«Si è alzata la tramontana ieri, copriti». È così presto che riesco a malapena a capire chi sta parlando. Si tratta della signora davanti al cui cancello ho parcheggiato la macchina, alle sei del mattino, a Porto Recanati. Effettivamente fa un freddo insospettabile per una località di mare. Manca un’ora alla partenza della 5mila Marche, ma la signora è stata svegliata dal figlio, che non vede l’ora di andare a vedere la partenza dei ciclisti sul lungomare. Non accade molto altro d’inverno, a Porto Recanati: il weekend della Gran Fondo Nibali, organizzato dall’ex professionista Andrea Tonti, ha riempito questo paesino e tutti quelli limitrofi.

 

Andando a ritirare numero da attaccare alla bici e mappa, scopro cosa significa “partenza alla francese”: fissata un’ora, in questo caso le 07:00 del mattino, si può partire a quell’ora precisa, ma anche dopo. Senza fretta. La 5mila Marche bisogna prenderla con calma. Si chiama così perché si fanno cinquemila metri di dislivello in più di 250 km: al via si discute se il primo ci metterà più o meno di dieci ore. Mentre ascolto gli altri, penso inorridito che non ho mai pedalato più di nove ore. Non ho mai partecipato a un evento organizzato con altri ciclisti, che grande idea una 250 km per la prima volta! Non ho mai nemmeno pedalato con un numero attaccato alla bicicletta (quest’ultima voce non viene depennata perché non riesco materialmente ad attaccarlo alla bici).

Devo fare in fretta, lo speaker si sta già spendendo in un discorso motivazionale. È vero che si può partire quando si vuole, in sostanza, ma al primo evento della mia vita potrò arrivare in ritardo? Se il sole fosse sorto una dozzina di minuti prima, mi sarei accorto di aver dimenticato in macchina il ciclocomputer. Me lo fa notare un signore con cui inizio a chiacchierare perché sulle appendici del manubrio ha un accessorio di cui devo chiedergli: è un piccolo specchietto retrovisore «che comprai alla classica più bella, la Amstel Gold Race. Ne trovai solo uno, altrimenti ne avrei comprati di più».

Al primo semaforo, dopo pochi chilometri, tutto il gruppo si ferma. Un centinaio abbondante di ciclisti aspetta il verde, senza particolari smanie. La gran parte di noi è partita col buio e arriverà col buio. Lo strappo che da San Girio porta a Potenza Picena è la prima salita di giornata. Ci lasciamo sulla destra la via Contrada Crocefissetto che siamo già impiccati al rapporto più leggero. Johnny, invece, spinge un rapporto lunghissimo. È alto sui pedali da almeno un paio di minuti, come se la sella scottasse. Ha il casco largo e rosa, gli occhiali, anche in volto assomiglia ad Alberto Bettiol. Ma viene dal Massachusetts. Si è trasferito a Monteriggioni perché «I don’t like America» e non sembra molto in vena di chiacchierare, per il momento mena sui pedali e basta.

Tutto attorno, si svolge la vita normale delle persone. Il furgone del pane, il muratore che fa colazione nel bar sotto casa. Ogni tanto qualcuno ti guarda con un misto di incredulità, stima e sbigottimento. Uscendo da Montelupone, sono tanti i bambini che aspettano lo scuolabus sul cancello di casa, avvolti in sciarpe e piumini che vorremmo avere indosso anche noi.

Francesco ha il k-way nero e giallo della Direct Energie di qualche stagione fa. Stiamo tentando di recuperare un gruppetto in cui l’ultimo ha raffigurato, sulle tasche posteriori della maglia, il volto della Madonna. Dimenticato il navigatore, devo sempre stare con qualcuno che conosce la strada, per non perdermi. Ne battezzo un paio con la maglia del Pedale Lecchese. Esperti. Uno sta distanziando l’altro all’ingresso di Macerata e il secondo, il meno giovane, ha tutto il tempo di raccontarmi di lui e della bici. Non è alla sua prima randonnée, anzi in passato ha fatto la «Parigi-Brest-Parigi, la Alps4000 e altre mattate da oltre mille chilometri».

Entrati a Macerata per l’unica manciata di chilometri in un traffico fastidioso, sussulto quando vedo il monumento ai caduti. Su quelle scalinate venne arrestato Luca Traini, il neofascista che si mise a sparare a chi aveva un colore della pelle diverso dal suo. Fortunatamente, continuando a pedalare si prova a dimenticare anche questi orrori.

Si affianca a noi un signore in pensione, Silvio, coi baffoni. Originario di Pandino, tra Lodi e Crema, un «famoso centro per lo smistamento carni, ma ora delle famiglie che gestivano macelli e facevano salami non ne è più rimasta una» dice con un po’ di nostalgia. Qualche anno fa, Pandino ha ospitato alcune riprese di “Chiamami col tuo nome”, chissà se Silvio l’ha visto. Non fatica, comunque, a trovare un ciclista originario del lodigiano e sentirli parlare in dialetto diverte tutti.

Riascoltando messaggi vocali mandati prima delle nove del mattino, sento i denti sbattere tra una parola e l’altra. Ulivi, campi arati, alberi ai lati della strada e traffico minimo sono lo sfondo delle prime due ore. Addentrandosi nell’entroterra, si nota, come dice Simone del gruppo con cui condivido questi chilometri, che «nelle Marche non sanno cosa sono i tornanti. Vedono una collina e pensano “ma sì, facciamoci passare una strada dritta per dritta”». È una considerazione certamente parziale, ma certi muri mettono il dubbio. Quello di Pollenza lo vedi arrivare da lontano, sotto le ruote senti ogni grado di pendenza cambiare.

 

Ottime notizie: siamo in via Gioacchino Murat, quindi – immaginavo affamato e desideroso di fermarmi – vicino a Tolentino, sede del primo gazebo-assistenza. Nel 1815, il re di Napoli subì la sconfitta decisiva nei confronti dell’impero austriaco proprio qui, nel comune di cui si fatica a trovare informazioni online perché omonimo della scrittrice del New Yorker Jia Tolentino. Oltre al cibo, i volontari regalano opuscoletti (quello sulla basilica di San Nicola è fatto davvero bene) e brochure (“Tolentino musei. Arrivi come turista, parti come amico”) su Tolentino, che per qualche strano motivo ho conservato per tutto il viaggio.

Andrea prende subito una bevanda energetica, un panino e siede per terra per mangiare con più calma. Poco prima, sul muro di Pollenza, era stato in grado di descrivermi le differenze tra la mia Bianchi Infinito e la sua Bianchi Oltre, sul cui manubrio ha ben fissato un enorme ciclocomputer che avrebbe indicato la strada fino a Matera. Mi metto in testa di seguire lui, sempre a ruota, fino a che non torneremo a Porto Recanati, ma il piano fallisce presto: Andrea ha già divorato il suo panino quando io non sono ancora a metà e le mie gambe di rimettersi in moto proprio non ne vogliono sapere.

 

Un tratto speciale della 5mila Marche è quello che collega Tolentino a Sarnano, campo base della prima, vera salita di giornata. Sono una trentina di chilometri con più salita che discesa, con zero traffico e zero pianura perché siamo nelle Marche, con una vista mozzafiato sulle valli circostanti. Per uscire da Tolentino, un bellissimo ponte sul Chienti in selciato. Poi Sarnano, che inganna. Inizia qui la salita di Sassotetto, si sa, ma non subito. Da un paio di chilometri ho tolto il padellone davanti in attesa della salita hors catégorie, ma non comincia. Il cielo s’è fatto nuvoloso e un’indicazione, a bordo strada, spicca sulle altre per bellezza del nome: indica una passeggiata, la Via delle cascate perdute.

Finalmente la salita verso il valico di Santa Maria Maddalena comincia, e forse si stava meglio prima. Si parte da circa 500 m.s.l.m. e si arriva a quasi il triplo. Si parte in gruppo e si arriva sgranati. Si parte con le barrette prese a Tolentino che ancora danno energia, e si arriva che il ristoro in cima è l’unica cosa importante. Alcuni operai stanno rifacendo un terrapieno a lato della strada, ci chiedono se siamo della corsa di Nibali, «certo!» rispondiamo. «Volete un passaggio fino a Porto Recanati, eh?» Ci chiedono senza sapere che a noi interessa viaggiare, non arrivare.

Supero un paio di persone in salita. Uno ha lo zaino e si lamenta in continuazione con se stesso, per non essere stato in grado di vestirsi adeguatamente. D’altronde non è facile: siamo partiti in riva al mare e ora se alziamo gli occhi vediamo cime imbiancate di neve e impianti sciistici. Un altro, proprio a un chilometro dalla cima, ha stracciato la catena. Siede a bordo strada, disperato.

I paletti neri e gialli a bordo strada, quelli che restituiscono inequivocabilmente la sensazione di essere in montagna, si fanno più frequenti. Dopo un tornante verso sinistra, ci si lascia alle spalle lo sperone di roccia rossa, che un local del nostro gruppetto non riesce a ricordare se si chiami Punta di Ragnolo o Pizzo di Meta. Ogni tanto la strada permette di guardare giù, verso valle, e immagine cosa stia succedendo là in basso. Se lo starà chiedendo, solo da molto più in alto, anche Michele Scarponi, la cui stele si trova proprio sul punto di scollinamento del valico di Santa Maria Maddalena. Scarponi ottenne una delle sue vittorie più belle proprio in una tappa che passava da qui: la Civitanova Marche-Camerino della Tirreno-Adriatico 2009, di cui si aggiudicò la classifica generale. «Il mio soprannome è l’Aquila di Filottrano. L’altro giorno, dopo la tappa di Montelupone, il mio compagno Gilberto Simoni mi aveva detto: “Se non vinci ti chiamiamo il Fagiano di Filottrano”».

La stele è in bianco sibillino, «una delle rocce più chiare che ci sono. Poi l’ho incisa e scelto il blu per realizzare un’immagine moderna» mi dirà il giorno dopo l’artista Valentino Giampaoli. Scarponi è rappresentato vittorioso, che indica il cielo, sotto la scritta “correte in bici, divertitevi, inseguite un sogno”. Tira un vento micidiale, che ci costringe a prendere due cose al volo e a ripartire subito. Uso la musette di carta come foglio di giornale sotto la maglietta, ringrazio chi si sta prendendo tanto freddo per rifornirci, e via, in picchiata verso Bolognola e San Lorenzo al Lago. Il primo cartello che si incontra, in realtà, è quello dell’abitato di Pintura: perfetto perché dietro le cime innevate sembrano dipinte per davvero.

In direzione opposta, tante moto storiche, numerate, partecipano a un raduno, una sorta di 5mila Marche a motore. Arrivati al lago di Fiastra, troviamo Andrea fermo sulle scalette di un bar. Poche ore prima mi raccontava di come si fosse stancato, dopo diversi anni vissuti a Bologna, di fare le salite di Mongardino, di Monghidoro, sempre quelle. Va molto forte in bici, Andrea, e ora mi dispiace vederlo fermo a dibattere, sembra proprio, di cose di lavoro al telefono.

Saliamo insieme verso la città universitaria di Camerino, dove perdiamo un’altra occasione per abbandonare la strada più veloce, la provinciale che lambisce solo i paesi, e addentrarci nel centro storico, arroccato su una collina che promette una vista spettacolare. Ma quando hai così tanta strada ancora da fare, allungare è una delle ultime cose a cui pensi. Castelraimondo, Matelica: la SP256 è scorrevole, forse per la prima volta da inizio randonnée facciamo un’ora sopra i 28 km/h di media. Tutto troppo piatto, Francesco? Il meccanico messinese ha fatto buona parte della 5mila Marche con me e ha letto male la traccia: involontariamente, abbiamo tagliato via dal percorso il muro di Brondoleto e Castel Santa Maria. Fanno circa otto chilometri e trecento metri di dislivello in meno. Tante chiacchiere e risate in più.

In “Matelica. I suoi abitanti, il suo dialetto”, Amedeo Bricchi fa uno spaccato del parlato locale dedicandogli paragrafi come “Ciò che della sintassi latina permane nel dialetto matelicese”. È un libro molto complicato e quasi illeggibile da chi non viene da Matelica, ma alcuni passaggi fanno sorridere: «Non è regolare né bella la pronuncia Matèlica con la è aperta, cosa che si riscontra specialmente nella zona di Jesi, Ancora e più a nord, e nelle radio e tv locali di quei territori, e che la Pro Matelica dovrebbe curare di correggere». E ancora, in una nota sui soprannomi della famiglia Carsetti: «Brodolò era il notissimo Antonio, la cui figura di barbiere nella piazza principale è stata per decenni un’istituzione. Quando si sposò, non disse nulla al padre, che venutone a conoscenza lo rimproverò. Imperturbabile, Antonio rispose: “E quando ti sei sposato tu, mi hai detto qualcosa?”. Diceva che sulla sua tomba si doveva scrivere questa epigrafe: Carsetti Antonio non fu mai perverso: non pregate per lui ch’è tempo perso».

Tra Matelica e Pianné, dove la strada inizia a salire verso la seconda vetta terribile di oggi, Monte San Vicino, gli scuolabus stanno riportando a casa i bambini. Braccano è l’ultimo insieme di case, ma non è il classico insieme di case. Ce ne accorgiamo subito, quando su un muro di mattoni vediamo il cartello “paese dei murales” e sulla destra vediamo il primo: una donna con quattro occhi sul muro di una casa, che fissa i randonneur. Una tigre disegnata su una casa gialla, una carpa su un’abitazione color salmone. Catapecchie sfitte rinascono grazie a un po’ di colore. Il murale migliore? Dei panni appesi a un filo, su un balcone di una villetta poco dopo Braccano.

Letizia, un’amica jesina, mi aveva parlato benissimo di Monte San Vicino, ma è ancora più bello di così. La strada rimane in costa per un bel pezzo e si può guardare giù, mentre si sale. Matelica e altri abitati che compongono la valle del fiume Esino (l’unica che abbiamo incontrato che si sviluppa da nord a sud) diventano sempre più piccoli. Una quantità di verde da far impallidire foreste ben più note è illuminata a chiazze dalla poca luca del sole che penetra le nuvole. La cosa da fare sarebbe fermarsi ogni duecento metri e scattare mezz’ora di fotografie, ma la strada chiama: sono una dozzina di chilometri di salita al 7% medio, meno regolare rispetto a Sassotetto. Macchine incrociate in circa un’ora di faticaccia: una.

Avendo mangiato poco a Sassotetto causa freddo, le energie non sono più tante. Ho un ultimo gel e mentre lo apro mi chiedo – siccome è fatto principalmente di acqua, fruttosio e acido citrico – quale sia il verbo più adatto per descrivere l’azione che sto facendo. Si mangia un gel? No, non è abbastanza solido. Si beve un gel? No, non è abbastanza liquido. Si assume un gel? No, non è una medicina. È strana, questa abitudine dei ciclisti, di affidarsi a una sostanza così enigmatica (tra gli ingredienti, sul retro, leggo cloridrato di tiamina: che diavoleria sarebbe?) eppure così indispensabile. Me ne cade una goccia sul manubrio e pur di non assumere quelle tre calorie la raccolgo col dito e me lo metto in bocca. Ognuno ha il suo rapporto coi gel: a me, per esempio, non fanno sentire le gambe per una ventina di minuti. Dopodiché, però, è crisi nera. Lo stomaco inizia a volere qualcosa di sostanzioso, le gambe si intorpidiscono, la testa si chiede perché l’hai preso quel maledetto gel.

Quasi in cima, la salita dà un attimo di tregua. Arriviamo all’ultimo ristoro, allestito poco dopo il GPM, assieme a un uomo argentino che invece saliva dall’altro versante. Scoppia a ridere appena ci vede, capisce tutto: ha preso la traccia al contrario. Per ripararci dal vento, con Lucio e Francesco ci sediamo dietro al camion dell’organizzazione. Ci fosse il thè caldo, ne berremmo un litro a testa. «Fanno tre gradi» dice con accento sudamericano l’ex massaggiatore di Andrea Tonti.

 

La discesa è lunga e abbastanza rotta. Pian dell’Elmo, Frontale, lago di Cingoli. Arrivati ad Apiro, lasciamo attraversare la strada ad alcune nonne che stanno riportando a casa i bambini dopo il pomeriggio a scuola. È divertente: abbiamo incrociato tutti i momenti della vita scolastica. Se i bambini hanno fatto mille cose nel mentre, noi fondamentalmente solo una: pedalato.

Nella salita verso Cingoli, un ciclista con una maglia particolarmente bella prende forma davanti a noi. È tutta nera, coi colori dell’arcobaleno davanti. La indossa Christian, che di quella maglia mi spiega il significato: «È dedicata a mio figlio Teo, che non c’è più» dice con la voce rotta. Dall’emozione, non dalla salita. “Il Sorriso di Teo” è un’associazione di Spoleto che Christian ha co-fondato e si occupa di prevenzione di malattie cardiologiche. Hanno cardio-protetto tante scuole e Christian ne parla con orgoglio. È di nuovo in sella da poco, mi spiega in una chiamata a novembre. Era arrivato a pesare 120 kg, ma «per me la bici è tutto» e ha ricominciato a pedalare. «In bici ho riso, pianto, chiacchierato con Teo: tutto».

Nessun soprannome è meritato come “il balcone delle Marche” per Cingoli. Le colline sottostanti, verdi (color muschio, boschi e siepi) o gialle (ocra, i campi arati) a seconda di dove si posa lo sguardo, continuano per chilometri e chilometri. Il mare – che è anche dove dobbiamo tornare noi – è una striscetta blu all’orizzonte. Al contrario di noi tre, le nuvole in cielo non sembrano aver voglia di continuare assieme il loro viaggio e si sparpagliano, senza logica. Varcata la soglia dei duecento chilometri, Francesco è davvero alla frutta. Lucio gli urla che «a ruota devi stà! A ruota che non pigli aria!».

Sul roadbook si legge che a Cingoli inizia la parte più facile della 5mila Marche ed è probabilmente vero: da seicento metri d’altitudine si deve arrivare a zero e le due salite più toste sono alle spalle. Essendo nelle Marche, però, le strade non ce la fanno proprio ad appiattirsi. Si sale verso Montefano, poi verso Recanati. Non sono salite paragonabili alle precedenti, s’intende, ma il livello d’energia è sul rosso da un pezzo. La luna compare, ancora alta, quando la strada s’inclina e costringe ad alzare lo sguardo. Se Leopardi ha scritto qualcosa sulla luna, mi piacerebbe leggerlo una volta arrivato. Dopo un paio di birre, magari, mi corregge Lucio, che indica Loreto, consapevole della fortuna che ha nel pedalare abitualmente in queste zone.

L’ultimo strappo – l’ultimo, davvero – lo approcciamo che il tramonto sta a metà dell’opera. In via Selve di Sant’Antonio, a prepararci all’ultimo muro della 5mila Marche ci pensano un cavo della luce che sembra colleghi il niente al niente e qualche ulivo sparuto. La casa del custode di villa Beniamino Gigli, tenore marchigiano considerato tra i migliori al mondo tra gli anni Venti e Trenta, ravviva i sensi intorpiditi dallo sforzo. Può tranquillamente essere scambiata per una villa a sé stante: non si capisce se di un rosa naturale o di un rosso sbiadito dal tempo. Si nota bene, invece, che ormai edera ed altre piante la stanno mangiando. Un viale sassoso porta alla villa vera e propria, e lo percorrerei, se non mancasse così poco all’arrivo.

Gli ultimi tre, quattro chilometri sono una meraviglia. Dalla sommità del colle di Montarice è tutta leggera discesa fino al mare. Quel panettone che si vedeva da decine di chilometri si conferma essere il Conero e il cielo dietro assume striature rosa. Le case di Porto Recanati sono luci, si possono contare dall’alto; le gambe a Porto Recanati ti ci portano perché non hanno fatto nient’altro per le scorse dieci ore e mezza. Le foto scattate dalla bici, quel giorno, finiscono qui: se scorro il rullino, Francesco e Lucio hanno una medaglia al collo, triangolare come le colline delle Marche viste di profilo, e si rallegrano di avercela fatta. Come disse Andrea ore prima, con la voce rallentata dallo sforzo sul muro di Pollenza, «non si è mai soli quando si condivide la strada».