I margini del progresso
Il progresso, nell'oscura visione nichilista di J.G. Ballard, assume i contorni di un futuro distopico, ma quanto mai reale. Va tutto troppo veloce, una società che sa quanto corre, ma non sa dove andrà a finire. Come un'auto lanciata a tutta, lamiere che si contorcono, frenate, botti, scintille. È un condominio che più è alto e più trovi personaggi di un tale squallore. È noia che diventa violenza, omologazione e consumismo. È voyeurismo.
Nella visione ciclocentrica del mondo, il progresso non è altro che biciclette sempre più leggere e veloci, che appena sfiori i freni rischi di assaggiare l'asfalto, di scorticarti, di lasciarci i connotati. Sono "marginal gains", diete ferree, azzardi di ogni genere. Chiedete a van Aert che in una crono al Tour due anni fa, rischiando, finì contro le transenne e sembrò lasciarci una carriera. L'asfalto ribolliva, il sole martellava sulla testa del belga la sua angosciante cantilena, pareva davvero finita. Si lacerò una gamba, si rialzò in tutti i sensi e si ricostruì. Il pubblico invece incuriosito restava a guardare.
Nei secoli il progresso ha portato la bicicletta a essere un mezzo sostenibile. O almeno a tentare di farlo, se solo l'uomo avesse fatto "in tempo a capire quale prodigio è la bicicletta" scriveva Ormezzano in "Apologia della Bicicletta". Al centro, da sempre, c'è l'uomo. Vittima, sperimentatore, carnefice, protagonista assoluto. Al centro del discorso, ecco l'uomo-bici, il corridore, animale contemporaneo per antonomasia. L'arena del nostro svago è la cronometro di Laval, Tour de France. Dove l'uomo-bici si esibisce in quello che è il ciclismo per lo spettatore: un progressista atto d'amore.
E provate a guardare le biciclette da crono oggi per capire a che punto sta il progresso. Pesano pochi chili che verrebbero da quantificare in grammi, fanno un rumore che definiresti strano, quasi impercettibile. Un mezzo lo è, ma non c'entra nulla la mobilità, è per correre sempre più veloce. Al massimo puoi strabuzzare gli occhi nel constatarne le curve da polluzioni, la livrea da non dormirci la notte. Lo scopo non è spostarsi, ma arrivare prima degli altri, portarti verso la maglia gialla, verso la vittoria di tappa, infrangere record - quello dell'ora, ad esempio: che incredibile inno al progresso è?
Trascina il corridore sull'asfalto proprio come l'auto lanciata a tutta velocità. Fa scintille anch'essa, è nuova carne meccanizzata fatta a carbonio, con un tubo centrale, grasso e catene, cambi sofisticati, ruote di una tale leggerezza che sorrideresti se non fossero così variabilmente pericolose.
Il progresso è il tempo che passa tra il pensiero e l'atto. Tra il passaggio di un corridore e l'altro all'intertempo, tra due pedalate. Una posizione aerodinamica è progresso; body e casco sono progresso, un corridore che spinge a tutta "rapporti impossibili" è progresso. Come Tadej Pogačar: prototipo moderno del corridore. Forse un tipo che si è visto raramente, forse elemento ultimo di quello che stiamo cercando. Fisici scolpiti nel marmo, privazioni, lacrime, sangue, fragole, champagne. È la violenza in mondovisione di un gesto quanto mai elementare.
La bici da cronometro è il sunto del progresso: appare perfetta, ma solo all'apparenza. È il gusto sadico di chi osserva cadute che fanno accapponare la pelle, ma ti inchiodano ugualmente al televisore.
Così come ti inchioda la sinfonia di Pogačar che imprime musica al suo progredire in bicicletta. Così come ti esalta l'azione di van der Poel che resiste, illumina, rilancia. Se il futuro nella mente di Ballard era oscuro e nichilista, forse è perché ancora non aveva visto ciò che stiamo vedendo noi oggi.
L'altra faccia della vittoria
Tour de France 2010.
Tappa 16: Bagnères-de-Luchon/Pau.
Durante la salita al Col du Tourmalet Mark Cavendish scivola fuori dal gruppetto, mentre il suo compagno di squadra, Bernhard Eisel, tenta inutilmente di spingerlo a resistere.
Cavendish sta male, ha la febbre, sa che superato il Tourmalet lo attende il Col d’Aubisque e, dopo, 60 km di pianura in direzione di Pau; una tappa gestibile solo in gruppo, impossibile da affrontare in due rimanendo nel tempo limite. In un tentativo disperato di alleggerirsi getta via tutto ciò che lo appesantisce: occhiali da sole, cibo, addirittura le borracce. Eisel non lo molla, è noto in gruppo per il suo incrollabile ottimismo, è determinato ad assolvere al suo compito: scortare Cavendish fino al traguardo.
Mancano 18 km alla cima del Tourmalet e stanno perdendo 10 secondi al km dal gruppetto; Cavendish però è convinto di poter ricucire durante la discesa. Ed effettivamente, passato il Tourmalet, finiscono a tre minuti dal gruppo, ma riescono a rientrare a metà discesa. «Sapevo che eravamo al limite» ricorderà Mark in seguito.
Il gruppetto supera anche il Col d’Aubisque, ma Cavendish è in difficoltà, cerca di mantenere l’equilibrio, mentre sente la bicicletta oscillare sotto di sé, e all’improvviso, come nella migliore sceneggiatura di thriller, fora. «Dove diavolo è finita la mia radio?» impreca, poi ricorda di averla passata a Tony (Martin, suo compagno di squadra) per eliminare più peso possibile.
Mancano 10 km al traguardo di Pau e Cavendish si ritrova solo e senza radio, i suoi compagni di squadra - Bernie, Tony e Bert (Grabsch) – sono in testa al gruppetto, stanno tirando a tutta per rimanere nel tempo limite. Cavendish alza la mano, ma nessuna ammiraglia sopraggiunge: Allan Peiper, suo direttore sportivo, si è fermato per un bisogno impellente – Mark lo scoprirà solo dopo – e nessuno sembra potergli dare una mano. Arriva infine l’ultima auto e quelli dell’Astana gli cambiano la gomma.
In Place de Verdun a Pau, il francese Pierrick Fédrigo vince la volata dei fuggitivi, che comprende anche Lance Armstrong, e si porta a casa la terza vittoria nella corsa di casa; dietro di lui, con un ritardo di circa sette minuti, sopraggiungono Alberto Contador e Andy Schleck, poi un’altra larga parte di corridori, che rimangono entro i 23 minuti di distacco. E infine, 11 minuti dopo, con un ritardo di 34 minuti e 48 secondi da Fédrigo, arriva il gruppetto: 83 corridori, fra cui Mark Cavendish.
Quella sera Bernie, suo compagno di camera, preoccupato per il protrarsi della doccia di Mark entrerà in bagno, trovandolo addormentato sotto l’acqua scrosciante.
Tre giorni dopo, con di mezzo un nuovo passaggio dal Col du Tourmalet, Cavendish, ancora influenzato, sul traguardo di Bordeaux porterà a casa la quattordicesima vittoria di tappa al Tour de France.
Questa storia abbiamo voluto raccontarvela, proprio oggi, perché spiega, secondo noi, molto bene perché Mark Cavendish ieri ha vinto la sua trentunesima tappa alla Grande Boucle.
Un racconto a pois
Il corridore andò in fuga. Mossa preventiva. Appiccicato alla pipa della sua bici la cartina della tappa del giorno, evidenziati i gran premi della montagna, ben impressa nella sua mente la classifica della maglia a pois. In mattinata il briefing con tecnici e squadra: attacca qui, marca là, questo è il leader, quel corridore ha tanti punti in classifica, quell'altro ne vuole racimolare ovunque, non farti fregare, e poi occhio che ti si incollerà a ruota non appena proverai a fare una mossa.
Il corridore prese così la fuga giusta. Tagliò per primo due dei tre traguardi del gran premio della montagna vestendosi a fine giornata con la maglia di miglior scalatore. Sul palco la gioia di vestire "la pois" il simbolo più brillante, divertente e identificativo della corsa francese.
Il giorno dopo vide tifosi e macchie policrome, ma c'era qualcosa di diverso che attirava la sua attenzione. In quell'orgasmo di colori spuntavano bandiere, cappellini, magliette, persino mascherine a coprire il volto di alcuni spettatori: era un turbinio di pallini rossi. Ma soprattutto le voci: per la prima volta in carriera il corridore sentiva urlare il suo nome dai tifosi a bordo strada, gente che probabilmente nemmeno sapeva della sua esistenza fino a poche ore prima.
È l'incanto di una maglia, quella a pois, un sortilegio che premia il miglior scalatore e che fa inscenare battaglie epiche oltralpe. La classifica dei Gran Premi della Montagna fu istituita per premiare Trueba, la pulce dei Pirenei, era il 1933, ma ce ne vollero altri 42 di anni perché nascesse lei, la più iconica di tutte: la maglia a pois. Il fascino col tempo aumenta diventando convenzionale come fosse la numero dieci indossata di un grande fantasista. Si raccontano leggende tanto che in Francia Pierre Carrey, giornalista, ha dovuto scrivere un libro per mette i puntini sulle i, per spiegare il perché di quei pallini rossi.
L'idea di vestirla è ispirazione che scatena le turbolenti gambe di Virenque, eroe in Francia più per le sue sette maglie a pois indossate sul palco con l'Arc de triomphe alle spalle che per vittorie di tappa o podi, lo sarebbe stato per Bahamontes, vincitore per sei volte del premio di miglior scalatore quando ancora questo simbolo non era stato concepito, oppure croce e delizia per Van Impe colui che per primo la portò a Parigi. «Ma questa maglia ha il morbillo!» disse il corridore prima di indossarla la prima volta. Parole che oggi profanerebbero un rito. Storia d'amore per chi è cresciuto con i Tour di Chiappucci che due volte ha vestito quella maglia illuminando le roventi estati dei primi anni '90, manco fossero il primo bacio.
L'ispirazione che arriva da un pistard, Henri Lemoine, chiamato "Petit Pois" corridore di un tempo ormai antico che correva con una divisa a pallini rossi ispirata a quella di alcuni fantini - e chiamata per l'appunto "Little Spots". Lemoine, "un ometto alto come tre mele", faccia da outsider come uscito da un racconto dell'America post Grande Depressione, fu campione del mondo in pista, fu ferito e imprigionato in guerra e gareggiò fino all'età di 48 anni.
Il primo a indossare la pois fu un olandese: Zoetemelk. Il primo a portarla a Parigi quel Van Impe, "de Kleine van Mere" considerato uno dei più forti grimpeur del gruppo.
L'ultimo, oggi, in ordine di tempo, a chiudere temporaneamente il cerchio, un altro olandese, Schelling, che non è forte in salita quanto gli altri, ma si ispira a quei fomentatori di corse, che a modo loro lasciano il segno. Si ispira a quella maglia per cercare la celebrità e sentire urlare il suo nome lungo le strade del Tour.
Ed ecco quel corridore che va di nuovo in fuga. Chi glielo fa fare? Le gambe sono dure, sono messe anche peggio del giorno prima. Cerca conforto nelle parole del suo direttore sportivo: "Vai, attacca per difendere la maglia".
Cerca conforto in un messaggio al telefono della sua ragazza, legge i commenti sui giornali e si gasa, altri messaggi arrivano da tifosi conquistati strada facendo, che magari il suo nome lo avevano scorso distrattamente nella lista di partenza. E poi spuntano, sempre per strada, striscioni dedicati a lui, che fino a ieri era uno dei tanti.
È la forza della maglia a pois che ti travolge come un insolito destino e ti fa conoscere in tutto il mondo.