Suggestioni

Chi conosce bene il Friuli conosce altrettanto bene i suoi richiami. D'altra parte lo spiega anche lo slogan che fa più o meno: "dal mare alla montagna in poche ore". Oppure il giro inverso, come in questo caso, grazie al potere della Corsa Rosa.
Ieri Carnia, montagna, alta, ma non proprio cime che toccano il cielo. Lingua dura, caratteri chiusi. Poche ore dopo si scende e si parte dal mare, da Grado, per poi superare la collina e vedere Gorizia.
Da Grado, vocali aperte, con quel centro storico che ha qualcosa di pregiato, che può far perdere la testa a chi, romanticamente, schiude il cuore all'inflessione del mare.
Barchette pastello attraccate ovunque, il molo, il consorzio dei pescatori dove chiedere se preparano il boreto, e poi la partenza della tappa attraversando il ponte che collega Grado ad Aquileia. Una volta a Grado ci potevi venire solo in barca.
C'è ancora il sole alto e qualche leggera bava di vento, e Campenaerts ha già attaccato quando una caduta estromette Buchmann dal Giro. Era appena passato il chilometro zero e si era proprio lungo quel ponte. Il giro di Buchmann, sin qui perfetto, finisce contro l'asfalto. La partenza viene fermata e ritardata, quando si riparte scappa la fuga rilanciata ancora da Campenaerts.
Si sono lamentati in molti anche oggi, ma se c'era un giorno in cui era permesso e logico andare via era proprio questo. I rimpianti, piuttosto, sono da ritrovare negli animi di chi non è scappato, poco lesto, stanco o forse distratto, o, piuttosto, nelle altre tappe.
Suggestioni, a riprendere il filo: perché dalla montagna si passa al mare, per arrivare al mosso confine attraversando il Collio, passando in mezzo a tenute, castelli, vigneti, ettari su ettari di prati ben tagliati.
In poche ore abbiamo sofferto in montagna, amato il mare, per poi guardare le colline verdi intorno a Gorizia, passando sopra strade ruvide e con il cielo che via via tendeva al nero.
Vento e suggestioni friulane, dove il tempo cambia repentinamente con il battito di un'ala. Dove le strade si fanno strette, si arrampicano, scendono, si amalgamano con curve a gomito, attraversano il confine per poi rientrare. Dove in pochi minuti si parla in un modo e poi in un altro, dove lingue e accenti si mescolano.
Suggestioni: come quelle che prova Victor Campenaerts all'arrivo dopo aver battuto Riesebeek e dopo averci provato in ogni modo. In fuga sempre, o quasi, in questa stagione e in questo Giro. Ce lo ricordiamo per quella dichiarazione in mondovisione al Giro del 2017 quando arrivò al traguardo mostrando sul petto una scritta grezzamente fatta con un pennarello: "Carlien Daten?". Era la richiesta di un appuntamento. Carlien, la ragazza, acconsentì per poi farlo piangere: "preferisco se restiamo amici" gli disse. Quel giorno al Giro Campenaerts fu anche multato e declassato.
Ce lo ricordiamo anche per il record dell'ora, poco non è, ma da un po' di tempo Campenaerts ha cambiato modo di correre: più aggressivo e sempre all'attacco, stanco di piazzamenti e forse anche di due di picche.
La pioggia batte incessantemente e poi dà tregua. Caldo, poi freddo e vento. Ci si inzuppa: "Ciò che zima che xe oggi", direbbero da queste parti. Ma per Campenaerts la suggestione rimanda a un giorno caldo dove mostrare il cinque a tutti, dove il suo mondo ha funzionato alla perfezione. Suggestioni, per lui che rilancia l'impegno della sua squadra in Africa affermando come «la bicicletta ti può cambiare la vita».

Foto: Luigi Sestili


Pensieri sparsi su fughe e Zoncolan

C'è qualcosa che non convince della giornata di ieri, qualcosa che torna a metà.
Diverse cose interessanti e da salvare, raccontare e tramandare: la parabola zoncolaniana di Fortunato sul quale si spendono parole di elogio ormai da ore, entrato nella storia dopo aver vinto su una salita che in pochi anni è leggenda; il talento (sbocciato, ma aspettiamo il successo pesante) di Covi, secondo a Montalcino e terzo sullo Zoncolan, ovvero le due tappe più attese, in attesa, perdonate il bisticcio, di domani, Cortina.
L'eleganza di Bernal, degna maglia rosa, si sarebbe detto una volta. il suo scatto (l'unico tra i big) nel finale a dimostrare che a oggi solo la schiena o qualche intoppo potrebbero fargli perdere il Giro. C'è Yates (il suo più che uno scatto, un allungo per testarsi e testare) che forse ha davvero calibrato la sua crescita man mano che si sarebbe andati avanti con le difficoltà in aumento. Ciccone e Caruso colpiscono perché non mollano: due italiani tra i primi 5 a fine Giro si possono sognare.

Due parole su Evenepoel, superata la crisi cognitiva (copyright di Kristian Perrone su Cicloweb, andate a leggere il pezzo) di Montalcino, ieri di nuovo in difficoltà lungo la discesa del Monte Rest.

Davanti Izagirre si esibisce nel solito spettacolo di famiglia non appena la strada scende (poi un giorno qualcuno spiegherà la capacità dei baschi di guidare così bene la bici) e Remco si stacca, e poi rientra grazie ai compagni. Sulla salita finale cede (quasi) subito sul forcing Ineos, ma va su del suo passo chiudendo a meno di 20" da Vlasov che aveva acceso la corsa, che sembrava dovesse metterla a ferro e fuoco e invece ne esce come lo sconfitto di giornata.

Il ragazzino belga per quanto abbia ancora dei limiti e per quanto siamo d'accordo tutti non è, oggi, Merckx, sul passo ha un motore con pochi eguali e una gran testa, quella che fa la differenza. Il suo limite, però, viene amplificato dal fatto che i suoi due maggiori rivali generazionali, Pogačar e Bernal, fanno proprio dell'abilità nella guida, sia in gruppo che in altre situazioni, uno dei loro punti di forza. Remco in questo dovrà migliorare, perché così sarà sempre attaccabile.
Aspetti che non convincono. Intanto le fughe. Abbiamo detto: piacevole, anche di più, celebrare le vittorie di Lafay, Schmid o Fortunato, vedere Covi brillare ovunque, oppure Vendrame e van der Hoorn, e le loro storie da raccontare. Però qualcosa non torna quando su 13 tappe in linea ben 7 vedono la fuga arrivare e un'ottava è ripresa da Bernal (unico uomo di classifica a vincere una tappa) a pochi metri dal traguardo.

Sia chiaro, a noi la fuga piace, ma non così. Non quando è un libero lasciapassare tattico e politico da parte del gruppo. Non questa esagerata quanto plateale concessione. Il contentino dato dai più forti. Non questo ridurre ogni giorno a una sfida inclusiva tra fuggitivi, per la tappa, e tra gli uomini di classifica, per piazzamento e distacchi.

Chi vi scrive si era distratto su alcuni fatti ciclistici, come gli succede spesso nella vita di tutti i giorni, e non si era reso conto fino a qualche settimana fa che lo Zoncolan era da Sutrio e non da Ovaro. Due salite non paragonabili. Lo Zoncolan continua a non convincermi del tutto, in realtà, e perde il confronto tecnico rispetto a tante salite e tanti finali di corsa, non solo tra quelli disegnati nell'arco alpino.

Lo Zoncolan è una meravigliosa operazione di promozione del territorio, ha un nome che suona bene, bello e misterioso, dà agli spettatori la possibilità di vedere i corridori passare lenti come non mai, ti fa ammirare e rispettare la loro fatica, lo scenario è quasi geniale per quanto appare perfetto - ieri nebbia e neve, sull'altro versante le meravigliose curve da stadio, ma la domanda è: lo Zoncolan è così interessante dal punto di vista tecnico? È vero che la gara l'accendono i corridori, ma ieri come da previsione non è successo nulla fino a poco prima del chilometro finale - i più ottimisti speravano di vedere qualcosa intorno ai -3, ovvero l'inizio del tratto mortifero.

Almeno lo Zoncolan da Ovaro ti mette in un angolo da subito, pur restando poi una salita dove è (quasi) impossibile scattare davvero, dove con i rapportini ci si salva, dove la selezione arriva da dietro. E in aggiunta: perché non sfruttare per indurire la tappa anche qualcuna delle tante salite lì intorno?
Una sfida che più che ispirare, spaventa, anche se poi alla fine è vero, emergono sempre i valori dei più forti, come ieri Bernal o come tre anni fa Froome.

Foto: Luigi Sestili


Una questione di equilibrio

Il lavoro di Ugo Demaria è uno di quei lavori da spiegare bene. Demaria è fisioterapista e osteopata da molti anni ed è al Giro d'Italia con l'AG2R Citroën. «Credo ci sia un errore di base: alcuni pensano che dall'osteopata si vada solo quando ci si è fatti male in seguito a una caduta. In realtà non è e non deve essere così. Il nostro ruolo è anche quello di prevenire, di risolvere problemi che, magari, ad ora non sono nemmeno avvertiti come tali. Mi spiego meglio: se sali su una bicicletta con una ruota fuori centro, tu puoi pedalare comunque e, per i primi tempi, ti sembrerà anche normale. Fino a quando tutta la bicicletta si storterà e pedalare diventerà impossibile. Agli uomini e alle donne accade esattamente la stessa cosa».

Il punto centrale, osserva Demaria, è che gli umani non hanno naturalmente una conformazione fisica adatta a stare in bicicletta e molti movimenti che devono fare per stare su quella sella sono, per così dire, innaturali. «Determinate posizioni possono comportare dolore, proprio per questo motivo. Tendenzialmente sono situazioni marginali che se corrette portano un vantaggio minimo. Però un Giro d'Italia o un Tour de France spesso si giocano su pochi secondi e non ci si può permettere di trascurare nulla. Io parlo di riequilibrio: provo a fornire un equilibrio al corpo che per molte ore sta in una posizione a lui non consona».
La giornata di un osteopata al Giro inizia sin dal mattino presto, aiuta i massaggiatori, prepara i rifornimenti e poi va in hotel ad attendere l'arrivo della squadra. «Per questioni di tempo non riesco a trattare tutti gli atleti ogni giorno, così la priorità va a chi ha più bisogno di un trattamento per problematiche specifiche». Negli anni, Demaria ha affinato tecniche e capacità e, ultimamente, dopo cena, pratica anche trattamenti che aiutino il riposo.

«A questi atleti si chiede tutto, da loro si vuole tutto. Lo stress e la pressione sono una componente importante. Non sono uno psicologo e non mi arrogo competenze che non ho, ma sono sicuro del fatto che ogni persona che stia a diretto contatto con gli atleti debba cercare di affinare la propria sensibilità e avere particolare attenzione ad ogni dettaglio, anche quello che sembra trascurabile». E la sensibilità, che è pane per il lavoro di Demaria, è duplice. «La palpazione è fondamentale, aiutano i test e gli esami. Soprattutto, però, è necessario ascoltare e, se possibile, aver provato ad andare in bicicletta e conoscere quelle sensazioni. Conoscere la dinamica di un corpo in bicicletta, non solo a livello teorico ma anche pratico».

Il resto sono aneddoti e conoscenza personale. Per esempio quando si parla di Andrea Vendrame. «Potrebbe essere mio figlio. L'ho visto crescere. Nel primo giorno di riposo non stava molto bene, stava ancora entrando in forma. La sera prima ci ha detto che ci avrebbe provato. Diciamo che ci è anche riuscito. Noi avevamo il timore che non tenesse sull'ultima salita, quando ha scollinato poteva perderla solo lui». Demaria gli consiglia di riguardare le gare di Paolo Bettini e di ispirarsi a lui per istinto e tenacia.

Non solo, però, perché Demaria lavora anche con atleti fuori dalla squadra. «Se tutti avessero la testa di Pozzovivo, avremmo una qualità stellare. Pensate che è venuto a cena da me il 22 dicembre: c'erano tante golosità in tavola, lui no. Lui si è mangiato la sua insalata con la carne cruda. A Modolo, invece, una volta feci assaggiare il carpaccio, lo mangiò di gusto e, pensate, il giorno dopo fece scintille alla Sanremo».

Foto: Luigi Sestili