Dove resta il ricordo di un ciclista? Fra delle lastre di roccia, in un pomeriggio invernale del 1980, Giovanni Todesco e sua moglie, pur se ancora non ne avevano contezza, poterono toccare il luogo in cui resta la memoria di ere passate, più di cento milioni di anni fa: nella pietra di Pietraroja. Si trattava di un piccolo dinosauro carnivoro, sdraiato sul lato sinistro, con il capo leggermente inclinato, il suo nome scientifico è Scipionyx Samniticus, ma per tutti è semplicemente “Ciro”. A Pompei, sede di partenza della decima tappa, l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., ha bloccato un istante: strade, abitanti, oggetti della quotidianità. La paura è rimasta bloccata, cristallizzata, così il ricordo, l’ultimo istante. Il Giro d’Italia è una città che cambia, che si costruisce e si cancella nell’arco di poche ore: mezzi, transenne, persone. Tutto che arriva, poi passa. Le città sono città diverse immerse nel Giro. Già, ma quando tutto torna alla normalità, in che angolo delle persone è il ricordo di quel passaggio delle biciclette che non segnano le pietre, che non fermano il tempo? Nelle fotografie, certo, ma oltre, oltre uno scatto, dov’è?

Il ricordo di un ciclista è in una borraccia, che segna il ricordo forse più di qualunque altro oggetto legato alla bicicletta. Oggetto fondamentale, oggetto del bisogno, perché cura la sete, perché contiene acqua e un ciclista è fatto anche di acqua, come tutti noi, ancora di più, forse. La borraccia che Alaphilippe, ad un certo punto, rallenta e quasi deposita, appoggia, ai piedi di una sedia bianca, di plastica, dove è seduta una signora con i capelli bianchi. La raccoglie. Il tempo che passa allunga i ricordi, come la sera allunga le sagome dei camminatori nei prati, sui monti. Sere diverse, comunque sere. Per questo tutti raccolgono le borracce, sono un segno tangibile per tenere stretti i ricordi quando si sbiadiscono. Lì c’è senza dubbio la memoria di un ciclista. Alaphilippe, poi, si staccherà dalla fuga di giornata, dopo averla cercata e voluta un’altra volta: è accanto alla macchina del medico, sembra svuotato. In un giorno sbagliato.

Il ricordo di un ciclista può essere in un cartello, al Giro è spesso nei cartelli oppure nelle scritte a terra. Gino Mäder, adesso, è anche in quell’inchiostro, ora che non è più in sella, dove tre anni fa vinse, giusto al Giro d’Italia. Gino Mäder aveva qualcosa di Palomar che sentiva il dovere di guardare le stelle per non sprecare il fatto che ce ne fossero così tante, lo svizzero sentiva il dovere di ricordarsi di abitare sotto un cielo di stelle, in un pianeta di natura rigogliosa. Perché? Perché è bello. Forse ci avrebbe risposto così, come ci aveva detto raccontando delle sue vittorie. Anche in una penna o in un pennarello c’è il ricordo dei ciclisti, pure in un pennello. Se si osserva Alessandro De Marchi mentre attacca non si hanno dubbi: il ricordo di un ciclista è nelle origini delle cose. La bicicletta, la solitudine, la rabbia, la gioia, il dolore. Di Damiano Caruso si potrebbe dire lo stesso: con le bende addosso, con le ferite ancora non cicatrizzate, all’attacco e di nuovo in gruppo a tirare, a fare il suo dovere.

Il ricordo di un ciclista è nelle partenze. Gianni Mura ironizzava: “Solo chi ama le pantofole dice che partire è un poco morire. Non partire, quello sì, è un poco morire”. E aveva ragione. Filosofia di ogni ciclista, ogni mattina, ogni volta in cui è a terra ed in ogni istante in cui deve accelerare e non ce la fa. Pensiamo a Jan Tratnik che era riuscito a partire, in fuga e ancora in fuga, almeno fino a quando Valentin Paret-Peintre non scandisce il suo ritmo da scalatore: stacca Romain Bardet, raggiunge Tratnik e lo lascia lì, ripartendo, da solo. Qualche secondo dopo, anche Bardet raggiungerà e staccherà il corridore sloveno. Si spegne la luce, non si riparte, non si risponde, non si resiste: finisce anche se non finisce. Il ricordo di un ciclista è nel continuare. A pedalare, come fa Bardet che, a Torino, vedeva con fatica la coda del gruppo, oggi vede a pochi metri il vincitore di tappa: vorrebbe prenderlo, non ci riesce, ma come sono cambiate le cose. Anche il cambiamento è ricordo di un ciclista: accettarlo, sopportarlo, non odiarsi troppo perché non si è più quelli di una volta.

Infine, ma non per ultimo, il ricordo di un ciclista è nelle prime volte, perché la bicicletta è una prima volta: dell’equilibrio, della scelta, della lontananza da casa, di una velocità scelta solo dalla propria forza, dalla propria volontà. Perchè per Valentin Paret-Peintre è la prima vola, al Giro e fra i professionisti, a Bocca della Selva, che pare davvero una bocca, di faggi, di verde. Si vede che è la prima volta: da come va a zig zag sul traguardo, mentre alza le mani, chiede applausi e ride con il pianto in gola. Si vede che è la prima volta perché non sa più dove cercare conferme, perso in un mondo suo, in un pensiero che solo lui conosce fino in fondo, mentre i massaggiatori gli scuotono le spalle, quasi a svegliarlo, a destarlo. Sì, il ricordo di un ciclista è in tutti questi momenti e, poi, o forse ancor prima, in quello che suscita quando transita accanto per pochi secondi o mentre una telecamera lo segue, perché il ricordo di un ciclista è in quel che prova e che fa provare. Prima di tutto il resto. E quelle sensazioni sono come le pietre: restano più o meno simili in milioni di anni.

Foto: SprintCyclingAgency