenno di ritorno, la Het Nieuwsblad per tornare a percepire il solito vigore nelle gambe e nei muscoli e la Strade Bianche per essere sicura: Longo Borghini c’è ancora ed è la stessa di prima. Il giorno degli sterri senesi, è caduta due volte, nella zona di Monteroni d’Arbia e prima di prendere Montaperti. Proprio in quel frangente, il gruppo stava rilanciando, Lotte Kopecky stava attaccando. La campionessa italiana non riesce solo a stare con il gruppo, ma anche a guidarlo, dopo un cambio di bicicletta.
Sente di dover parlare alla radiolina, un istinto che non trattiene: «Sono Elisa e penso di avere delle buone gambe». «Tra me e me, mentre guardavo le avversarie, dicevo: “Ora vi faccio vedere”. La competitività solita, quella lettura che ho sempre dato a questo sport che mi porta a fare volate assurde ai cartelli con Jacopo in allenamento e a tornare a casa distrutta ed essere felice. Io sono così. Certo che avrei voluto qualche cambio in più da Kopecky, fa parte del gioco, certo che avrei voluto vincere, inutile dirlo. Ma non potevo non essere felice, per questo sorridevo al traguardo».
Il giorno dopo, al Trofeo Oro in Euro, ha conquistato la vittoria, in solitaria, e, proprio in quella solitudine, guardava i dati sviluppati sul suo potenziometro e si sfidava a fare di più, a fare meglio, come fosse un gioco, come in parte lo è sempre stato. La Ronde van Vlaanderen, spiega, è una gara iconica, «una gara che correrò a cuore aperto, vada come vada, perché i giorni buoni e meno buoni sono realtà costante nel nostro mestiere, ma l’obiettivo, l’idea fissa, è un poco più in là, alla Liegi-Bastogne-Liegi, sto lavorando per quella, voglio arrivarci essendo in grado di giocarmela». Quando le chiediamo come vorrebbe vincere, ride di gusto, torna indietro negli anni: «Ricordo il Fiandre del 2015, quell’azione senza senso, folle, che mi ha portato alla vittoria. Mentirei se non dicessi che io sogno ancora azioni così, “azioni ignoranti”, come si dice in gergo. Allo stesso tempo, però, razionalmente so che in questo ciclismo, con i valori in campo, non è possibile una cosa simile. Sarà la squadra a fare la differenza: un insieme di atlete forti che dal loro essere insieme traggono ancora più forza. La squadra è il modo attraverso cui si superano le corazzate. La squadra è il mio modo di vincere».
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