Primož Roglič: il mondo in un istante

Nel momento in cui tagliava il traguardo della cronometro de La Planche des Belles Filles al Tour, Primož Roglič aveva una faccia che non poteva generare alcun tipo di malinteso. I suoi pensieri non li potevamo conoscere, ma erano facili da intendere; la faccia non mentiva, mentre saliva a fatica, brutto da vedere sulla sua bici, come non si era mai visto prima, e non serviva essere dentro la sua testa – per altro coperta a fatica da un casco antiestetico che pareva andare da tutte le parti - per cercare di interpretarlo.

Il mondo, quello sportivo, pareva essergli crollato addosso in un istante. Tutto, insieme alle sue certezze e a quelle della sua squadra, sembrava assumere contorni nebulosi. Una scampagnata nei Vosgi trasformata in un martirio. Soccombeva a chi arrivava prima di lui al traguardo; dopo di lui, in una presunta linea temporale di nascita, a pochi chilometri di distanza, se invece tutto ciò vogliamo ridurlo a una storia di provenienza.
Una settimana dopo, Primož Roglič si batteva come poteva: dalla Francia a Imola, avremmo potuto intitolare. Pogačar, quel ragazzo più giovane e descritto sopra in poche righe, gli apriva la strada; lui cercava di tenere il ritmo dei migliori, chiudeva sesto, beffato in corsa e umiliato da fischi e critiche da chi, dal Belgio, ripeteva: «Ma come si è permesso di non aiutare van Aert dopo quello che van Aert ha fatto per lui al Tour?» E niente, forse per qualcuno lo stato delle gambe non contava, ma va beh.

E contavano, invece, gambe e facce, e tutto sembrava uno scritto occulto, ieri, sul traguardo di Liegi. Alaphilippe? Una saetta ubriaca. Scartava da tutte le parti con quel suo modo sempre febbrile di interpretare le corse, quelle sue sceneggiate in bicicletta che sono forza, ma a volte anche limiti. Metteva giù la testa, e quasi in modo metaforico sembrava puntare una bandiera slovena sventolante a bordo strada. A destra, poi a sinistra rischiando di far cadere “tutti”. Sul traguardo alzava le braccia per godersi quel momento e farlo suo, soltanto suo, ingannando se stesso e fotografi, ingannando una corsa che da oltre un secolo bacia la primavera belga – e per una volta fa l'amore con l'autunno.

Alzava le braccia, Alaphilippe, spadaccino infilzato da Primož Roglič che non aveva compreso la portata di quell'istintivo colpo di reni. “Istant Karma”, lo ha definito Tylor Phinney prendendosi gioco di Alaphilippe, pochi minuti dopo il verdetto dei giudici che declassavano il francese al quinto posto.
Dalla Francia al Belgio passando per Imola e dagli sberleffi belgi, quel destino ci ha messo un po' di tempo prima di ingraziarsi nuovamente il talento di Primož Roglič. Uno che faceva altri sport, che faceva l'amatore, che sembrava non avere nulla a che fare con il ciclismo: scambiato per sgraziato oppure per inscalfibile. Per una volta, dopo interminabili settimane, nuovamente cavaliere di ventura e col mondo ai suoi piedi.

Foto: Bettini


Aiutarsi a vivere e magari a vincere

Quando Diego Ulissi è salito sul terzo gradino del podio al Giro dell'Emilia, il 18 agosto, l'amarezza del suo sguardo offuscava parte della soddisfazione per i risultati, comunque soddisfacenti, che il corridore toscano stava ottenendo. Sempre lì, secondo, terzo, quarto, quasi il primo posto fosse maledetto. I ciclisti lo spiegano bene: quando manca sempre meno a raggiungere un risultato e non ci riesci, quella volontà, tendenzialmente, diventa una sorta di ossessione, accresciuta dal fatto che manchi poco. E, quando "un'ossessione" ti tormenta, diventa tutto più difficile, dentro e fuori. Dentro perché tutto ti ricorda che sei lì ma non sei primo, perché inizi a pensare a tutto ciò che avresti potuto fare diversamente (e sai bene quanto è inutile ma la tua testa è fatta così e devi conviverci), perché vorresti un pizzico di quel sollievo che viene dal vincere, magari vorresti dedicarla alle tue figlie quella vittoria, a tua moglie che è a casa ad aspettarti, di certo le tue braccia fremono per la voglia di essere gettate all'aria. Così quando vinci, come ieri, le lanci all'aria con tale forza che ti chiedi come facciano a non farti male. Ma è così, quando sei felice non fa male. Accade anche con gli abbracci. Fuori, invece è più difficile perché la gente non sa, festeggia, ride, ti ferma, ti chiede, ti cerca e tu vorresti stare un attimo da solo, per ripensare a dove hai sbagliato. Non puoi perché sei un uomo conosciuto, perché il ciclismo è una festa, perché loro, le persone, non hanno alcuna colpa dei tuoi malesseri.

Diego Ulissi era sul podio e nella testa, probabilmente, aveva questo quando una giovane mamma con una bambina in braccio lo ha chiamato: «Diego, Diego lanciaci il cappellino». Ulissi si è voltato di scatto, inizialmente serioso, ha guardato la mamma, ha guardato la bimba e ha sorriso: «Non posso, mi spiace». La giovane donna ha capito e: «Non preoccuparti, sarà per un'altra volta». Si è voltato e ha iniziato a scendere gli scalini del podio. Ha sorriso pur non avendone alcuna voglia, ha sorriso per chi lo cercava. Capite l'importanza di questo dettaglio? Creare un sorriso per non deludere, perché sai che gli altri vorrebbero questo da te, perché sai che gli altri possono essere felici anche solo per questo. Perché «quel ciclista, quella ciclista, mi ha sorriso, mi ha salutato». Non è poco. Non è nemmeno scontato. Si tratta di una capacità profonda e difficile da acquisire; la capacità di accantonare il tuo "malessere" per qualcuno che ti cerca e ti vorrebbe felice. Per qualcuno che è nel mezzo di una festa e tu non vuoi rovinare la festa di nessuno. Ti ricordi come facevano i tuoi genitori da ragazzino, quando, negli attimi di gioia, ti omettevano le brutte notizie per permetterti di ridere senza ombre. Un poco ti arrabbiavi perché volevi sincerità ma oggi li ringrazi perché risate del genere non sai quando le farai più. E vorresti tanto qualcuno a coprirti le spalle.

E non conta nulla il fatto che il cappellino non sia stato regalato. Non conta assolutamente nulla. Ci sono delle cose che non possiamo fare e di fronte a queste poche parole possono valere. Alle regole non si sfugge, per dignità personale prima che per timore della punizione. Anche di fronte a queste, però, possiamo scegliere il modo di porci con chi ce le chiede. Per una bambina rinunciare al cappellino del proprio idolo è un sacrificio pesante e i grandi dicano ciò che vogliono ma tengano fede a un dovere. Quello di scivolare sulle vite degli altri lasciando il minor peso possibile perché quelle vite hanno già le loro complessità e le loro pesantezze. Cose che non possiamo sapere, non possiamo nemmeno lontanamente immaginare e per questo non dovremmo giudicare. Una cosa però la sappiamo: per andare avanti gli uomini si aggrappano a tutto, ad ogni segnale impercettibile, anche a quelli a cui dicono di non credere. Ecco, abbiamo il dovere di dare qualche segnale di questi. Sempre. Anche e soprattutto quando non ne avremmo voglia e questo segnale servirebbe a noi. Non c'è altra possibilità per aiutarsi, a vivere e a magari a vincere.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto