In una frazione di corsa dell’edizione 2024 della Freccia del Brabante, al comando si è formato un terzetto: Elisa Longo Borghini, Demi Vollering ed Alessia Vigilia. Forse è questa la prima occasione in cui Vollering e Vigilia si incrociano da vicino. A noi lo racconta proprio Alessia Vigilia: «Non so nemmeno come ho fatto a ritrovarmi lì. Elisa, probabilmente conoscendomi e vedendo la mia fatica, non mi ha mai chiesto un cambio. Demi, invece, ad un certo punto, voltandosi verso di me, mi ha invitato ad andare in testa a fare il ritmo. Cos’ho pensato? Che avrei voluto dirle che era un miracolo essere lì per me e che, se avessi resistito altri due chilometri, sarei già stata contenta. Non ho detto nulla, ma il cambio non l’ho dato, no».
L’aneddoto non è casuale, infatti Vollering e Vigilia sono compagne di squadra a partire da quest’anno. Non è una novità per l’atleta bolzanina essere al servizio di una ciclista di quel calibro, già l’anno scorso in FDJ-Suez, c’erano Marta Cavalli, Cecilie Uttrup Ludwig e Grace Brown e a causa del confronto con queste cicliste, Vigilia ha fatto proprio un modus di affrontare il ciclismo: ridimensionarsi, questa è la parola chiave. «In Fassa Bortolo ero, forse, l’atleta con maggiore esperienza. Tutti erano interessati a sapere cosa pensassi ed il mio parere era al centro dell’attenzione. In queste condizioni, puoi sentirti parzialmente arrivato: ecco, ritrovarsi in squadre con gente come Cavalli o Brown, ad esempio, ti fa capire che ne hai di strada da fare, di pastasciutta da mangiare, perché loro sono oggettivamente di un altro livello».
Differente è anche l’organizzazione; Vigilia definisce «una cosa da pazzi» osservare quante persone lavorino per le atlete in FDJ. Allo stesso modo parla della cura dei dettagli, dell’attenzione ad ogni sfumatura. Si è trovata spiazzata nel momento in cui ha dovuto scegliere i materiali, piuttosto che quando ha deciso che tubeless utilizzare prima della sua prima Roubaix: «Era tutto nuovo, questo era ancor più nuovo. Se così si può dire. Io non provengo da una famiglia di ciclisti, non ho punti di riferimento in tal senso a casa e credo che questo mi abbia penalizzato in diverse occasioni. Sia chiaro: l’appoggio non mi è mai mancato e senza i miei genitori non sarei una ciclista, perché da soli non si riesce ad inseguire una carriera di questo tipo. Mia mamma si caricava in macchina la mia bicicletta ed il passeggino di mia sorella ancora piccola per accompagnarmi ai primi allenamenti. Mi hanno capita, supportata, ma di fronte ai dubbi ed alle indecisioni non potevo chiedere a loro. Capita spesso di dover decidere da che parte stare, se fidarsi oppure no ed in quei momenti io sono sola. Qualche volta telefono a Lucio Rigato ed è lui a consigliarmi». L’ultima volta è accaduto l’anno scorso, prima del Campionato Italiano che, di solito, Alessia Vigilia preparava in altura, soffrendo il caldo: nel 2024 una scelta differente, con la rassicurazione che la condizione non ne avrebbe risentito. «È andata male. Non posso dire che abbia a che fare con quella decisione, non lo so. Però una cosa l’ho capita: ho tanto da imparare, tantissimo, ma non sono nemmeno l’ultima arrivata. Devo ascoltare di più le mie sensazioni ed avere maggior coraggio nel dire quello che penso». Quella famiglia lontana dal ciclismo è stata anche un vantaggio per una donna-atleta che “si è fatta da sola”: «Non ho mai avuto pressioni in casa ed ho il grosso vantaggio che da noi non si parla solo di ciclismo. Non ho mai corso per altro se non perché lo sentivo. E, sono sincera, corro ancora per passione, nonostante il ciclismo sia diventato il mio lavoro».

L’arrivo di Demi Vollering è stato, continua Vigilia, uno stimolo continuo a dare tutto ed anche di più. Il timore poteva proprio risiedere in questa responsabilità, nel rischio di trasformarla in ansia e l’ansia è nemica di un’atleta: Vollering ha scongiurato questa possibilità. «L’ha fatto attraverso il suo modo di comportarsi, attraverso la propria tranquillità e disponibilità. Anche negli allenamenti non cerca una compagna in particolare, ma vuole il gruppo al proprio fianco. La sua capacità di essere leader è a tutto tondo. I presupposti sono stati buoni. Vogliamo correre da squadra, ben sapendo che, avendo Vollering, molto spesso il lavoro toccherà a noi. Abbiamo traguardi ambiziosi: li raggiungeremo o non li raggiungeremo tutte assieme». Demi Vollering fa bene alla squadra, quindi, ed anche al ciclismo, in realtà, perché è innegabile che l’arrivo di uno sponsor importante come Nike abbia anche a che fare con lei: «Hai detto bene, anche ma non solo. Almeno così la penso io. Per Specialized abbiamo sentito la stessa cosa: “hanno Specialized perché hanno Vollering”. In realtà, la firma è avvenuta a dicembre dello scorso anno e ancora nessuno sapeva dell’arrivo di Demi. Credo il merito sia anche del lavoro che FDJ-Suez ha sempre fatto e continua a fare, non solo su strada, ma anche nel racconto delle atlete, con i video e le presentazioni social tratte da episodi della vita reale di una ciclista. I brand si attirano così, diversamente come possono notarti ed investire? Vogliamo fare qualcosa per il ciclismo femminile? Raccontiamolo: è il primo passo».
Non senza difficoltà, perché, dice Vigilia, per una ciclista è quasi più faticoso fare ore di riunioni con gli sponsor piuttosto che fare allenamento, «ma si fa, perché serve per avere materiali migliori, per crescere, per far diventare il ciclismo un lavoro per la maggior parte delle persone che, comunque, lo vivono e faticano». Dall’uso dei social della squadra a quello delle singole atlete: un passo che, con questi brand, probabilmente tutte le cicliste dovranno fare, prima o poi. «Il tema è importante: abbiamo la possibilità di trasmettere un messaggio a molti giovani, dobbiamo fare attenzione a quello che pubblichiamo. Dobbiamo riflettere più volte prima di inviare un post o una storia. Però è una possibilità importante se colta bene. Dall’altro lato, c’è il fatto che non sempre siamo giudicate solo per i risultati su strada, ma anche per come ci “vendiamo” sui social, pur se è finzione, per come curiamo lì la nostra immagine. Ecco, questo non rientra nel mio modo di leggere il mondo, perché, a mio avviso, l’unico biglietto da visita di una ciclista devono essere i risultati, però il mondo va in quella direzione. Forse mi adatterò anche io, ci sto pensando» FDJ-Suez è, di fatto, un team a gestione familiare, indipendente dalla squadra maschile, che continua a investire, nonostante le difficoltà del settore: «Non so da cosa dipenda, di certo mentre da noi, in Italia, spariscono varie squadre, in Francia il panorama è differente: i minimi, da loro, sono molto più del nostro minimo. Equivalgono già ad una ipotetica professional».

In questo contesto, assieme a Demi Vollering, è arrivata anche Juliette Labous: il ricordo di Vigilia è legato all’Europeo 2016, quello vinto da Lisa Morzenti, seconda proprio Vigilia, terza Labous. «Proprio Juliette mi ha detto che si ricordava di me per averle soffiato il secondo posto in quella giornata, per lei non era un bel ricordo, per me sì, abbiamo riso molto. Labous è una ragazza tranquilla, molto calma, pacata, una bella persona. Molto professionale, si vede che è cresciuta in DSM-firmenich». Per chi deve mettersi al servizio, osserva Vigilia, l’importante è sempre saper reagire, adattarsi alle situazioni ed avere la giusta flessibilità per cambiare ove necessario, anche in corsa. I ruoli devono essere chiari, ciascuno deve sapere cosa deve fare e cosa devono fare gli altri. L’anno appena trascorso è stato intenso per Alessia Vigilia: «Inutile dire che inizialmente il timore di essere un numero c’era, di fronte a tanta esperienza e ad un ambiente diverso. In realtà, così non è stato: ho avuto un calendario importante. Mi sono messa alla prova, ad esempio, con la Paris-Roubaix che, se all’inizio sentivo distante, in realtà mi è piaciuta e le pietre mi incuriosiscono. La cosa più importante da dire è che, per l’ennesima volta, ho avuto la certezza, spesso a mie spese, che tutto deve partire da noi, possiamo avere chiunque al nostro fianco, ma se la scintilla non parte dall’atleta non si va da nessuna parte. Per questo continua la mia ricerca: voglio capire chi sono, che tipo di atleta sono, esattamente, e dove posso davvero arrivare. Definire i contorni dei miei limiti. Continuo a lavorare sulle cronometro e sul passo, perché i margini di miglioramento fisico e mentale ci sono. Continuo a lavorare perché tutto ciò che è arrivato è stato possibile solo grazie al lavoro. Il mio grande credo».
Anche grazie a questo “credo” si è rialzata in tempi rapidi da una caduta nella prima frazione dell’UAE Tour che le è costata la frattura della clavicola. Voleva essere alla Sanremo Women, ci è riuscita. E prima è tornata all’università, giusto qualche giorno dopo l’operazione: «Vuole laurearsi». Ci ha detto così papà Ciro. E si laureerà.
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