Che strazio: un anno senza Parigi-Roubaix. Che paura guardare Arenberg vuota, ferma e silenziosa come una vecchia fotografia invernale. Non ci può essere più scherzo bislacco di una Roubaix bagnata, con freddo e vento e che non si può disputare.
Immaginatevi: una nebbiolina avvolge la foresta e una mandria di corridori imbizzarriti ci si lancia dentro, dove a sfidarsi in prima fila ci sono i Diòscuri del ciclismo, van Aert e van der Poel. E invece è l’horror vacui. Come quando il re dei sogni scende all’Inferno e lo trova svuotato da tutte le anime dannate.
Immaginatevi. Chiudete gli occhi e fate volare il pensiero verso Arenberg, l’infame. Quel pavimento lastricato che compone il suo settore: veleno per le gambe dei corridori. Immaginatevi le pietre che lo ricoprono, ricche di insidie e di aneddoti. Pietre che hanno visto cavalieri ritornare a casa dopo lunghe battaglie e soldati feriti marciare; carri trasportare carbone o mezzi agricoli dissestarne la pavimentazione. Sassi tagliati in modo ingiusto e che ridono malignamente quando le ruote fanno loro il solletico e si sentono colpevoli quando durante la Parigi-Roubaix qualcuno finisce a terra e si fa male. E oggi? Oggi i corridori vivranno stati d’animo schizofrenici: ci sarebbe potuti essere e avrebbero rischiato, si sarebbero fatti male, avrebbero sofferto. Invece non ci sono ma sognano di esserci.
Immaginatevi quel tratto: un sentiero oscuro chiamato anche Drève des Boules d’Hérin, dove boules sta per bocce, oppure qualcosa di simile a bouleaux, betulle, come quelle che circondano i duemila e quattrocento metri di strada fino all’uscita.
Durante l’anno, da quelle parti, tutto sembra immobile e appartenente a un’altra epoca – un po’ come accadrà oggi. L’area è protetta, in letargo. C’è una sbarra: il transito è vietato alle automobili. Sopravvissuta alla legge dell’asfalto, dal 1992 è monumento nazionale. Sul sito dell’associazione “Les Amis de Paris-Roubaix”, uno slogan recita: “Senza pavé non c’è la corsa”, loro, come guardiani di questo tempo perduto, hanno il compito di scovare nuovi tratti in pavé, restaurarli e salvaguardarli, in barba a contadini, agricoltori e amministrazioni; tra febbraio e marzo si piegano sulle gambe per sistemare le pietre sconnesse. Angeli a guardia dell’inferno. Quest’anno resta il pavé, ma non la corsa.
Allora quella possiamo solo continuare a immaginarla, a studiarla, a ricamarla. Possiamo sentirla: come l’aria di quelle parti tutta intrisa di carbone, o raccontarla. Come Emile Zola che scrisse di Étienne Lantier, il quale, dopo aver preso a schiaffi il suo datore di lavoro, fu licenziato e si trasferì a lavorare nelle miniere della vicina Anzin. Frustrato dalle condizioni di lavoro organizzò diversi scioperi e rimase bloccato in una delle gallerie a seguito di un’esplosione organizzata dall’anarchico Souvarine.
Le miniere tutte intorno producevano carbon fossile collante adatto alla produzione di metalli, e il terreno grigiastro e polveroso che sfila lungo il pavé a schiena d’asino ne è la prova. Jean Stablewski, diventato poi Stablinski, ne è testimone; cresciuto a Wallers, da dove passa la corsa e da dove nasce e muore Trouée d’Arenberg, fu lui a rivelare agli organizzatori dell’epoca l’esistenza di questo tratto; su questo ciottolato ci passava in bicicletta nelle ore libere dal lavoro, prima di fuggire da quelle miniere e rifugiarsi nel ciclismo. «Sono l’unico uomo al mondo che è passato sotto le gallerie che tagliano la Foresta e che poi c’ha pedalato sopra». Ora una stele all’entrata lo ricorda.
Qui è difficile costruire un successo, mancano troppi chilometri alla conclusione, se cadi o fori hai tempo per recuperare, ma al termine del suo segmento l’acido lattico ti arriva fino alle orecchie. Qui Johan Museeuw rischiò di porre fine alla sua carriera. Cadde, si frantumò il ginocchio che si infettò a causa di merda di cavallo e rischiò l’amputazione. Redento, ritornò e la vinse altre due volte. Lo scorso anno van Aert cadde e provò una rimonta malriuscita: quest’anno sarebbe andata diversamente, ci potremmo giurare.
Questo posto ha tanti nomi, come uno spauracchio, come un demone. Pierre Chany fu il primo a chiamarlo Tranchée d’Arenberg, perché la sua cupezza ricordava i condotti tagliati dalle trincee durante la prima guerra mondiale. È Trouee d’Arenberg, è la Foresta di Arenberg, o semplicemente Arenberg, l’infame. Per i corridori è solo l’inizio dell’incubo e la fine dei sogni che da qui in poi si tramutano in brusco risveglio, per la Parigi-Roubaix è un segno identificativo.
Le azioni decisive qui sono state fatte di rado, perché ha più senso, in una corsa che non ne ha, attaccare sul settore di Mons-en-Pévèle quando mancano una cinquantina di chilometri all’arrivo e la strada è tutta polvere e buche. Ci provò Štybar senza successo un paio di anni fa, zigzagando tra le canalette e respirando sabbia a pieni polmoni; Boonen, per la sua quarta vittoria alla Roubaix, staccò Terpstra, suo compagno di squadra, a Auchy-lez-Orchies, quando mancavano più di cinquanta chilometri a Roubaix. Sul settore di Templeuve attaccò Ballerini nel 1995 e al traguardo ne mancavano poco più di trenta. Sagan si differenzia sempre e per vincere nel 2018 sceglie un anonimo tratto d’asfalto per salutare la compagnia. Qualcuno opta per il Carrefour de l’Arbre (Cancellara per la sua prima Roubaix dopo aver selezionato il gruppo già dalla Foresta) o dintorni: per la sua prima volta Boonen nel 2005 sceglie Gruson.
Inserito nel finale e dove la gara si può ancora decidere o rimescolare, il Carrefour de l’Arbre è un tratto con curve malefiche, tifosi che rischiano di invadere la strada, terreno dissestato tra sassi e lastre d’asfalto che creano vere e proprie buche; qui Vanmarcke nel 2016 provò l’azione risolutiva, ma fu ripreso e poi Hayman beffò Boonen nel velodromo di Roubaix. Dove prima o poi, per fortuna o purtroppo, si arriva e tutto finisce.
Immaginatevi, infine, cosa sarebbe potuto essere nel 2020, a ottobre, con van der Poel e van Aert, con la pioggia, il vento e il freddo con Arenberg gotica e il suo abito spettrale e con tutti gli altri settori dai denti aguzzi pronti a lacerare la carne; non lo sarà, ma forse lo rivedremo tra pochi mesi. Arenberg l’infame, la Roubaix e ancora altre storie da raccontare.
Foto: ASO / Pauline Ballet
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