Justin Laevens non ha ancora vent’anni, li compirà il prossimo 9 marzo. Eppure questo ragazzo, pochi giorni fa, ai microfoni di SportNu, ha detto parole coraggiose, rare: «Sono omosessuale. Nel mondo dello sport è difficile uscire allo scoperto. Voglio essere un esempio per tutti coloro che sono rintanati nel proprio guscio. Ci pensavo da due anni, in realtà, ed è stato un grande passo. Avevo particolarmente paura delle reazioni degli altri corridori o dei team più grandi: temevo che mi avrebbero guardato con occhi diversi». Abbiamo parlato di coraggio, già. Perché anche la più vera normalità, in questi tempi, è ancora difficile da dire, da raccontare. Sembra assurdo, è assurdo. Ma purtroppo dirsi omosessuali resta difficile a tutt’oggi. Perché la società sa essere cattiva, magari in maniera subdola, attraverso l’esclusione o la percezione del “sentirsi diversi”. Non la diversità che è un valore, la diversità che è una colpa, che è un errore.
Una delle più complete ricerche sul tema dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere nello sport è stata commissionata dall’Unione Europea, che nell’ambito del programma Erasmus+ ha finanziato il progetto Outsport: un’iniziativa di contrasto alle discriminazioni, che ha portato alla realizzazione di una ricerca sulla situazione attuale a livello europeo; il quadro complessivo, che emerge da questo studio, evidenzia come:
– Il 90% delle persone LGBT intervistate percepisca l’omofobia nello sport come un problema;
– Il 33% non parli della propria sessualità in ambito sportivo;
– Il 20% abbia rinunciato a praticare una disciplina sportiva di proprio interesse a causa delle preoccupazioni sul proprio orientamento sessuale/identità di genere;
– Il 16% riporti almeno un’esperienza spiacevole legata allo sport (insulti, emarginazioni, provocazioni, violenza fisica), in un caso su due a opera dei compagni di squadra.
Dati che riguardano persone dichiaratamente LGBT, che hanno partecipato alla ricerca, mentre rimane una larga parte di sommerso.
Ed è proprio analizzando i dati di questa ricerca che ci rendiamo conto di quanto sia stato difficile uscire allo scoperto per Justin Laevens ed è a lui che vanno i nostri complimenti più sinceri. Perché ha fatto qualcosa di normalissimo ma difficile per la società in cui vive. Di più: vanno i complimenti perché lo ha fatto per se stesso e per gli altri. Perché vorrebbe essere un esempio. Perché forse in questi due anni, in cui ha riflettuto, è stato male a non dire la verità per paura del giudizio, per paura dell’esclusione e ora si è preso per mano e si è detto: «E se qualcun altro, magari più piccolo, ancora adolescente, stesse passando quello che ho passato io? Magari senza l’appoggio della famiglia o, peggio, col timore di dirlo in famiglia». Già, perché Laevens ha sempre avuto l’appoggio dei propri genitori, sono stati anche loro a convincerlo a parlare, a raccontare, perché poi sarebbe stato meglio. Casa, per Laevens, era davvero casa, il luogo della sincerità, il luogo in cui puoi essere tutto quello che sei. Per molti, per timore del giudizio, non è così ancora oggi. Non lo è a casa, figuriamoci fuori. Per questo quell’appello, quel “parlate, ditelo” è importantissimo. Senza fretta, con i propri tempi e la propria sensibilità, ma è giusto parlare, è giusto dirlo, è giusto raccontarlo come si racconterebbe qualunque altra cosa. Il resto è ignoranza e l’ignoranza si sconfigge solo non temendola, non lasciandole spazio per infiltrarsi e per decidere cosa sia giusto o sbagliato. Laevens ha capito il senso più vero dell’essere modelli. Qualcosa che ha a che fare col prendersi sulle spalle ciò che potrebbe non interessarti, farsi carico di qualcosa che ti tocca ma non è solo tuo, soffrire di più, soffrire prima. Essere modelli è questo, essere uomini e donne è questo. Solo questo. Ed è l’unica cosa che interessa in un uomo o in una donna.
Foto: Instagram/Proximus Alphamotors Doltcini