Attimi di gioia tra il dolore

Oggi forse non era il giorno migliore per appassionare qualcuno al ciclismo, ma che ci vogliamo fare: ogni Giro ha i suoi riti e i suoi appuntamenti fissi, e la Modena-Cattolica rappresenta bene l'interminabile brusio del gruppo compatto fino alla volata finale.

Almeno hanno scelto un bel posto con il mare e la spiaggia, per una di quelle giornate dove si stacca un po', ma dove devi tenere gli occhi sempre aperti, soprattutto perché il finale cittadino ha i suoi tranelli e poi succede come a Sivakov, Dombrowski e Landa che cadono e si fanno male - e speriamo bene, perché Landa non pareva proprio conciato benissimo.

Ricordo quella volta che mi innamorai delle due ruote e dei pedali, e di quel manubrio così strano quanto poi diventato evocativo: c'era Chiappucci che voleva conquistare il mondo provando imprese in salita, c'era Bugno che vinceva, c'erano la Marmolada e il Pordoi al Giro, ma c'erano anche quei pomeriggi estivi con un caldo che pareva definitivo e che non ti si sarebbe mai più scrollato di dosso.

Era il Tour e aspettavi la volata e avevi decine di tappe come quella di oggi. Aspettavi Cipollini e Abdujaparov, uno maestoso ed eccentrico, l'altro il suo perfetto alter-ego, sempre al limite, a volte anche oltre, goffo da vedere ma simpatico, almeno per quel nome esotico che trovavi scritto in mille modi differenti.

Eterni piattoni passati a fare zapping senza una vera ragione tra Antenne 2 (all'epoca si riusciva a vedere nella provincia di Milano, non ricordo il perché) e Raitre; stavi in ansia per la cadute e che quasi sempre coinvolgevano un uomo di classifica, guardavi il gruppo spuntare dietro campi di girasole, o ridicole coreografie con trattori travestiti da leader delle varie classifiche, biciclette giganti, tifosi coi trampoli e, forse già all'epoca, tra la folla c'era quello vestito da diavolo e diventato poi una sorta di icona delle estati francesi.

Oggi, anni dopo, l'attesa di una volata al Giro è più simile all'agonia che a un gioco per ragazzi incantati davanti alla tv. Stamattina scriveva Gabriele Gianuzzi: "Il piattone viene in soccorso dei lavoratori e li lascia tranquilli. Liberi di lavorare senza l’assillo del “chissà cosa starà succedendo”. Perché la risposta è molto semplice: non sta succedendo assolutamente niente. " Difficile dargli torto.

Difatti per oltre tre ore non succede nulla, derubricando il timido tentativo di Marengo e Tagliani prima e di Pellaud, Gabburo e Gougeard poi, a uno stiloso esercizio di gambe che girano, con sponsor ben in vista. Ma ieri han preso freddo e pioggia e sono saliti, oggi c'è il sole e fanno un giro verso il mare con vista sulla spiaggia di Cattolica: pareva dovuto.

Prima dello sprint, che vince Ewan (e sono 4 al Giro) su Nizzolo (e sono 11 podi senza vittoria) e Viviani, oggi perfettamente pilotato da Consonni, ma svuotato di energie dopo ieri, la caduta di Landa che ci lascia in apprensione. Tra i dolori nella gioia finisce il suo Giro, per una carriera che si arricchisce degli ennesimi "se e ma".

E domani si torna a salire, dove più che le cadute potranno fatica e distacchi.

Foto: Luigi Sestili


Come la terra del Friuli

COME LA TERRA DEL FRIULI
[Giro Alvento - Giorno 6]

Alessandro De Marchi l'aveva detto qualche tempo fa, in un'intervista a Bidon: «Al Friuli e ai friulani devi entrarci dentro, conoscerli bene. Una volta che sei dentro hai una visione completamente diversa». Non vale solo per la terra, vale anche per gli uomini e la fatica, vale per gli attaccanti ed i gregari. Vale per lui che è uomo di terra, di fatica, attaccante e gregario. Tutto assieme.

Così c'è molto altro oltre quello sguardo indiavolato sulla «salita dei matti», impastato di lentiggini e sudore, oltre quel ghigno di rabbia e di sofferenza, a denti stretti, a pochi metri dal traguardo di una tappa d'altri tempi tra Piacenza e Sestola. Ci pensava dal mattino De Marchi, pensava che sarebbe potuto succedere ma così no, così non l'aspettava. Perché? Perché tante volte non era andata bene ed «alla fine ti abitui anche a quello». Ha avuto paura perché quando le cose te le immagini, rinunciarci è sempre più difficile. «Temevo che franasse tutto, temevo di restare a mani vuote come tante altre volte».

C'è orgoglio visto che il “Rosso di Buja” ha iniziato a correre a sette anni, ora ne ha trentacinque e «potete immaginare cosa c'è in mezzo».
Per esempio, in mezzo, c'è quella sera in cui andò da Davide Cassani che lo aveva convocato per un ritiro della nazionale e, non riuscendo a vincere da tempo, chiese: «Cosa devo fare per essere un azzurro al mondiale?». Disarmante e disarmato con la semplicità che ti lascia l'aver sofferto. Già, perché De Marchi è passato professionista a venticinque anni e rischiava di non passare: si chiedono numeri, vittorie e lui dava spettacolo ma non riusciva a vincere. Se li ricorda quei giorni, se li ricorda bene.

Forse intendeva proprio questo quando ha detto: «Mi sento fuori posto con questa maglia». Intendeva che poi ciò che ti accade ti segna sempre e tutte le volte in cui ci hai provato e non ci sei riuscito bruciano, anche se non lo dai a vedere. Perché non è giusto, perché tanto chi non ti conosce non capirebbe.

Ne ha sentite di parole Alessandro De Marchi. «Il mondo certe volte ti chiede l'impossibile e non accetta il fatto che in quel momento non puoi riuscirci. A Filippo Ganna consiglio di fregarsene». Non che sia una dote il menefreghismo, ma è l'unica possibilità per salvarsi, talvolta.

De Marchi che ascolta Ludovico Einaudi, Bob Marley e Bruce Springsteen, che è sinfonia e rock, chitarra e metallo. Che crede nelle idee e meno nelle ideologie, che porta un braccialetto per ricordare la tragedia di Giulio Regeni, friulano come lui, e si stupisce quando gli chiedono il perché: «Non c'è nulla di politico, solo la sofferenza di due genitori che cercano la verità: da padre e marito non vorrei trovarmi in una situazione così». Lui che è padre e marito: «E la vittoria la dedico a me stesso e a mia moglie Anna».

De Marchi che da ieri è maglia rosa e dalla felicità stava quasi per piangere.

Foto: Luigi Sestili